Libro nero delle Eresie
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Perchè l’eresia è l’invasione nella quiete dell’ortodossia di qualcosa di inaudito, è un pensiero diverso che obbliga l’ortodossia a definire se stessa sempre più precisamente. L’eresia costringe l’ortodossia a migliorare il proprio pensiero, a renderlo più accettato. Questo è quanto accaduto nella storia.
L’eresia interroga. Tutti noi, continuamente. Ecco perchè, questo volume presenta una visione nuova, non solo sulle dottrine eterodosse, ma sull’ortodossia stessa. Conoscere gli eretici permette di guardare alla fede con occhi nuovi e più consapevoli.
Il libro è, naturalmente, solo un primo approccio all’universo enorme del pensiero ‘altro’: è un primo avvicinamento a forme ‘differenti’ del pensiero. L’autore ha voluto fornire una guida per viandanti all’inizio di un percorso di conoscenza, la sola in grado di farci comprendere meglio sia il dogma che il suo (presunto) ‘nemico’.
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Anteprima del libro
Libro nero delle Eresie - Angelo Clemente
Angelo Clemente
IL LIBRO NERO DELLE ERESIE
storie di eretici, roghi e incomprensioni
dalle origini al medioevo pauperistico
Collana Vaticanoterzo
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info@kkienpublishing.it
Sede legale: viale Piave 6, 20122, Milano
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ISBN 978-88-98473-54-0
Prima edizione digitale: 2014
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INTRODUZIONE
Perché l’eresia affascina e ha sempre affascinato? Non è difficile intuirne la ragione: il motivo è certamente legato alla profonda relazione che in ciascuno c’è fra ‘apocalisse’ e ‘integrazione’; fra ‘tradizione’ e ‘novità’; fra conservazione e innovazione. L’eresia, a fronte del pensiero ortodosso è l’invasione di qualcosa di inaudito ma, contemporaneamente, è la necessità per cui l’ortodossia pensa ed è obbligata a definire se stessa sempre più precisamente. L’eresia obbliga l’ortodossia a migliorare il proprio pensiero, a renderlo meglio accetto. Questo è quanto accaduto nella storia.
Ecco, dunque, che questo volume si presenta come una visione nuova non solo sulle dottrine eterodosse, ma sull’ortodossia stessa. Conoscere gli eretici permette di guardare alla fede con occhi nuovi e più consapevoli.
Il libro è, naturalmente, solo un primo approccio all’universo enorme del pensiero ‘altro’: è un primo avvicinamento a forme ‘differenti’ del pensiero. Abbiamo voluto fornire una guida per viandanti, all’inizio di un percorso di conoscenza, sperando che col tempo cresca la voglia di conoscere meglio sia il dogma che il suo ‘nemico’.
1. UOMINI CHE CERCARONO DI COMPRENDERE GESÙ DI NAZARET
LA DIFFICOLTÀ DEL PASSAGGIO DAL GESÙ STORICO AL CRISTO DELLA FEDE
L’eresia si manifestò fin dai primordi del cristianesimo (ma questa è una caratteristica che accompagna tutti i pensieri religiosi ‘forti’): la caratteristica dell’eresia cristiana delle origini fu però davvero singolare. Si trattava di declinare, in un mondo che non ne possedeva il linguaggio adatto, la «figura storica» di Gesù di Nazaret, «profeta grande in opere e in parole» (Luca 24) nella sua «figura di fede». Gli apostoli avevano conosciuto un uomo e avevano predicato un Dio. Questo passaggio non fu per nulla automatico. La mentalità ebraica percepiva come una bestemmia questa equivalenza tra umanità e divinità; la mentalità greca ne intuiva tutta la provocazione intellettuale e l’impossibilità spinta fino all’assurdo, cosa per cui san Paolo pronnunciò la famosa frase: «Cristo crocifisso è follia per i Greci!» (Lettera ai Corinzi).
Tra le resistenze della religiosità ebraica e quelle della filosofia greca, il cristianesimo sviluppò i primordi della propria ortodossia, proprio sotto i colpi e le provocazioni dell’eresia.
