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Mahabharata III: Il sacrificio d'oro
Mahabharata III: Il sacrificio d'oro
Mahabharata III: Il sacrificio d'oro
E-book391 pagine5 ore

Mahabharata III: Il sacrificio d'oro

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Info su questo ebook

Con questo terzo volume la grande epopea del Mahabharata raggiunge la sua conclusione. Nella sua brillante ed originale interpretazione di quest’ultima parte dell’opera, Lidchi-Grassi dà voce alle vittime dimenticate di tutte le guerre – gli ordinari cittadini che devono risollevarsi e ritornare alla loro vita di tutti i giorni. Il vecchio ordine è stato distrutto, ma il nuovo non è ancora nato. Come fare per farlo emergere?
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2016
ISBN9788871834252
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    Anteprima del libro

    Mahabharata III - Maggi Lidchi-Grassi

    Parte Prima

    IL GRANDE SACRIFICIO D’ORO DEL MAHABHARATA

    1

    Quante paure ci sono nella vita di un uomo! Per uno Kshatriya allenato alla scuola di Dronacharya ce n’è solo una: la paura di aver paura. Ho attraversato e riattraversato le più sconfinate aree del mondo e udito tigri strappare i pioli della mia tenda. Ho sentito l’alito caldo di orsi che fiutavano intorno a me e, una volta, la proboscide di un elefante ha fatto oscillare la mia amaca come una culla. Dopo Kurukshetra e il Narayanastra pensavo che nulla potesse impaurirmi.

    Molto prima di arrivare ad Hastinapura, la città degli elefanti, avevo già cominciato a percepire l’attesa della gente, e mentre mi aprivo un varco nella foresta, avevo sentito sorgere in me un sentimento di riluttanza. Era la stessa foresta che, con mia madre e i saggi, avevo attraversato dopo la morte di mio padre. Nonostante la perdita che avevamo subìto vi eravamo arrivati sereni e pieni di fiducia. Ma alla stregua della piccola riserva d’oro che il villico porta in città pensando che gli durerà per sempre, la nostra serenità si era ben presto dissolta.

    Uno di quelli che allora ci osservavano dalle finestre, attratti dal rumoroso battere dei bastoni dei saggi, non ci aveva mai abbandonati. Era Zio Vidura e ci stava ancora aspettando. Pensare a lui mi rincuorò. Ma avevo bisogno di tale pensiero per sentirmi rincuorato, visto che sapevo che Subhadra e Parikshita mi stavano aspettando seduti nel nostro giardino? Pareva proprio di sì. Avevo un oscuro presentimento che, così come avevo intravisto e poi smarrito Krishna, Hastina avrebbe dissolto la saggezza nata in me nel deserto, come se fosse stata un miraggio.

    Lasciai la strada principale per inoltrarmi in un piccolo bosco, una scorciatoia che mi avrebbe condotto alla periferia della città. Il mio cuore cominciò a battere. Era la fine di qualcosa, della libertà, e mi resi conto che il vagabondo in me non era morto. Ma Subhadra e il figlio di Abhimanyu chiamavano, e il mio cuore si quietò come un uccello selvatico che vola verso una mano tesa. E di lì a poco sarebbe sopraggiunto Krishna. Lui racchiudeva in sé tutte le peregrinazioni, tutte le avventure, tutti i mondi, senza eccezione. A quel punto la mia anima gioì come mille delfini.

    Scesi da cavallo e camminai un po’ prima di sedermi sull’erba per riposare. Portavo con me il Cavallo Sacrificale e stavo tornando ad Hastinapura. La brezza divenne fredda e sembrava trasportare una parola, un nome nel suo respiro: Durga… Durgadas? Durga, la Dea Madre, che accoglie le nostre preghiere prima della battaglia.

    Il sacro cavallo girò la testa come se avesse udito e stesse rispondendo al suo nome.

    Prega Durga, Krishna mi aveva detto prima della battaglia di Kurukshetra, prima che dessimo fiato alle nostre conche di guerra.

    Ancora annegato nella sua rivelazione, il mio Essere si trovò a mormorare: Prego te, mio Signore.

    Prega Durga, insistette.

