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Malus. Sfida alla Notte
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E-book323 pagine4 ore

Malus. Sfida alla Notte

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Info su questo ebook

Senza sapere l'uno dell'altro un vecchio saggio e un drago si recano ai confini del mondo per fermare il risveglio della Notte. Hanno un obiettivo comune: uccidere il Principe Malus. Nessuno però può sapere cosa lo attende varcate le soglie della notte e ciò che troveranno sconvolgerà i loro piani, niente sarà più sicuro.
LinguaItaliano
Data di uscita20 giu 2019
ISBN9788831620574
Malus. Sfida alla Notte

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    Anteprima del libro

    Malus. Sfida alla Notte - Nicoletta Latteri

    (Esorcista)

    Il racconto del giullare

    Ecco, mi presento: sono un giullare e quanti mi conoscono, credo, siano pronti a giurare che sono pazzo. Folle, nel vano tentativo di sfidare la magia col solo ausilio dell’intelletto. Sognatore, perché credo nella grandezza dell’uomo. Maledetto, perché non affido le mie speranze a un raggio di sole. Dannato, perché ho cercato di cancellare i colori dell’arcobaleno, lasciando solo il rosso del sangue. Il mio sangue sulle mie mani.

    Eppure, vi fu un tempo lontano in cui fui principe, figlio di grandi re, in seguito presi la spada come bandito, ma le mie armi preferite furon e saranno le parole, messaggere della mia essenza più intima che è sempre stata un’anima di giullare.

    Adesso, da questa collina verdeggiante vedo le foglie tremolare come tamburelli al flebile respiro della brezza, e mi torna in mente soave il suono dei flauti, dei liuti, della mia amata arpa, spensierato sottofondo delle corti principesche. 

    Vorrei potere chiudere gli occhi e abbandonarmi ai bei ricordi, però ogni volta che lo faccio, irrompe nella mia mente il fragore scellerato dei campi di battaglia, lo sguardo spietato dei condottieri con i pugni insanguinati stretti sulle spade ed è inutile negarlo, io ero tra loro, assetato di sangue, incapace di placare il mio odio.

    A quest’ora i fianchi della collina si tingono d’oro e i tanti fiori che li ricoprono assumono tinte calde, madide di vita, chinano il capo come a volersi baciare. Sento il loro profumo abbracciarmi, ma non è che un’illusione… nel mio cuore nevica.

    Così, come in risposta ad un muto richiamo, ogni sera torno a sedermi sotto questa quercia, rivolto a nord con l’animo proteso verso i confini di questo mondo, verso il funesto Niflar, il Paese delle Nebbie che divide il Midgard, il Mondo degli Uomini dal Mondo dei Morti: l’Hellheimr.

    Guardo in lontananza, aspettando di vedere la bruma scivolare fina tra i boschi venirmi incontro, cercando me, figlio del Paese delle Nebbie. Ballavo, cantavo, scherzavo, ma il mio cuore era dominato dalla nebbia, non c’era piacere umano che potesse dissolverla, allontanarla da me. Già, perché all’epoca non volevo ammettere nemmeno questo: la mia natura elfica e non umana.

    Alcune evanescenti saghe ci identificano con gli Elfi Neri, ma nelle notti d’inverno, quando la bruma arriva a sfiorare le cime scure degli abeti, il vento canta il nostro antico nome: eravamo i Nibelunghi, adesso siamo pochi errabondi senza terra con un passato che altro non è che una confusa leggenda, persa nella stessa leggenda.

    Ed io, solitario principe di una stirpe maledetta che fu artefice della propria tragedia, detentrice di allettanti tesori che tante rovine generarono, cosa spero di potere intravedere nascosto dietro la nebbia? Un amore disperato? I miei crimini? La ribellione estrema?

    O è piuttosto il ricordo di quella tragica mattina in cui gli uomini e i loro alleati giunsero così vicini alla fine da potere intravedere la furia dell’Inferno attraverso le sue maledette porte che si stavano aprendo? 

    Ricordo, che giacevo nel fango imbevuto di sangue e l’alba non veniva. Sopra di me nere ali di corvo, tante da nascondere il cielo. Dalla mia bocca non potevano più uscire parole, affogavo nel mio stesso sangue. E mentre il giullare moriva, il mio cuore batteva forte, non gridava più di dolore, la libertà l’aveva portato via con sé.