I – APOLLONIO DI TIANA, IL CRISTO PAGANO
Un greco che somiglia molto a Gesù
Apollonio di Tiana è una delle figure più antiche che si ersero di fronte alla novità cristiana. Per formazione filosofo di scuola neopitagorica, era nato in Anatolia (l’odierna Turchia) nel I secolo d.C.; quasi compatriota e coetaneo di san Paolo, dunque; come Paolo di Tarso, anch’egli dovette essere immerso fin da giovane nella cultura della grecità, cui il cristianesimo forniva domande e negava risposte...
Per i Greci, infatti, il messaggio cristiano era strano, incomprensibile (soprattutto per quell’idea centrale di una resurrezione dai morti che sembrava un’ipotesi talmente peregrina da far scoppiare in risate e da produrre crolli di capo...), eppure affascinante in qualche modo, in quanto evocava la possibilità, seppur remota, che non tutto dovesse consumarsi in questo mondo; il cristianesimo offriva una speranza che le filosofie, per quanto grandi, difficilmente concedono.
Così Apollonio intuì presto che il cristianesimo non era riducibile a una delle molte follie che circolavano al suo tempo. Della virtù del Cristo egli comprese quanto la sua filosofia gli permetteva; pensando poi di poterlo imitare, si consegnò alla storia proprio come uno specchio della divinità cristiana. Soggetto di narrazioni da parte di scrittori pagani come Filostrato – che ne trasse una biografia su invito di Giulia Domna, moglie di Settimio Severo imperatore (193-211) –, Apollonio fu presentato come un taumaturgo, un uomo capace di miracoli e di trasformazioni della realtà: giunse a essere definito il «Cristo pagano», e a lui fu attribuito persino un culto personale nel III secolo.
Le storie che da lui ebbero origine ci consegnano il clima di un mondo ormai in declino, entro il quale ogni meraviglia sembrava divina.
Un dio pagano in pieno cristianesimo
La storia di Apollonio è la storia dei suoi viaggi e delle sue frequentazioni religiose e filosofiche: studiò la filosofia platonica presso i sacerdoti del Tempio di Esculapio; approfondì come nessun altro le teorie mistiche di Pitagora, al punto da essere considerato il Messia del Pitagorismo; vegetariano (poiché la carne logora l’anima), escluse anche il vino dai suoi alimenti.
Viaggiava scalzo e vestiva al modo degli Esseni, con lunghe tonache di lino bianco. Rinunciò al possesso di ogni bene, distribuendo le proprie ricchezze ai parenti; prima di cominciare a predicare, studiò per quattro anni, in un silenzio di totale ricerca. Poi cominciò a viaggiare. Giunse alle porte di Babilonia, dove apprese i segreti dei Magi; scese in Egitto a conoscere i misteri dei Faraoni; si spinse fino in India, dove incontrò i Bramani e visse tra i monaci buddisti.
Il mito narra che raggiunse il grande «cuore di Shambala», la mitica capitale di Agarthi, il regno della pace insegnato dal buddismo tibetano e che si troverebbe sull’Himalaya, il luogo dove hanno dimora i Grandi Maestri e gli Iniziati di ogni tempo. Dopo il suo pellegrinaggio di sapiente, portò in Grecia e a Roma ciò che aveva veduto e appreso. Fu perseguitato e cacciato, prima da Nerone e poi da Domiziano; fu calunniato da uomini che invidiavano la sua condotta pura e irreprensibile e l’amore che gli portavano donne e uomini che aveva sanato nel corpo e nello spirito.
Insegnò che il culto più elevato è quello senza idoli né simboli; e che ogni religione ha in sé una parte della totale Verità, ma che nessuna può ritenersi sua unica detentrice.
Infine scomparve (non morì, dicono) all’età di 80 anni; la sua tomba non è mai stata ritrovata.
IL FATTO
La donna vampiro
Nella «Vita» che ad Apollonio dedica Filostrato tronviamo questo emblematico episodio che, evocando un miracolo, mostra Apollonio nei panni di un esorcista di vampiri (sembra l’idea di un romanziere del nostro seconlo!): la questione della sessualità è centrale, come anche la libertà dalla carne come la propone Apollonio.
Menippo e la straniera
Tra i discepoli di Demetrio di Corinto v’era Menippo di Licia, giovine di venticinque anni, eletto di spirito e bellissimo di forme, simile a un atleta per bellezza e portamento. Si credeva che Menippo fosse amato da una donna straniera, e questa donna era detta bellissima e stravagante, oltre che molto ricca: ma non era nessuna di queste cose, se non pura apparenza.