    Adesso sapevo da dove era venuta l’ingiunzione. Era stata un’intimazione che forse suggeriva un’altra campagna. Ma chi avrebbe potuto sfidarci, ora?

    Qualsiasi cosa sia, meglio andarle incontro, dissi al sacro cavallo, che tu sia Kalidas o Durgadas." Ma già mentre pronunciavo quelle parole sapevo che d’ora in poi non sarebbe stato altro che Durgadas.

    Eravamo ancora avvolti dall’oscurità della foresta. Vidi la luce del sole attendere dove gli alberi terminavano e dissi a Durgadas: Stiamo andando incontro ad un nuovo inizio. Tirò su la testa e allungò il passo. Lo raggiunsi con la mia cavalcatura e per un po’ proseguimmo più vicini di un tiro a due su di uno stretto sentiero, Prajapati ed il suo protettore, benché fossi conscio che lui proteggeva me più di quanto io facessi con lui. Quel genere di cavalcate non avrebbe mai più avuto luogo. Presto Durgadas sarebbe stato prigioniero nella scuderia del re cavallo. Non sarebbe stato più lui a condurre, ma lui condotto sul palco del solenne regale sacrificio. Questo pensiero mi trafisse il cuore, feci schioccare la mia frusta al di sopra delle nostre teste e gli rivolsi l’invocazione: Prajapati guidami ancora una volta. La sua coda intrecciata si rizzò, girò la testa e agitò la criniera che gli ricadde sul collo e sugli omeri come a un guerriero, poi, riunendo le zampe, si lanciò in avanti, filando fra gli alberi, nel tentativo di lasciarmi indietro. Ridendo a denti stretti lo seguii. Il vento mi soffiava tra i capelli e sollevava la criniera del mio cavallo. Mi ritrovai sul sentiero che ora si divideva in due. Una leggera cortina di polvere m’indicò che dovevo andare a destra, ma quando il sentiero finì non c’era più traccia di Durgadas, solo un ritmare di zoccoli che sfumava in lontananza. Dronacharya mi aveva insegnato a scoccare le mie frecce guidato dal suono. Voltai la testa del mio cavallo. Il rumore degli zoccoli si spense come se una porta si fosse chiusa fra noi. Eravamo soli e la mia cavalcatura lo sapeva. Avvertendo la mia insicurezza, rallentò in attesa che decidessi. Per la prima volta avevo perduto il mio cavallo Ashwamedha. Per più di un anno era stato il mobile punto di riferimento che avevo seguito. Mi voltai a cercarlo e smontai procedendo a piedi al fianco del mio cavallo che ora schiumava.

    La profonda quiete della foresta si fece avanti per incontrare le eco del silenzio. Il mio orecchio ne fu tramortito. Il richiamo in quattro sillabe di un uccello perforò la quiete con una domanda: Dov’è, allora? Ripetuta e ripetuta divenne: Chi è dunque?

    Il silenzio aveva suscitato qualcosa in me. Ora tutto era tornato tranquillo. Fermai il cavallo. Era come se qualcuno avesse lanciato un cappio intorno al sacro animale. Ma ora eravamo a casa.

    Il cappio si strinse attorno al mio cuore. Poi si spezzò con un colpo secco e mi ritrovai felice, esultante, come folgorato nel comprendere contro che cosa il mio cuore si era ribellato: non volevo entrare in Hastina, non volevo consegnare Durgadas per il sacrificio.

    Questa consapevolezza era così forte, così profonda da togliermi il respiro. Il sacro animale apparteneva alla Divinità. Era di Prajapati. Augurarsi la sua fuga era peccare oltre ogni possibile espiazione.

    Il mio cuore rimase impassibile. Sapevo solo che non volevo quell’uccisione. Offrire i propri figli agli Dei. Che specie di sacrificio era questo? Durgadas era un destriero celeste, una forza del cielo. Lasciamo che gli Dei, se lo vogliono, lo richiamino – io non sarei stato d’intralcio, ma non avrei messo mano a spegnere la sua esistenza luminosa. Lanciai la mia sfida e giurai a Durgadas che avremmo cambiato la consuetudine. Scesi da cavallo e mi sedetti fra le foglie cadute per riflettere sulla mia decisione e sull’Ashwamedha.