    Forse vi sto raccontando questa storia, perché penso che sia giunto il momento di tornare indietro nella parte più buia del mio passato e confrontarmi con ciò che maggiormente temo: me stesso.

    Riaprirò cicatrici che il tempo non ha potuto sigillare e il cuore non ha saputo fuggire. Sembrerebbe non avere senso, ciò nonostante solo così, forse, riuscirò a ritrovare la mia anima di giullare persa nelle nebbie dell’odio, essa stessa flebile ombra, nebbia tra le nebbie.

    Avrei voluto essere un poeta per potere inchiodare le parole alle note, fermarle nel tempo e trasformare questa storia un canto infinito ripetuto da ogni nuova generazione; ma non sono che un assassino, incapace di comporre versi, so solo cantare quelli degli altri, pertanto dovrò limitarmi a narrare i fatti come si farebbe con un amico.

    Ancora una volta le parole saranno mio strumento e arma.

    Questa, però, non è solo la mia storia, io sono solo uno dei tanti che gli avvenimenti travolgono senza lasciare quasi traccia; personaggi secondari che nei canti dei bardi vengono ricordati in una sola drammatica strofa lunga un arpeggio, quanto basta per lasciare i bambini a bocca aperta e inumidire gli occhi delle dame.

    Tempo addietro un vecchio mago e caro amico di nome Gilduin, ripensando a quanto accaduto, paragonò la nostra storia ad un’antica fiaba, che narra di due principi che, per via delle loro eccezionali gesta, ricevettero dagli Dei l’immenso dono di poter esprimere un desiderio: entrambi chiesero l’eterna giovinezza e quindi l’immortalità.

    Gli Dei però nella loro somma saggezza, reputando un tale dono troppo grande per dei semplici mortali, posero una condizione e pretesero in cambio l’oggetto più prezioso che avessero.

    Al più anziano chiesero la splendida spada Gramr, che gli aveva permesso di salvare le persone più care. Al più giovane, il fiore regalatogli dall’amata al momento dell’addio.

    Nessuno dei due principi consegnò agli Dei l’oggetto richiesto, probabilmente in quell’istante entrambi compresero la vanità del proprio desiderio, o forse il prezzo preteso dagli Dei era troppo alto persino per l’immortalità. Fu così che lasciarono i sacri antri del Walhalla per fare ritorno alle loro lontane dimore.

    Dopo di loro, però, come nella nostra storia, si presentò agli Dei un giovane drago di nome Penumbra che offrì agli Dei la propria vita in cambio di un fiore… gli Dei sorrisero.

    Il messaggio

    Fu proprio il vecchio Gilduin, il primo a capire che stava per accadere qualcosa di grave, a quei tempi era il custode del Santuario delle Quattro Querce, uno dei cuori pulsanti del nostro mondo.

    Il Santuario non fu eretto da mano umana. Fu un prodigio della stessa natura a far nascere queste imponenti querce ai bordi della collina in corrispondenza dei punti cardinali, creando un luogo di rara magia.

    L’Antico Popolo, che abitava queste terre prima di noi, veniva qua per adorare questi giganteschi alberi come divinità, veri baluardi viventi contro l’azione malvagia dei demoni, li chiamavano i Germogli di Yggdrasill. L’albero della vita che regge i nove mondi, asse del nostro universo. Non escludono che questo posto possa essere ben più antico. Alcuni dicono risalga al tempo dei costruttori dei cerchi di pietre, un popolo di cui abbiamo perfino dimenticato il nome. Altri ancora, lo riconducono agli stessi Vani, gli Dei.

    Le Querce Sacre ormai sono le uniche custodi della verità.

    Qui è come se tutti gli esseri viventi, comprese le piante, avessero un’anima che reagisce agli avvenimenti del Mondo degli Uomini, cambiando colore, specie vegetale e intensità, secondo ciò che turba o allieta la nostra grande Madre Terra. Perciò quello che altrove sono le stagioni, qui sono le vicende del mondo, le sue gioie e sofferenze.

    La carica di custode è di grande prestigio ed è molto ambita dai venerandi saggi, perché ricoprirla significa essere a diretto contatto con la Madre Terra ed i suoi più intimi segreti. È un compito nel quale durante i secoli si sono avvicendati alcuni tra i più illustri vati, è molto arduo da ottenere essendo elettivo, non sono però gli uomini a scegliere, bensì il santuario stesso ricoprendosi di gigli bianchi quando il prescelto lo calpesta. Per gli ambiziosi è quindi perfettamente inutile affannarsi per ottenerlo, è irraggiungibile alla vanità umana.