Un giorno che Menippo camminava da solo lungo la strada che reca a Cencre, un fantasma d’aspetto femminile gli era apparso, gli aveva stretto la mano e gli aveva detto d’amarlo da molto tempo. Aveva aggiunto d’essere fenicia, e di vivere in un sobborgo di Corinto. Dicendogli il nome del sobborgo, aveva aggiunto: «Vieni a trovarmi questo pomeriggio e mi ascolterai cantare. Ti offrirò da bere un vino quale non hai mai gustato. Non avrai rivali sulla tua strada, e vivremo insieme felici: io che sono bella, e tu che lo sei quanto me».
Il giovane si lasciò lusingare da queste parole perché, benché avesse abbracciato la filosofia, pur tuttavia era dominato da Eros. Andò quel pomeriggio alla casa indicata, e per molto tempo frequentò la donna come amante, senza mai dubitare che non donna fosse, ma uno spirito immondo.
La profezia di Apollonio
Un giorno Apollonio prese a scrutare Menippo misurandolo con lo sguardo come fa uno scultore e, dopo averlo studiato a lungo, gli disse: «Sai tu, bello e desiderato dalle donne più belle, che abbracci una serpe, ed è una serpe che ti abbraccia?».
Menippo rimase attonito, e Apollonio seguitò: «Tu hai una donna che non è tua moglie: ma pensi forse che lei ti ami?».
«Certamente!», rispose il giovine. «Lei si comporta con me come fa una donna che ama».
«Intendi sposarla?».
«Sì: è fonte di gioia sposare una donna che si ama». Apollonio replicò: «Quando celebrerai le nozze?»
«Presto», rispose il giovane, «forse domani stesso».
Apollonio attese il giorno della festa nuziale e, quando i convitati furono giunti, entrò anch’egli nella sala.
«Dov’è la bella per la quale siamo venuti?», chiese.
«Qui», disse Menippo alzandosi e arrossendo in volto.
«E di chi sono l’oro, l’argento e tutti gli ornamenti di questa sala?».
«Di mia moglie, rispose il giovane; io non possiedo che questo», e mostrò il suo mantello.
Apollonio, rivolgendosi allora a tutti, chiese:
«Conoscete il giardino di Tantalo{1}, che a un tempo esiste e non esiste?».
«Sì», risposero gli ospiti, «lo abbiamo letto in Omero, perché non siamo mai scesi nell’Ade».
«Lasciatemi dire, allora», proseguì Apollonio, «che queste decorazioni sono simili a esso: sono soltanto l’apparenza insostanziale di una sostanza. Perché possiate comprendere meglio, sappiate che la seducente fidanzata è un Vampiro, una di quelle Empuse{2} che il popolo chiama Lamie o Mormolyce. Anche i Vampiri sono attratti dal sesso: ma ancor più amano il sangue e la carne umana, e usano il sesso per intrappolare coloro che vogliono divonrare».
La donna allora gridò: «Taci e vattene via!», e si mostrò indignata per quelle insinuazioni, scagliandosi contro il filosofo e chiamandolo insensato. Ma, all’improvviso, le coppe che sembravano d’oro e i vasi che sembravano d’argento svanirono tutti{3}; scomparvero anche, dopo il discorso di Apollonio, tutti i coppieri, i cuochi e i servi.
Allora lo spirito immondo finse di piangere, supplicando di far cessare i tormenti che l’avrebbero costretto a rivelare la sua vera natura. Ma Apollonio insisté finché quello non confessò di essere un Vampiro che aveva invischiato Menippo coi piaceri del sesso per poterne poi divorare il corpo. Infatti, per nutrirsi, lei sceglieva sempre i giovani belli e forti, perché hanno il sangue assai fresco.
(Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, Adelphi, pagg. 75-77).
LE PAROLE DELL’ERESIA
La saggezza di Apollonio
Delle predicazioni e del contenuto del messaggio di Apollonio conosciamo pochissimo, e quasi tutto grazie alla narrazione di Filostrato. Ecco alcune delle frasi che il profeta avrebbe pronunciato e che lo rendono prossimo al messaggio cristiano; i contenuti sono evidenti: l’immortalità dell’anima, la capacità di rimandare all’integrità interiore di fronte a chi domandava miracoli (come Gesù nei Vangeli), e la scelta della povertà.