    Per me il sacrificio del cavallo sapeva di quando offerte umane venivano sepolte sotto le fondamenta degli edifici, oppure, per via dell’antico Sarvamedha, di quando un uomo e un cavallo venivano squartati e dati in offerta. Doveva esserci stata un’epoca in cui questo era sembrato naturale quanto l’Ashwamedha. Chi, mi chiedevo, ha cambiato quell’usanza? Era qualche Dio che ora mi diceva di cambiarla nuovamente, o era la mia stessa voce quella che mi sembrava di udire?

    Sfidare la tradizione in questo avrebbe significato frustrare il più ardente dei desideri di Fratello Maggiore. Lui ora viveva solo per mondarci dalla colpa di avere ucciso dei congiunti. Per quale altro scopo avevo seguito il cavallo Ashwamedha attraverso tanti paesi? Se avessi tentato di salvare Durgadas dal suo destino, avrei rovesciato l’Impero per il quale avevamo pagato con le vite dei nostri figli? Nemmeno il veleno kalikuta avrebbe potuto bruciare più intensamente del pensiero di Durgadas legato al palo con la mannaia del sacerdote sospesa sul suo collo.

    Perché? Perché adesso venivo colto da questo dilemma? Nel deserto avevo visto come qualsiasi granello di polvere può incatenarti se ti leghi ad esso e me ne ero liberato. Ora mi stavo legando ancora una volta. L’uomo non scioglie i suoi ormeggi facilmente. Il deserto può darti la libertà, ma lascia il deserto e con esso lascerai la tua libertà.

    A Kurukshetra Krishna aveva detto: Tutti questi uomini sono già morti, ma aveva anche aggiunto che bastava offrire un fiore, una foglia o anche soltanto acqua. Aveva messo fine al sacrificio di animali.

    Era di nuovo come a Kurukshetra quando dovetti scegliere fra l’uccisione del mio guru e del solo padre che avessi conosciuto, e l’abbandono di Krishna e dei miei fratelli. Quel giorno, disse Krishna, il mondo fu in bilico. Provavo la stessa sensazione anche oggi. Il mondo attendeva la mia decisione.

    Era ancora una volta fragilità di cuore, mancanza d’eroismo? Avvertivo la stessa confusione di quel primo giorno. Dopo tutto, allora ero la principale speranza di una grande causa contro l’ingiustizia. Ora il mio lavoro era finito. Tutto quello che dovevo fare era entrare in città. Ora sarebbero stati i sacerdoti a prendere il mio posto. Ma a questo pensiero l’oscurità discese sulla mia anima. Avevo la bocca secca e Krishna non era con me a consigliarmi.

    La ragione mi suggeriva che allora si trattava della grande battaglia del mondo. Questo non era che un sacrificio, ma il cuore mi diceva con una forza ancora più grande che anche questo faceva parte di una battaglia, una battaglia fra mondi invisibili.

    Saper scegliere. Discriminazione. Sentivo la risata di Krishna: Jishnu, non hai ancora imparato! Giacevo fra le foglie, le mani dietro la testa, e osservavo il pezzo di cielo che si intravedeva fra gli alberi aspettando un segno. Una nube vi entrò assumendo le sembianze di Durgadas, criniera al vento e zampe completamente distese. Un’altra prese il suo posto: Durgadas a testa bassa accanto al palo sacrificale. Gli Dei non volevano mandare segni. Toccava a me scegliere. La sua liberazione e la sua morte, entrambe aleggiavano sopra di me, così dovevo decidere per una di esse. Dopo un po’ una nube rotonda, correndo veloce e ruotando su se stessa, mi fece pensare a qualcosa: il Narayanastra aveva attraversato il cielo allo stesso modo. Dopotutto un segno c’era stato, una forma che diceva: Arrenditi.

    Arrivai sulla strada tra Shudra e Vaishya, nient’altro che uno Kshatriya logoro e stagionato. Nessuno raddrizzava la schiena o girava la testa a guardare. Poco dopo m’imbattei nell’avanguardia di una pattuglia proveniente dal palazzo, ma persino loro, sulle prime, non mi riconobbero.