    Il vecchio Gilduin, non era mai stato ambizioso, era un puro di cuore e amava sinceramente il suo incarico e il santuario.

    Seduto davanti alla casa del custode seminascosta tra le gigantesche radici della quercia Sud, il saggio Gilduin fumava placidamente la lunga pipa e si godeva la mattina guardando da lontano i contadini recarsi alla fiera lungo il sentiero in fondo alla valle. 

    Era un po’ pensieroso. Negli ultimi giorni sul prato erano più volte spuntate delle misteriose rose bianche, appena aveva cercato di toccarle, si erano dolcemente chiuse ed erano svanite nel nulla. Era un evento anomalo e lo aveva incuriosito.

    Stava ancora rimuginando sul fenomeno, quando inaspettatamente vide l’intera collina coprirsi di rose, però questa volta erano rosse come il sangue.  Sorpreso, emise un lungo sbuffo di fumo, era molto raro che un unico genere di fiori coprisse l’intera collina per giunta di quel colore.

    Prese a soffiare un vento caldo, fastidioso, che seccava la gola. Gilduin mise via la pipa e si alzò, non gli piaceva per niente: il vento si era levato improvviso, insieme alle rose.

    Impensierito, si diresse alla quercia Ovest che nel tronco cavo celava una piccola sorgente d’acqua incantata, forse lì avrebbe trovato qualcosa che lo aiutasse a capire.

    Il tragitto era breve, ma ebbe difficoltà a percorrerlo, i ramoscelli spinosi s’impigliavano nelle vesti facendolo incespicare. Strappando via i vestiti dai rovi, Gilduin sempre più preoccupato arrivò alla quercia.

    Entrato nel tronco cavo, finalmente al riparo dal vento, scoprì con sgomento che la sorgente era rossa di sangue, restò impietrito davanti a quello scenario rivoltante. Si chinò e annusò il liquido pastoso, era realmente sangue, gli venne la pelle d’oca.

    Che cosa poteva avere mutato l’acqua sorgiva in sangue? Percosse con forza il suolo col lungo bastone pronunciando un contro incantesimo, ma non cambiò niente, se avesse usato un comune manico di scopa, avrebbe sortito lo stesso effetto. Aveva l’impressione che la sua magia fosse del tutto impotente di fronte a quello scempio.

    Con che cosa aveva a che fare? Una domanda che lo inquietava più dello stesso sangue.

    Brandendo il bastone, si chinò sulla sorgente nelle cui acque così spesso aveva spiato gli avvenimenti del mondo. Non riuscì nemmeno a vedere la propria immagine riflessa, difficile specchiarsi nel sangue, se si ha il cuore puro, però percepì una voce. Un urlo distorto dalla lontananza, ripetuto più volte.

    «Uhtfloga, Uhtfloga».

    Era la lontana eco della voce di un demone che ruggiva nelle buie profondità della terra. Proseguiva biascicando un oscuro indovinello.

    «Volavit volucer sine plumis, sedit in arbore sine foliis… conscendit illam sine pedibus, assavit illum sine igne…».

    In che modo le forze demoniache potevano essere riuscite a contaminare il santuario al punto da infiltrarsi nella sorgente incantata e farla rimbombare delle proprie voci? 

    Attese trattenendo il respiro. La voce riprese più indistinta, lontana.

    «Nox iam appetit… redit…» più chiaramente riuscì a distinguere «… occidere… Cignum » e tremò quando sentì dire.

    « Nocte intermissa est… ».

    La notte stava tornando. Temette il peggio, che inesorabile giunse pochi secondi dopo.

    «… septae vergae fractae sunt…».

    Gli si gelò il sangue nelle vene. Le sette verghe spezzate, non poteva essere.

    Fece un passo indietro, il bastone stava per cadergli di mano. I sette sigilli erano stati infranti liberando la notte, c’era solo da sperare che non fosse vero.

    Il ritorno di quel Male antico non era possibile, era stato sconfitto talmente tanti secoli addietro da essere stato dimenticato, solo pochi tra i vati più sapienti ne erano ancora a conoscenza e diversi tra loro erano persino convinti che si trattasse di un mito.