«L’anima è immortale e non possesso tuo, bensì della provvidenza, e dopo che il corpo si è estinto, come veloce cavallo dalla gabbia, levandosi con facile balzo si unisce all’aria leggera, aborrendo la tremenda e penosa servitù; ma a te che vale tutto ciò? Quando non esisterai più allora crederai».
(Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, Adelphi).
«Un uomo che governava la Cilicia si presenta ad Apollonio con il pretesto di essere ammalato e di aver bisogno che Asclepio lo soccorresse. Si presentò dunque ad Apollonio, che passeggiava in solitudine e gli disse: «Raccomandami al dio». E quello replicò:
«Perché hai bisogno di uno che ti raccomandi, se sei un uomo onesto? Gli dei amano i virtuosi anche senza intermediari».
(Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, Adelphi).
«Ho visto i Bramani dell’India che abitano sulla terra e non vi abitano e stanno al chiuso senza mura e non possiedono nulla se non gli averi di tutti gli uomini».
(Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, Adelphi).
Una seconda fonte di testimonianze è la lettera indirizzata al console Publio Valerio Asiatico, scritta da Apollonio per aiutare il console stesso a superare il trauma causatogli dalla prematura perdita del figlio. Si percepisce in questo testo la profonda relazione con il mondo orientale.
«...Nessuno muore se non in apparenza, come nessuno nasce che in apparenza.
In effetti il passaggio dall’essenza alla sostanza, ecco ciò che da alcuni è stato chiamato nascere; e così ciò che è stato chiamato morire, non è altro invece che il passaggio dalla sostanza all’essenza.
Nulla nasce e nulla muore in realtà. Il visibile diventa invisibile.
Il visibile è prodotto dalla densità della materia, l’invisibile dalla sottilità dell’essenza.
L’essere è sempre il medesimo,
egli è talvolta attività e tal altra riposo.
L’essere possiede questa essenziale particolarità, che il suo cambiamento non è per nulla provocato da qualche cosa che sia al di fuori di lui medesimo: l’intero si traduce nelle sue parti e le parti diventano l’intero, nell’unità del tutto».
(G.C. Tarozzi, Apollonio di Tyana, in Il Centro Occulto di Cracovia, L’Ariete, pag. 69).
II – IL MONDO DI GIACOMO, «FRATELLO» DEL SIGNORE
Una domanda fondamentale: Gesù aveva fratelli?
La questione di Giacomo è estremamente complessa e, oggi, offre uno dei più straordinari punti di riflessione per una comprensione nuova del cristianesimo primitivo.
Detto semplicemente: la tradizione cattolica ha da sempre posto come punto di riferimento per le proprie origini la figura di Pietro (Cefa), capo degli apostoli; ma le scoperte dei documenti ritrovati prima a Qumran e poi a Nag Hammadi a metà del XX secolo, risalenti con buona approssimazione a testi del II, III e IV secolo dopo Cristo, obbligano a rivedere quell’assunto esclusivo a partire da una nuova prospettiva che, d’altronde, le stesse lettere di san Paolo e gli Atti degli Apostoli confermano: a Gerusalemme, ossia nella comunità più importante per le origini del cristianesimo, il capo riconosciuto non era Pietro, ma un certo Giacomo, definito semplicemente (sia da Paolo che da altri antichi testimoni) «fratello del Signore».
Ora, qui non si fa questione del senso di questa ‘parentela’ (che, se intesa alla lettera, metterebbe in crisi tutta la tradizione dogmatica della verginità di Maria: cosa che non è in alcun modo argonmento del presente volume{4}), ma del ruolo che Giacomo ebbe nella comunità delle origini, e che produsse una delle crisi più gravi all’interno del mondo cristiano nascente.
Chi era Giacomo?
Normalmente al nome di Giacomo si abbina l’apostolo, che nei Vangeli è presentato come il fratello di Giovanni l’evangelista. In realtà quel Giacomo, da quanto sappiamo dagli Atti, era stato ucciso da Erode pochi anni dopo la morte di Gesù, quindi non potrebbe essere lui il capo della comunità di Gerusalemme. Ma dalle lettere paoline e dagli stessi Vangeli sappiamo che vi era un altro Giacomo, imparentato (se non proprio fratello) con la famiglia di Gesù stesso: è lui, dunque, la persona che è alla guida della prima comunità e che scrive la lettera neotestamentaria che la tradizione attribuisce, appunto, a un non meglio precisato Giacomo.