    Fu uno dei vecchi consiglieri suta di Zio Dhritarashtra che, dopo essersi voltato a guardare più volte, riportò indietro il suo carro esclamando: Principe Arjuna! Mi si accostò, saltò giù fissandomi in viso. I suoi occhi si riempirono di lacrime. Si prostrò e le sue lacrime bagnarono la polvere. Lo aiutai a rialzarsi e l’abbracciai. Al di sopra delle sue spalle vedevo il cielo, gli alberi e uomini con archi, scudi, spade, uomini che non mi avrebbero sfidato. Alcuni di loro sorrisero timidamente, altri rimasero a bocca aperta. Altri guardarono con curiosità. Dopo un po’ liberai il suta di mio zio dal mio abbraccio. Principe Arjuna, Principe Arjuna, continuava a ripetere con voce rauca di emozione. Ciò che hai fatto, mio Signore, nessuno l’ha fatto mai senza un esercito alle spalle e nessuno lo rifarà mai. Guardò attorno alla ricerca del destriero Ashwamedha, ma era un consigliere troppo esperto per fare domande.

    Mi furono riportati i saluti di rito e i messaggi di Fratello Maggiore e Zio Dhritarashtra. Seguirono le lodi e i ringraziamenti agli Dei che mi avevano protetto. Alla fine, incapace di trattenermi, sorrisi e gli posi una mano sulla spalla.

    Come sta mio nipote? chiesi.

    Il Principe Parikshita, il Principe Parikshita. Cresce vigoroso come grano diventato maturo. Come potrebbe essere diversamente, dal momento che è affidato alle cure di Subhadra, la nostra Signora, che anche sta bene, fece un sorriso discreto, soprattutto da quando ha saputo. Poi, mettendo da parte il protocollo, non si trattenne: La Principessa Uttara ha fatto i passi di danza che le avevi insegnato a Matsya, appena ha saputo del tuo arrivo, mio Signore. Mi resi conto che l’unico argomento in Hastina era quello del mio ritorno, e non appena egli farfugliò qualcosa del banchetto che Bhima aveva proposto di stendermi di fronte, dei cavalli che i gemelli stavano strigliando per me e di come sia Fratello Maggiore che Draupadi avessero pianto di sollievo alla notizia del mio ritorno, il sentimento di riluttanza che nutrivo nel cuore cominciò ad ammorbidirsi. Da lontano lanciai uno sguardo verso Hastina. Il vecchio uomo si batté la fronte e si rivolse ai suoi uomini: A che cosa state pensando? Abbiamo portato tende e letti perché la polvere li ricopra? Allora l’attività esplose, mentre io fui fatto sedere su un carro. La bianca seta della tenda che lo copriva sembrava un immenso fiore su cui svettava il mio stendardo che si offriva al vento. Quando lo vidi sfidare il cielo compresi che tutte le battaglie si erano concluse, che ora ero a casa, e a quel punto la stanchezza sconfisse il mio corpo. Soffocai uno sbadiglio, ma nonostante le nocche premute contro le labbra, un secondo sbadiglio mi costrinse a spalancare le mascelle.

    All’interno della tenda m’attendeva un letto con candide lenzuola. Tra quelli che vennero ad occuparsi di me c’erano medici, barbieri ed esperti massaggiatori. Mi lavarono con acqua profumata sulla quale erano stati cantati mantra. Mi frizionarono la pelle raggrinzita con oli di molteplici erbe. Caddi addormentato, sognando di Durgadas, trasalendo solo quando le dita che mi massaggiavano si avvicinarono troppo a una delle ferite. Mi lasciarono dormire e, quando mi svegliai non sapendo dove fossi, le loro facce gravi e ansiose mi rassicurarono. Mi sollevarono, mi sfoltirono e oliarono i capelli. Subhadra mi aveva fatto portare la mia grossa collana fatta di diamanti e sei giri di perle. Gli angada che mi portarono sfavillavano di gemme. A quel punto, col mio diadema e con quel seguito, non potevo venire confuso con qualcun altro che non fosse Arjuna il Conquistatore. Alla fine mi nutrirono.