    Legenda o realtà, se le sette verghe d’oro fossero state davvero spezzate, il Male avrebbe ripreso al fluire nel Mondo degli Uomini spinto dall’antico serpente di nuovo libero.

    L’angoscia si fece largo nel suo cuore. Non era possibile spezzare le sette verghe, per riuscirci avrebbero dovuto disporre di una forza straordinaria. Ma chi erano?

    Si chinò sulla pozza gridando.

    « Chi siete! ».

    Il suo fiato smosse l’acqua contaminata dal sangue ma niente più. Non c’era nessuno ad ascoltare la sua voce. Si alzò, doveva andare a consultare i libri alla ricerca di un qualche indizio, per essere sicuro che i suoi timori fossero fondati.

    Il vento era ancora caldo, gli soffiò in faccia i petali delle rose ormai sfiorite. D’istinto Gilduin pensò che la voce dei demoni le avesse seccate, distruggendone la bellezza per ridurle a semplici rovi.  I demoni odiano qualsiasi cosa bella vi sia al mondo.

    Con lo stomaco stretto dalla preoccupazione, scese il sentiero che, girando intorno alla quercia, portava alla casetta del guardiano annidata sotto le radici.

    Una piccola, ma accogliente dimora, scavata per metà nella morbida terra della collina, solo un breve tratto di tetto coperto di erba sporgeva all’esterno.

    Trovò la porta spalancata dal vento che buttava per aria fogli di carta, erbe mediche e ogni altra cosa potesse sollevare. Gilduin sbatté nervoso la porta e si fermò all’ingresso aspettando che tutto ciò che volava si posasse.

    La casa era nella penombra, le piccole finestre e i vetri della porta non erano sufficienti per illuminare il vano. L’unico fascio di luce più intenso proveniva dal lucernario al centro del soffitto che illuminava il tavolo ricolmo di libri, come un altare.

    La libreria non era molto grande, non c’era molto spazio tra le radici della quercia, conteneva tuttavia piccoli tesori, testi unici e preziosi. Purtroppo, come Gilduin aveva immaginato, il Male che cercava era più antico dei suoi libri, troppo lontano nel tempo, diecimila anni o forse più.

    Un male antico di cui aveva sentito parlare  mentre fuori imperversa la tempesta, alla stregua di una storia di fantasmi.  Sapeva cosa cercare.

    A quei tempi la Notte, passata al Male, era quasi riuscita a soggiogare il Mondo degli Uomini e solo dopo una lunga e sanguinosa guerra i Vati del Grande Raduno, guidati dal mitico Syntram il Giusto, erano riusciti ad avere la meglio. Dopo la vittoria avevano costretto l’ultimo Signore della Notte a rifugiarsi nella fortezza di Tenebricus, il luogo più oscuro della Notte, dove lo rinchiusero in attesa che la morte facesse il suo dovere. Vale a dire, ciò che loro non avevano avuto la forza di fare.

    Il Signore della Notte doveva essere morto da tempo, come era possibile che potesse tornare a minacciare il Midgard?

    Andò alla libreria e prese un contenitore cilindrico di pelle rossa decorato in oro, conteneva la carta geografica del Midgard regalatagli da Re Aaron il Saggio, disegnata dal vate Coelfrid di Basum basandosi su diverse mappe opera di elfi e nani. Un pezzo unico per quanto riguardava la precisione e la ricchezza di particolari.

    Srotolò la pergamena sul tavolo e la studiò con attenzione, con l’indice seguì lentamente il precorso delle coste settentrionali. Il mare finiva con una linea giallastra sbiadita oltre la quale nessuno osava andare, nemmeno i pescatori nonostante la pescosità di quelle acque. Lì vivevano creature antiche e affamate, lo stesso mare era divoratore, protetto dalla magia, la loro magia.

    I membri del suo ordine all’epoca avevano usato ben sette verghe d’oro provenienti dal sacro scettro di Wotan stesso e poteri magici oggi inimmaginabili per rendere inaccessibile quel tratto di mare al confine tra due mondi, nasconderlo nella notte eterna e sigillarlo per sempre.

    Una scritta, posta oltre la linea gialla, recitava Obnos Ler, il Mare della Paura.

    Quella carta era così preziosa, perché conteneva informazioni segrete per chi sapeva dove e come guardare. La seconda O di Obnos era sbagliata, un nominativo al posto di un genitivo. Gilduin prese la lente d’ingrandimento e la studiò con attenzione, al suo interno c’era qualcosa di simile a una macchia.