Non sappiamo molto di più riguardo a questo personaggio; tuttavia alcune cose risultano evidenti dai testi che a lui accennano: era certamente fra coloro che sostenevano una forte continuità tra il messaggio di Gesù e la tradizione ebraica; contro questa linea interpretativa si era schierato con forza Paolo, che invece sosteneva l’inutilità della Torah{5} ebraica per la salvezza, poiché solo la fede in Cristo è speranza di vita.
Al seguito di Giacomo: i giudeo cristiani
Con il nome di «giudeo-cristiani» la tradizione ci ha consegnato i gruppi di credenti in Gesù affini all’ebraismo, ossia coloro che, pur seguendo il messaggio del Nazareno, propugnavano una rigorosa osservanza della Torah mosaica (alcuni di costoro, gli «angelici», credevano che la Legge fosse stata consegnata a Mosè direttamente dagli angeli) e di tutte le sue prescrizioni (tra le quali la circoncisione).
Gesù, un figlio adottato
Del pensiero dei giudeo-cristiani sappiamo poco, e il poco è sempre riportato dai loro avversari: in particolare sant’Ireneo (Vescovo di Lione vissuto tra il 140 e il 200) li accusava di non credere che Gesù fosse figlio di Dio per «natura», ma che semplicemente fosse stato adottato da Dio dopo il battesimo ricevuto da Giovanni il Battista. Ciò, evidentemente, portava a credere che Gesù non fosse Dio, né il Verbo di Dio incarnato, ma semplicemente un uomo «divinizzato» e scelto da Dio come figlio adottivo.
Se la tradizione ortodossa li accusava di eresia, essi accusavano invece Paolo di Tarso di aver traviato il vero messaggio cristiano per adattarlo ai greci e ai romani. Il vero eretico, per i giudeo-cristiani, era quindi l’apostolo delle Genti.
Un movimento complesso
Al di là del nesso con Giacomo, il movimento giudeo-cristiano era molto complesso e probabilmente diviso in due filoni abbastanza netti: uno che cercava la strada del dialogo con il gruppo di Paolo (probabilmente Giacomo operava con forza in questo ambito di mediazione), e un secondo costituito da estremisti, e che sfociò nell’eresia.
Le notizie su costoro ci sono giunte in modo discontinuo; d’altronde probabilmente anch’essi si frammentarono ulteriormente dopo il 70 d.C., anno della distruzione del Tempio di Gerusalemme a opera delle truppe imperiali guidate da Tito. I gruppi giudeo cristiani noi li conosciamo con vari nomi: Ebioniti, Elcasaiti, Nazareni e, in una ulteriore deviazione, i Nicolaiti.
Un concilio per mediare
Nell’anno 51 si tenne a Gerusalemme il primo concilio della storia cristiana: il tema era quello appena accennato, ossia se i non ebrei convertiti al cristianesimo dovessero o meno farsi circoncidere e seguire la Torah, oppure se a greci e romani fosse sufficiente credere in Gesù senza alcun altro obbligo rituale ebraico.
Lo svolgimento del concilio ci viene narrato dall’evangelista Luca al capitolo 15 degli Atti degli Apostoli. È abbastanza evidente, per chi legge, come nel suo racconto Luca cerchi di smorzare i toni. In realtà la tensione dovette essere altissima tra il partito giudeo-cristiano e quello paolino. La conclusione del concilio diede però una chiara indicazione di massima: per diventare cristiani non era necessario diventare (prima) ebrei. Paolo aveva prevalso. Ma il partito di Giacomo, dal canto suo, non si era dato per vinto: alcuni anni dopo, infatti (possiamo ipotizzare attorno al 60 d.C.), Giacomo scrisse una lettera che sembra una vera e propria presa di posizione nei confronti di Paolo e della sua dottrina della «salvezza per sola fede».
Giacomo morì pochi anni dopo, e la distruzione del Tempio e di Gerusalemme a opera dei romani chiuse in qualche modo la polemica interna alla Chiesa delle origini: l’ebraismo veniva disperso nel mondo e la Chiesa di Gerusalemme cedeva il passo alla comunità di Roma quale centro e fulcro del cristianesimo per i duemila anni seguenti.