    Ma dov’era Durgadas? Nessuno osava chiedermelo. Salii sul carro d’oro dell’eroe conquistatore, con leoni ed elefanti scolpiti dappertutto, e appena l’auriga fece schioccare la frusta e i cavalli scaricarono il loro peso sul carro, Durgadas uscì dalla foresta con misurata dignità. Mi superò e mi lanciò uno sguardo sbieco che voleva dire che aveva aspettato che fossi presentabile, poi sbuffò e si mise alla guida.

    Grande fu l’esultanza. La brava gente della città e dei dintorni pensava che non avrebbe mai più rivisto il suo Principe Arjuna. L’unico grido che saliva al cielo quando passavamo era: Vittoria al Principe Arjuna. Chi se non il Principe Arjuna… Avevo già udito i molti nomi coi quali il popolo mi chiamava, Invitto e Invincibile, Colui che non teme. Oggi ne udivo molti altri, fra i quali Dhananjaya, Conquistatore di ricchezze. Ricevevo le benedizioni di tutti e quando la rappresentanza che proveniva dal palazzo si fece avanti, era come se portasse le più alte benedizioni dal cielo. Dietro, sul carro di Zio Dhritarashtra, Krishna sedeva accanto a Fratello Maggiore; il suo sguardo tenero e divertito diceva: Pensavi che non sarei venuto a salutarti? Dolcezza fluì nelle mie vene.

    Mi lanciai quasi oltre Zio Dhritarashtara, ma mi obbligai a sfiorargli i piedi, permettendogli di passarmi le dita fra i capelli, mentre tenevo lo sguardo fisso su Krishna. Caddi ai piedi di Fratello Maggiore. Ci stringemmo l’uno all’altro.

    Dopo avere rivolto il mio abbraccio a Bhima e averne ricevuto le costole mezze rotte, mi ritrovai, come tante volte nei sogni, faccia a faccia con Krishna. Non avevamo mai stabilito con sicurezza chi fosse più anziano, così ogni volta facevamo a gara a prostrarci per primi. Questa volta ci limitammo a fissarci e fissarci ancora. Con gli occhi cercavo di dirgli che non mi aveva mai lasciato. Le mie labbra pronunciarono Krishna. Come sempre quando lo vedevo, alberi, uomini, cielo e terra esplosero di luce e colore. Toccai i suoi piedi, lui i miei. Tutto sarebbe andato per il meglio.

    2

    Quando iniziò la tradizionale processione d’elefanti, questa volta però moltiplicata per dieci, la città fu subito invasa da una grande allegria. Dove hai trovato tutti questi elefanti?, continuavo a chiedere. Fratello Maggiore rispose che, a costo di svuotare completamente i forzieri, nulla avrebbe dovuto essere risparmiato per le celebrazioni del mio ritorno. Fui quasi sommerso dai fiori e dai profumi. Le danze nelle strade, i mimi, gli spettacoli di burattini, la baldoria andarono avanti per giorni. Perfino io, che avevo la mente altrove, mi resi conto del particolare splendore che riluceva nelle giovanissime danzatrici. Tutti ammiravano l’incredibile bravura dei mimi.

    Krishna non mi permise di parlargli di Durgadas fino a quando le celebrazioni non furono alla fine.

    Arjuna, sei troppo teso. Se a Kurukshetra avessi scagliato le tue frecce in questo stato, sul trono oggi sederebbe Duryodhana. Dici di avere avuto un presagio di resa. Come ci arrendemmo noi al Narayanastra?

    Se ci sdraiassimo ora, i sacerdoti passerebbero dritti sopra di noi senza neanche accorgersene.

    Non serve che tu mi guardi con quegli occhi imploranti, Arjuna. Non posso far discendere la Vishwarupa quando ti fa comodo. Essa si manifesta quando il destino del mondo è incerto. Il tuo dilemma è un regalo che ti viene fatto. Esso ti modellerà. Se vuoi cambiare il mondo, e questo è ciò che vuoi…

    No, Krishna.

    Sì, Krishna. Ed è quello che anch’io voglio, Arjuna. Krishna sollevò le sopracciglia. Ma il mondo gira grazie alla tradizione. La tradizione è come un astra, se la vuoi sfidare, devi imparare a scansarla come faresti con un elefante che carica.

    So come scansare un elefante.

    Non è così differente, né così difficile come la tua espressione farebbe pensare. Di fatto, è la cosa più semplice che ci sia.