    «Eccolo, Tenebricus, la tana di quei maledetti».

    Aveva trovato la posizione. Un luogo difficile da raggiungere. Lasciate le bianche spiagge di Hällen, c’era solo il mare ostile e un cielo nuvolo, senza stelle da seguire per trovare la meta. Un viaggio molto pericoloso.

    Scrutò pensieroso la carta e le terre lontane che vi erano disegnate. Chi erano i demoni che parlavano con tale disinvoltura di quel male così antico? 

    Non gli era possibile identificare i demoni di cui aveva sentito solo la voce, però sapeva che raramente questi riescono a resistere alla tentazione di rivelare il proprio nome, troppo orgogliosi del Male fatto.  Se li aveva sentiti lui, probabilmente anche loro potevano sentirlo.

    Chiuse i libri, doveva tornare alla fonte incantata e costringere i demoni a parlare.

    Uscito, rimase di sasso: gli alberi avevano perso tutte le foglie, non c’era più un filo d’erba su tutta la collina. Era come se la morte contenuta in quella voce malefica avesse impregnato le radici delle Querce Sacre.

    Qualcosa stava nascostamente avvelenando il nostro mondo e le Querce Sacre l’avevano assorbito.

    Il vento adesso sollevava solo steli secchi e lambiva i sassi. A memoria d’uomo non si era verificato niente di simile. La natura sembrava moribonda.

    Quello era un infausto presagio di morte, se non proprio la morte stessa. Per la prima volta in vita sua, Gilduin si fece prendere dal panico, si agirò angosciato tra i rovi secchi, pregando, urlando formule magiche e percuotendo il suolo col bastone. Usò tutti gli artifici a lui noti per salvare questo luogo sacro, ma non servì a nulla.

    Con gli occhi pieni di lacrime si guardò intorno, non c’era niente che potesse far rifiorire la collina sacra, qualcosa stava avvelenando la natura, contro un male così profondo, la magia non poteva nulla. I suoi tentativi infruttuosi avevano richiamato una tempesta, adesso cupe nubi vorticavano sopra di lui, segno del suo grande potere e al tempo stesso triste presagio di quanto si stava preparando. 

    La collina era stata trasformata in un’altura scarna, sembrava che la vita non l’avesse mai lambita.

    Alcune ore dopo, quando Gilduin era ormai in preda alla disperazione e prossimo alla rassegnazione, il fenomeno della voce si ripeté.

    La seconda volta, però non fu un urlo, ma un impercettibile sussurro che canterellava l’antico indovinello.

    «Volavit volucer sine plumis, sedit in arbore sine foliis…. Conscendit illam sine pedibus, assavit illum sine igne…» e poi ripeté tutto di nuovo.

    Gilduin si precipitò verso la fonte urlando.

    «Chi sei?».

    L’indovinello si ripeté e un timido balbettio aggiunse.

    «Penumbra».

    Al vecchio vate sembrò quasi di cogliere una lontana risatina, poi tutto si dissolse nel silenzio, non ebbe il tempo di fare altre domande.

    Il vento soffiò via la tempesta. La collina si ricoprì di nuovo d’erba e fiori, gli alberi germogliarono drizzando le maestose chiome al cielo, gli uccelli ripresero a cinguettare e svolazzare giocosi come se non fosse successo niente.

    La natura risplendeva superba e spavalda, mostrando all’uomo ciò che non è in grado di capire.

    Il vecchio Gilduin stremato e confuso per un attimo credette di avere sognato, ma non era così, si era trattato di un avvenimento reale che si era protratto per diverse ore. 

    All’epoca egli stesso non seppe interpretare correttamente i fatti. Secondo me, il più saggio dei Vati morì senza averli compresi del tutto e, per quanto mi riguarda, forse fu meglio così.

    Penso che il suo cuore fosse troppo turbato dal sangue che sgorgava dalla terra e dalla spaventosa voce del demone, per capire che la chiave del mistero era in quel timido balbettio che seguì: era la giovane voce di Penumbra, il drago.

    Per fortuna, almeno, capì che doveva intervenire tempestivamente e così convocò d’urgenza il Grande Raduno dei Vati nell’antica foresta sacra di Drivium. Mandò i piccioni ai quattro angoli della terra per avvertire i membri del Grande Raduno sparsi nelle contee e nei regni più lontani del Mondo degli Uomini. Egli stesso partì subito alla ricerca del prode principe Randolf di Sonnholm che, come altre volte, l’avrebbe aiutato nell’impresa.