I giudeo cristiani, con la loro rigorosa posizionne, sopravvissero ancora per due secoli circa, fino a quando i Concili di Elvira e di Laodicea (IV secolo) non ne condannarono definitivamente le posizioni in quanto eretiche.
Cosa resta del giudeo cristianesimo?
Degli scritti giudeo cristiani a noi non restano altro che frammenti (a parte la Lettera di Giacomo, che è stata comunque inserita nel canone della Bibbia cattolica) o scritti apocrifi quali le lettere Pseudo-clementine, attribuite a papa Clemente I, l’apocrifo Vangelo degli Ebrei, e i Kerygmata Pétrou (le «Predicazioni di Pietro»).
IL FATTO
Giacomo contro Paolo
Per chi volesse rendersi conto di quali tensioni dovevano sussistere tra il modo di pensare di san Paolo e quello di Giacomo «fratello del Signore», non vi è miglior lettura del confronto tra alcuni passi delle lettere paoline e parti della lettera di Giacomo. Alcune frasi sembrano proprio rivelare delle ‘polemiche a distanza’ (d’altronde Paolo stesso, come qui di seguito si può evincere, ammette di essersi scontrato duramente non solo con Giacomo, ma anche con Pietro, accusato senza mezzi termini di piaggeria nei confronti del capo della comunità gerosolimitana).
San Paolo, Lettera ai Galati, 1,13-19; 2,1-14
Inizialmente Paolo spiega la propria origine giudaica, per poi mostrare come e perché ha deciso di mutare il suo percorso interiore e abbracciare la fede in Cristo. Poi passa a definire il criterio per cui egli pone al primo posto la fede in luogo delle opere della Torah (della Legge). Infine spiega il motivo del suo grave contrasto con Pietro «a causa di coloro che erano del partito di Giacomo».
«Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. [...]
Dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito: vi andai però in seguito ad una rivelazione. Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli, per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano. Ora neppure Tito, che era con me, sebbene fosse greco, fu obbligato a farsi circoncidere. E questo proprio a causa dei falsi fratelli che si erano intromessi a spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, allo scopo di renderci schiavi. Ad essi però non cedemmo, per riguardo, neppure un istante, perché la verità del vangelo continuasse a rimanere salda tra di voi.
Da parte dunque delle persone più ragguardevoli - quali fossero allora non m’interessa (!), perché Dio non bada a persona alcuna - a me, da quelle persone ragguardevoli, non fu imposto nulla di più. Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi - poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani - e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare.
Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?»
San Paolo, Seconda Lettera ai Corinti, 11,22-30
In questo secondo testo Paolo sembra volersi difendere da accuse da parte di non meglio definiti «ebrei». Egli risponde affermando di essere «più ebreo di loro». Non è difficile leggere tra le righe la difesa da un’accusa che i gruppi giudeo-cristiani muovevano a Paolo: tu non rispetti la Torah! Paolo risponde «vantandosi» per quanto impegno nella sua vita egli ha dedicato al vangelo.
Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza.
Giacomo, Lettera, 3,14-18
Qualche studioso ha fatto notare come in questo testo Giacomo pare davvero accusare Paolo per il suo atteggiamento: è solo un caso il fatto che questo testo sembri una risposta al brano precedente e una velata accusa a chi lo ha stilato?
Se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non mentite contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrena, carnale, diabolica; poiché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza che viene dall’alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace.
San Paolo, Lettera ai Romani, 4, passim
Ed ecco la teoria di Paolo riguardo la salvezza cristiana: Abramo viene salvato per la fede, così i credenti in Cristo non sono salvi per le opere, ma per aver creduto in Gesù salvatore.
Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia. A chi lavora, il salario non viene calcolato come un dono, ma come debito; a chi invece non lavora, ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia. Così anche Davide proclama beato l’uomo a cui Dio accredita la giustizia indipendentemente dalle opere:
Beati quelli le cui iniquità sono state perdonate e i peccati sono stati ricoperti;
beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato!