    Abbiamo eliminato mezza umanità perché Fratello Maggiore potesse sedere sul trono. Ma di questo non potremo essere sicuri finché il sacrificio non sarà stato compiuto e noi purificati. Ho seduto in consiglio con i miei fratelli cercando il modo di trovare le risorse che il sacrificio richiede. Poiché sono convinto che un sacrificio debba avere luogo. Sferrai un pugno all’incavo della mia mano. È la via più breve per la pazzia. La mia mente è come una coppia di cavalli che tirano in direzione opposta.

    Non è il caso che te la prenda con la tua mano. Krishna non riuscì a farmi sorridere.

    È con me che ce l’ho. Con la mia presunzione. Solo pochi giorni fa, Krishna, io ero libero, libero da ogni cosa, non provavo desideri, nulla mi mancava. E tutto ciò non è che un ricordo. Credevo, ero certo di aver raggiunto l’equanimità.

    Ti aspettavi che durasse in eterno?

    Sì, Grande Padre Bhishma diceva sempre che le aspettative ci spingono ad ingannare noi stessi. Krishna buttò indietro la testa e rise, io risi con lui. Poi disse: Grande Padre sperava di garantire la felicità a tutti rinunciando ai propri diritti. Quanto si sbagliava! Non era possibile disperarsi mentre quella risata risuonava, così mi unii alla sua impertinenza e dissi: A che serve la conoscenza, se poi ti viene strappata via? Forse era troppo poca, mentre io pensavo di aver capito tutto.

    Anche un po’ di conoscenza può liberare. È meraviglioso stare sulla montagna, ma poi devi scendere a valle; la stessa cosa vale per il deserto. È nelle città e nelle valli che si mette alla prova la propria conoscenza. Altrimenti a che serve?

    Sentivo che Krishna mi ammansiva come solo lui sapeva fare. Alla fine mi feci silenzioso e le sue parole cominciarono a entrarmi dentro. Dopo molto tempo distolsi lo sguardo dalle cicatrici che avevo sulle braccia e mormorai:

    Sul carro da battaglia era più facile. Poi chiesi di nuovo: C’è qualcosa che dobbiamo fare?

    Al momento, nulla. Stavo per controbattere ma poi mi quietai. Dunque, cosa c’era da fare? Non esporti, resta dentro, resta nella parte deserta di te. Non fare parola di ciò che pensi. Gli altri ne rimarrebbero sconvolti. Nascerebbe solo confusione. Va avanti come sempre e lascia maturare gli eventi.

    Nel frattempo ci mettiamo a cercare le risorse per il sacrificio?

    La cosa non ti riguarda. Lascia stare le risorse. Ogni sacrificio ha un suo prezzo.

    Ti ho sentito dire molte volte che nella nostra epoca aryana non c’è posto per i sacrifici di sangue, che essi appartengono ad un oscuro passato e che poche gocce d’acqua offerte in purezza di cuore sono infinitamente più gradite e benefiche.

    Sì, cugino. Puoi persino fare a meno delle poche gocce d’acqua. Quindi, rimani a guardare, non avere fretta. Se questa volta è giusto andare contro la tradizione, l’universo ne troverà il modo. Nutri il tuo desiderio di sacrifici incruenti, con cuore puro. Ma questo vale per te, Arjuna, perché tu hai visto. Ai sacerdoti ed al popolo deve essere dato qualcosa di tangibile. Si deve offrire qualcosa che si possa vedere e toccare mentre i mantra vengono ripetuti. Non puoi togliere i pilastri tutti in una volta. Quando nella mia parte del paese ho posto fine al sacrificio delle mucche, ho dato al popolo qualcosa in cambio. Gli uomini sono come bambini, Arjuna. Se togli un giocattolo ad un bambino devi dargli qualcos’altro, altrimenti si mette a piangere. Devi trovare il modo di farlo ridere. Comunque tu hai già fatto la parte più importante. Mi voltai verso Krishna e gli feci un cenno con la testa, prendendolo amichevolmente in giro per la sua impenetrabilità. Lui si voltò verso di me e con la testa fece lo stesso cenno in risposta alla mia di impenetrabilità. Sì, Jishnu, l’idea deve scivolare nella mente come fa la spada nel fodero. È questo il modo in cui le cose iniziano a cambiare. Idee che scivolano dentro, che penetrano. Le stesse antiche usanze sono cominciate così. È vero, è giunto il momento di smettere di offrire in sacrificio gli animali, così come è già avvenuto per i sacrifici umani. È questa la verità che si è presentata alla visione del tuo cuore.