    Erano diretti in un luogo spaventoso, lontano, fuori dai confini del Midgard, oscuro quanto mitologico, dove si diceva andasse a riposare la dea della luna.

    Come aveva scritto nel messaggio inviato agli altri vati.

    «Dopo diecimila anni la Notte si sta svegliando».

    Lungo la strada fu raggiunto da una notizia singolare: alcuni abitanti delle lontane isole di Kajahil raccontavano d’avere visto numerosi draghi volare intorno alle Montagne dei Corni dei Demoni, quasi a formare degli stormi. Gilduin non aveva tempo da perdere, perciò liquidò frettolosamente l’accaduto come poco rilevante, attribuendo l’assembramento di draghi alla probabile morte del vecchio Tages che da tempo immemorabile si annidava tra quelle rocce.

    Questo fu, probabilmente, il primo errore che commise, perché le cose non stavano esattamente come aveva pensato; d’altronde chi avrebbe potuto immaginare una realtà che non apparteneva agli uomini… bensì ai draghi.

    ***

    I Corni dei Demoni, posti oltre il mare all’estremo nord del Midgard, vengono chiamati così perché sono dei massicci rocciosi di materiale friabile, molto alti e scoscesi, che sembrano due corni puntati verso il cielo bianco, irraggiungibili agli uomini e da sempre gradito rifugio dei draghi.

    Da diversi giorni i draghi ripetevano quella strana danza, volteggiando intorno alla seconda cima, giungevano da ogni dove, pur essendo creature di notevoli dimensioni, visti da lontano e in rapporto all’altezza delle vette, potevano davvero sembrare stormi d’uccelli. 

    Tra gli ultimi arrivò un possente drago dalla pelle scura e le scaglie lucenti, le ali ricoperte di pelle forte ma leggera come il suo volo. Pochi battiti furono sufficienti affinché la possente apertura alare lo facesse librare tra le correnti. 

    Sorvolò la cima più in alto degli altri, poi discese con una dolce planata verso l’apertura della caverna posta in prossimità della cima. Con gli artigli posteriori si aggrappò ai bordi del precipizio e cautamente sbirciò all’interno.

    L’antro era saturo di fumo in lieve e costante movimento per via del fiato dei draghi. Le pareti erano lucide e il suolo, ricoperto d’oro, scintillava a ogni respiro infuocato.

    Amico che ascolti, Adranos, ti ho chiamato, vieni stiamo aspettando te disse una voce affaticata.

    Timoroso, Adranos entrò, fece un elegante movimento col lungo collo in segno di riverenza e posò la testa al suolo.

    Dinanzi a lui, adagiato su un gigantesco cumulo d’oro, giaceva Tages, il più anziano dei draghi, ormai incapace di muoversi. Il corpo, deformato dalla vita e dalle malattie, era di colore grigio chiaro con chiazze verdognole, le scaglie d’osso che l’avevano coperto sembravano impietrite, gli artigli spezzati dalla vecchiaia, non aveva nemmeno la forza di aprire gli occhi.

    Adranos col corpo prostrato alzò e riabbassò più volte il capo, come in una danza di corteggiamento tra cigni; accanto aveva altri quattro draghi che fecero altrettanto per poi ritirarsi in riverente silenzio nell’attesa che Tages parlasse.

    Grande è l’inquietudine. I nostri hanno percepito l’accaduto, sono turbati a causa di ciò che gli stolti uomini stanno per fare, ancora una volta… troppo stupidi per capire.

    Tutti ascoltavano la sua voce senza parole che parlava al cuore. Tages sbirciò Adranos attraverso gli occhi semichiusi.

    Infine anche tu l’indomabile, sei venuto.

    Adranos ritrasse il capo in segno di rispetto, ma ebbe l’ardire di dire quel che era causa di tanta agitazione.

    Gli uomini stanno distruggendo il mondo. Creano orrori su orrori. La nostra grande Madre Terra è in lutto. La ferita è mortale.

    Il vecchio drago socchiuse gli occhi.

    "Fiutammo il pericolo levarsi in notti lontane e lo sconfiggemmo. Sapevamo del suo ritorno, da molto aspettavamo, memori del Male arrecato. Decidemmo di annientarlo per sempre e attendemmo, le

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