Orbene, questa beatitudine riguarda chi è circonciso o anche chi non è circonciso? Noi diciamo infatti che la fede fu accreditata ad Abramo come giustizia. Come dunque gli fu accreditata? Quando era circonciso o quando non lo era? Non certo dopo la circoncisione, ma prima. Infatti egli ricevette il segno della circoncisione quale sigillo della giustizia derivante dalla fede che aveva già ottenuta quando non era ancora circonciso; questo perché fosse padre di tutti i non circoncisi che credono e perché anche a loro venisse accreditata la giustizia e fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo hanno la circoncisione, ma camminano anche sulle orme della fede del nostro padre Abramo prima della sua circoncisione.
Non infatti in virtù della legge fu data ad Abramo o alla sua discendenza la promessa di diventare erede del mondo, ma in virtù della giustizia che viene dalla fede; poiché se diventassero eredi coloro che provengono dalla legge, sarebbe resa vana la fede e nulla la promessa.
La legge infatti provoca l’ira; al contrario, dove non c’è legge, non c’è nemmeno trasgressione. Eredi quindi si diventa per la fede, perché ciò sia per grazia e così la promessa sia sicura per tutta la discendenza, non soltanto per quella che deriva dalla legge, ma anche per quella che deriva dalla fede di Abramo, il quale è padre di tutti noi. Infatti sta scritto: Ti ho costituito padre di molti popoli; [è nostro padre] davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono.
Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento.
Giacomo, Lettera, 2,14-24
Ed ecco invece la teoria di Giacomo: la fede senza le opere (senza la Torah) non vale nulla. La salvezza viene dalle opere (con le quali la fede coopera)!
Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede.
Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza valore? Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. Vedete che l’uonmo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede.
LE PAROLE DELL’ERESIA
Il battesimo e l’adozione di Gesù
La tradizione cristiana non ha naturalmente recepito la posizione giacobita come eretica, come invece è stato per quella dei seguaci ed estremisti della teoria giudeo-cristiana, di cui qui di seguito riportiamo alcuni esempi dai frammenti che ci sono giunti.
«Dopo aver narrate molte cose [il Vangelo degli Ebioniti] così prosegue: ‘Mentre era battezzato il poponlo, venne anche Gesù e fu battezzato da Giovanni. E salito che fu dall’acqua, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito santo, in forma di colomba, che scese ed entrò in lui. Ed una voce disse dal cielo: Tu sei il mio figlio diletto. In te mi sono compiaciuto. E ancora: Oggi ti ho generato. E il luogo fu subito irradiato da una grande luce’.
[E sempre il Vangelo degli Ebioniti aggiunge che] Giovanni a questa vista gli avrebbe detto: Chi sei tu? E di nuovo una voce dal cielo a lui: Questo è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto. [Il Vangelo degli Ebioniti dice ancora che] allora Giovanni cadde ai suoi piedi e disse: Ti supplico, Signore, battezzami tu!. Ma lui l’impedì dicendo: Lascia! Conviene, infatti, che si adempia ogni cosa».
(Epifanio di Salamina, Panarion adversus omnes haereres, in
Patrologia Greca)
Da questo testo, come dal precedente, la tradizione giudeo-cristiana evince che proprio nel momento del battesimo Gesù viene adottato da Dio come ‘Figlio prediletto’, mentre precedentemente era considerato nato come ogni figlio d’uomo; infatti, così continua il Vangelo detto degli Ebrei:
«La loro narrazione afferma che Gesù fu generato da seme umano, e scelto poi da Dio: fu per questa elezione divina che fu chiamato figlio di Dio, dal Cristo che entrò in lui dall’alto in forma di colomba. Essi negano che sia stato generato da Dio Padre ma affermano che fu creato come uno degli angeli [...] sebbene egli sia al di sopra degli angeli e di tutte le creature dell’Onnipotente». (Epifanio di Salamina, Panarion adversus omnes haereres, Patrologia Greca).
*GLI ALTRI DOPO GIACOMO
Del mondo giudeo cristiano conosciamo moltissime espressioni, sempre e comunque non per via diretta, ma attraverso la mediazione dei Padri della Chiesa. La comprensione del senso profondo del giudeo-cristianesimo patisce esattamente questa assenza pressoché completa di testimonianze di prima mano, lasciando a chi oggi si avvicini a questi temi una sensazione di amarezza: abbiamo perduto una ricchezza enorme e originaria. In ogni caso, tra il poco che sappiamo con certezza, vi è almeno la varietà di nomi che i cristiani provenienti dal Giudaismo assunsero; in particolare vale la pensa ricordare:
Gli Ebioniti
Gruppo diffusosi in Siria e Giudea dalla metà del I secolo, che prese il nome dall’aramaico ebhyonnim, che significava «poveri». Gli Ebioniti vivevano un genere di vita estremamente radicale e, pronbabilmente, erano vegetariani. Non mancarono le ironie su questi personaggi, che probabilmente vagavano e vivevano come veri e propri mendicanti: Origene, per esempio, diceva che la loro vera povertà era mentale: essi venivano considerati «poveri di mente» da uno dei maggiori teologi cristiani di sempre!