    Sedemmo in silenzio, domande sorgevano e ricadevano dentro di me. Avrei voluto che Krishna parlasse più a lungo, ma lui aspettava che le sue parole facessero presa su di me. Alla fine disse: Rassegnati. Quando ti addestravi alla lotta, Balarama ti insegnò a cadere. Impara a muoverti come il fumo del sacrificio che si spande in alto senza rendersi conto di essere lui stesso l’offerta. Vedendo la mia espressione, aggiunse: Se non sei capace di farlo, impara a cadere attraverso la vita come una pietra. Abbi fede nelle cose invisibili. Loro aspettano di prendere forma quando viene il momento. Non puoi vederle, come non vedi un pesce sul fondo o un bimbo nel grembo di sua madre. Da’ tempo al Tempo, che è il Signore d’ogni cosa.

    Ma io ero ancora combattuto poiché non avevo dimenticato l’enormità di quanto avevo segretamente progettato. Era la prima volta che tenevo dentro di me qualcosa di cui non avrei potuto parlare nemmeno a Subhadra.

    Un giorno, mentre io e Krishna passeggiavamo lungo il fiume, iniziai a contestare il suggerimento di sottomettermi. Krishna stette ad ascoltare in silenzio, fissandomi, al punto che i suoi grandi liquidi occhi divennero ancora più grandi. Smise di camminare per scrutare la mia faccia.

    Solamente gli Dei non sono sottomessi a Kala, il Signore del Tempo e dei Cambiamenti. Ma cambia la tradizione, Jishnu. Cambiala! Fallo per Fratello Maggiore. Solo non dimenticare che non si governa senza il sacrificio. Esiste una più alta legge che ti assolve dall’avere sparso sangue, ma ne devi sentire il respiro su di te e fare che anche i sacerdoti e il popolo lo sentano. Tu l’hai avvertito, ma non è sufficiente. Devi alitare su di loro il più alto respiro del Dio, Jishnu. Nel mio cuore nacque un profondo silenzio. E devi fare in modo che anche Fratello Maggiore lo senta. La sua necessità d’espiare è molto grande, più grande di quanto voglia la tradizione. Se il respiro del Dio alita per mezzo tuo con sufficiente vigore, nessuno potrà toccare il sacro cavallo. Però non commettere errori, il sacrificio esercita un forte fascino sugli uomini. I poteri inferiori lo esigono. Sono quelli che il popolo conosce. Non li puoi strappare via, se non conquistandoli. Sapevo che mi stava dicendo di conquistarli dentro di me.

    Il sacrificio per come l’abbiamo sempre conosciuto è finito. La tua anima si ribella come un cavallo s’impenna al morso ed ai finimenti del passato. Infatti la tua anima è libera e tu lo sai. Stai sondando il futuro, Arjuna. È quello che stai facendo, e potresti generare una valanga, a meno che…

    A meno che…?

    Te l’ho detto, a meno che tu offra qualcosa in cambio. Sospirai. Offrire che cosa?

    Puoi solo dare te stesso, disse Krishna. "È tutto quello che ognuno di noi può dare – adorare, agire, rimanere in silenzio agendo, venerare Prajapati e le sue creazioni – se comprendi questo, sei tu quell’offerta. Ascolta, il mio Guru Ghora Angirasa mi ha insegnato a dirlo così:

    Tu sei immortale.

    Tu sei inamovibile.

    Tu dimori saldo nel respiro della vita.

    Offrire senza sapere è inutile.

    Se sai quello che fai, se lo fai per il mondo e non perché è il tuo cuore a desiderarlo, tu ed il futuro vincerete. Che il bene sia con te!"

    Dopo aver pronunciato queste parole Krishna si allontanò, richiamato improvvisamente. A Dwaraka i clan erano in conflitto fra loro, la guerra era servita solo a rinfocolare le vecchie rivalità. Avevamo tenuto Satyaki con noi, ma a Dwaraka i suoi ufficiali ed i suoi amici, quando cominciarono a circolare gli insulti, ne presero il posto. Pareva che la più insignificante delle frasi fosse sufficiente ad infiammare le fazioni e che si fosse pronti a lavare col sangue ogni minima offesa. Satyaki una volta disse che senza la mediazione di Krishna nessun uomo sarebbe sopravvissuto a Dwaraka. Solo Krishna era in grado di placare la loro collera e di ricondurli alla ragione. Io però ero stato lasciato solo col mio dilemma.

    Ora che io e Durgadas avevamo fatto ritorno, i preparativi per la cerimonia finale dovevano proseguire. In mia assenza tutte le questioni concernenti il sacrificio Ashwamedha erano rimaste in sospeso. Forse i sacerdoti avevano giudicato di cattivo auspicio occuparsi di quella programmazione in mia assenza, o forse le perplessità circa la mia riuscita erano state semplicemente troppo grandi per guardare al futuro prima di vedermi cavalcare verso casa. Ad ogni modo, era la situazione in cui mi trovavo. Pareva che l’Ashwamedha richiedesse l’impiego di mezzi che, avendo la guerra svuotato i forzieri, non possedevamo. I re che sarebbero intervenuti avrebbero recato il loro tributo, ma non ci sarebbe stato altro prima di quello. Nella gioia per il mio ritorno il problema era tenuto alla larga.

    Dopo la partenza di Krishna, una specie di torpore era disceso sulla città e i suoi palazzi. Il mondo era in attesa, ma l’attesa non è adatta allo Kshatriya che ha vissuto sull’orlo della morte e sentito il cappio di Yama stringersi più volte al giorno intorno al suo collo. Ora sembrava che la principale preoccupazione di Fratello Maggiore fosse di non mancare di rispetto a Zio Dhritarashtra, che aveva perso i suoi cento figli, e di fare in modo che gli fossero riservati quei riguardi ai quali, al tempo di Duryodhana, non era abituato.

    Da parte sua, Bhima, sebbene tentasse con profonde prostrazioni piene di deferenza di rendersi gradito a nostra zia e a nostro zio, non riusciva a tenere la lingua contro il palato quando Zio riceveva dell’oro per i sacrifici da fare in nome di Grande Padre Bhishma, di Dronacharya e di tutti gli altri che avevano combattuto contro di noi, nonché in nome dei suoi figli caduti. Un giorno, alla presenza di Bhima e Satyaki, Zio Dhritarashtra aggiunse il nome di Jayadratha alla lista delle anime in nome delle quali voleva distribuire ricchezze. Tutti e due si precipitarono al palazzo di Fratello Maggiore come se fossero inseguiti da un astra, spalancandone le porte. In quel momento io stavo raccontando quello che era accaduto durante il mio incontro con nostra cugina Duhshala, nella speranza di riuscire con ciò a portare il discorso sul sacro cavallo. A dire il vero erano poche le ragioni per le quali il mio incontro con nostra cugina Duhshala ed il nipote di Jayadratha fosse collegato al sacro animale, ma essendo quello un mio chiodo fisso, pensavo di riuscire ad infilarlo nel discorso. Quello di Duhshala era un altro dei nomi che Bhima non voleva sentire pronunciare, dal momento che era andata in sposa a Jayadratha. Appena Bhima grugnì: Jayadratha, Satyaki, che aveva bevuto, scoppiò a ridere.

    Fratello Maggiore, che stava ascoltando il mio racconto totalmente concentrato, voltò la testa come se il defunto fosse risuscitato.

    Quello sciacallo, causa della morte di Abhimanyu, urlò Bhima, che si nascose dietro una siepe di lance per costringere Arjuna a gettarsi nel fuoco, quella feccia, quell’eunuco, offrirgli dei sacrifici?! No, Fratello Maggiore. Fratello Maggiore alzò la mano e la protese verso di lui. Era una supplica e al tempo stesso un ordine di quelli che Bhima non aveva mai disatteso. Ma in quell’occasione fece spallucce, e ignorandolo lo allontanò da sé con il dorso della mano e se ne andò. Il fatto mi riportò coi piedi per terra.

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