Anche lo storico Eusebio di Cesarea (265ca-340) interpretava l’epiteto in modo dispregiativo; secondo lui, però, erano «poveri» perché avevano di Cristo una «povera opinione».
Il Vangelo degli Ebioniti fu il testo di riferimento di questa setta; perduto, doveva presentare, dal poco che ne sappiamo, una concezione di Gesù come di un profeta di eccezionali doti (ma non di natura divina). Nella concezione degli Ebioniti il vero ingannatore e apostata del cristianesimo era Paolo di Tarso.
La setta patì il crollo di Gerusalemme e la diasponra ebraica e continuò a operare fino al VII secolo, quando infine scomparve del tutto.
I Nazareni
Altro gruppo simile agli Ebioniti (tanto che rimane il dubbio se si trattasse di una diversa setta o semplicemente di un diverso nome della medesima), sembra che essi abbiano accettato la figura di Gesù Cristo come Messia. Loro libro di riferimento era il Vangelo degli Ebrei o Vangelo dei Nazareni, anch’esso perduto.
Gli Elcasaiti
Fondata da un non meglio conosciuto Elkesai (secondo sant’Agostino si chiamava Elci), la setta degli Elcasaiti aveva un carattere magico-astrologico. Il loro libro era il Libro di Elkesai, che un angelo aveva consegnato appunto al fondatore. Nel libro veniva descritto anche l’angelo stesso: alto 154 chilometri e largo 27 (sic!) il quale viaggiava in compagnia di sua sorella, lo Spirito Santo.
Qualcuno pensa che Mani, il fondatore del manicheismo, avesse in gioventù frequentato gli Elcasaiti.
III – NICOLA E I SUOI SEGUACI: LIBERTÀ DI PECCARE!
Uno dei sette diaconi?
Di Nicola non si sa pressoché nulla, se non che da lui venne il nome dato alla setta dei Nicolaiti. Visse attorno alla metà del I secolo; ci si chiede se fosse lui il diacono di nome Nicola, compagno del martire Stefano, di cui parlano gli Atti degli Apostoli. Probabilmente la risposta non la si avrà mai.
Di altri Nicola non abbiamo testimonianza nel Nuovo Testamento e negli scritti apostolici, per cui non ci resta che ipotizzare che quel diacono davvero corrisponde a lui. Di certo c’è che la sua dottrina era già ben diffusa alla fine del I secolo, quando venne scritta l’Apocalisse di Giovanni.
Così gli Atti:
«Elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmena e Nicola, proselito di Antiochia» [6,5]
È il più grande avversario degli eretici dell’antichità, sant’Ireneo, a collegare per primo quel Nicola al fondatore della setta dei Nicolaiti; ma altri autori cristiani, come Eusebio di Cesarea la pensavano diversamente.
L’uomo che condivideva la moglie con gli amici
La dottrina nicolaita non ammetteva la divinità di Cristo, e trasformava il messaggio evangelico in una dottrina solo interiore, escludendo ricadute sulla vita quotidiana e morale.
Il credente, poiché già salvo, non doveva fare altro che condurre la propria esistenza senza preoccuparsi del bene o del male: la mancanza di pratiche esterionri, secondo le testimonianze che abbiamo, portò però presto ad atteggiamenti idolatrici e libertini.
Riguardo a questa interpretazione dell’atteggiamento nicolaita è in realtà difficile distinguere tra verità e leggenda, poiché le testimonianze, come si è detto, sono tutte di parte: per esempio si raccontava che per mostrare la propria libertà dalla relazione coniugale e dai bisogni sessuali, Nicola di Antiochia offrisse sua moglie (che gli stessi Padri della Chiesa descrivono come bellissima) ad altri, rivelando in quel modo quanto poco fosse legato agli affetti