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La figlia delle monache
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E-book226 pagine3 ore

La figlia delle monache

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Info su questo ebook

Ecco l’uomo. La sua vita corre nella quotidianità fatta da mille impegni all’interno di un mondo che crede di conoscere bene, perché lui ha saputo conquistare — al pari del valoroso Boemondo — la riconoscenza del proprio “esercito”. Come il crociata è un uomo intelligente, che è riuscito con il suo ingegno e la sua capacità ad emergere tra i contendenti, potendo contare anche nel sapere trovare abilmente una
soluzione ad ogni difficoltà che gli si presenta. La vita di questo uomo, di nome Jefe, diventato potente, scorre con lo stesso impeto del fiume che è pronto alla cascata: un “salto” per mostrarsi a tutti. Acque schiumose che rumoreggiano annunciando il suo arrivo. Non c’è nulla che può fermare quest’uomo, in lui risiede la forza di credere in ciò che fa. Un giorno si trova a varcare una porta chiusa al proprio
mondo. Alte mura proteggono la vita di donne votate al Signore, che hanno deciso di vivere separate dalla “società” per trovare la propria dimensione “umana”, che ha uno scopo preciso ed immodificabile, la lode di Dio e la preghiera. Si tratta di un mondo che il nostro uomo pensa di conoscere, ma presto scoprirà, invece, che la sua conoscenza è superficiale e piena di pregiudizi. Entra da potente nel convento di clausura delle suore per trovarsi presto a confrontarsi con la loro e la propria spiritualità, rendendosi conto che dovrà spogliarsi della propria armatura per potersi presentare agli angeli che abitano il convento, ed in particolare, all’angelo Rosagemma, una bimba che il Cielo ha dato in dono alle suore.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2021
ISBN9788899572679
La figlia delle monache

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    Anteprima del libro

    La figlia delle monache - Totò Cuffaro

    Gemma

    di Pietrangelo Buttafuoco

    La porta della sofferenza è la fede. Ed è così che la sofferenza conduce alla forza. E non il contrario. Al di là di quell’uscio — una casa conclusa tra mura invalicabili e perciò caduche — c’è un orizzonte infinito, quello dell’Eterno, il cui pedaggio è altrove, oltre la clausura, oltre lo stesso oblio in cui precipita chi è dimenticato dagli uomini. Come per il romito, così per il prigioniero.

    La porta della sofferenza è la fede, e la forza che ne deriva rende invincibili perché ogni prova, sia pure inaudita, è il marchio con cui l’Altissimo segna le esistenze destinate alla luce.

    Nessuno è solo con se stesso, nessun muro può separare una carne dal tutto e finché c’è parola — il Verbo — c’è Misericordia.

    È ispirata da una grande fede, questa storia. Una fede forte che dà parola alla sofferenza. È una storia, quella che vi si racconta, strana, bizzarra, diremmo anacronistica. Si svolge tutta dentro le mura di un monastero di clausura in Sicilia. Un mondo altro, parallelo, apparentemente incomprensibile a chi vive nel mondo reale, e che V

    nessuno conosce profondamente. Un mondo in cui il silenzio scandisce le giornate, il tempo pare essersi fermato, le notizie da fuori quasi non arrivano, né le contrarietà e i disagi della quotidianità. Una vita sempre uguale dove la rinuncia è liberazione.

    Il sacrificio è dono e la preghiera, ricompensa scandita dalle orazioni e dalle attività che riempiono le giornate delle suore, è il ritmo in cui si specchia il cosmo. Una vita sempre uguale nella quale irrompe un evento che ha del prodigioso: il vagito di un neonato. Una piccola creatura viene abbandonata da mani ignote — o forse pietose? —

    fuori dal convento, e quello strillo squarcia il tempo ineso-rabile all’interno di quelle mura. Tutte le donne ivi presenti nel richiamo della vita, in un istante diventano mamme per una piccola orfana.

    La storia è tutta qui. Quasi impercettibile, delicata, raccontata dall’unico estraneo ammesso al convento, da una legge che affonda nella notte dei tempi. Solo lo Jefe può entrare.

    La vita di fuori subisce il fascino di quel mondo altrimenti inimmaginabile. La vita di dentro ha una forza invincibile.

    È quella della fede che avvolge e vivifica ciò che tocca. Ma anche la vocazione vissuta dalle suore — spose di Cristo e figlie predilette di Dio — subisce una miracolosa deviazione per plasmarsi con naturalezza nell’accoglienza della nuova venuta che diviene la prediletta di ognuna. Come nelle favole le fate fanno il proprio dono alla principessa, così le monache regalano alla piccola i loro doni: fantasia, poesia, musica, abilità a inventare fiabe, filastrocche e canzoni. E

    poi un sentiero: la direzione di preghiera che porta la bimba al padre più soccorrevole, Iddio l’Altissimo.

    VI

    La piccolina trova, nelle monache, delle mammine vestite di velo pronte a trasfigurarsi per lei — orfana di madre — in fate danzanti rese leggere dall’amore. Grazie a loro la bimba prende, per se stessa, una storia senza tempo.

    Una bambina senza identità — senza burocrazia, senza scuola né famiglia, senza obblighi né leggi — ruzzola felice in un giardino che a primavera si riveste di gemme mentre in autunno, apparecchiando i colori più tenui, si erge a scudo rispetto alla vita di fuori il cui rumore arriva così smorzato da non essere udibile. Il giardino è l’Eden di una indefinita età dell’innocenza. Un mondo ovattato

    — apparentemente al riparo da qualunque dolore — su cui vegliano ordine e bellezza. Le fatine, le suore mammine che gareggiano nel dar cure alla bimba, hanno nella Madre superiora il centro propulsore di quest’architettura tutta di armonia. Su di lei il tempo sembra essersi posato lieve e delicato come il volo di una farfalla. La Madre ha vissuto cento primavere, si avvicina con gioia all’incontro con il volto divino di Gesù, la sua saggezza è un distillato di preghiera e, però, tutto — anche per lei, gravata dal peso di una certezza immacolata — sembrerà vano e sterile quando il dolore entrerà nel convento.

    La bimba ride, gioca, cresce ma il Fato è in agguato e, in quell’Eden, diverrà l’artiglio che lacera i cuori di tutte le mamme stordite da quello spavento. Il giardino, improvvisamente, si spoglia di tutti i suoi boccioli e nel tempo sospeso di patema, il vuoto che dilaga in quel che appena poco prima era festa, con la Croce della sofferenza

    — nell’angoscia di un urlo infinito quanto un oceano di lacrime — in virtù di quel Calvario suscita la gemma della Resurrezione.

    VII

    È, questo libro di Totò Cuffaro, qualcosa di più di una storia di grande fede. Insegna — è vero — a vedere nel dolore l’amore di Cristo, come nella croce che spesso gli uomini devono imparare a portare, ma questo romanzo scritto in captivitate aiuta a liberarsi dalla paura, ad ascoltare, nel silenzio, la voce della propria anima, e a sapere vivere il dolore fino agli estremi spasimi del dubbio attraverso i quali fabbricare l’arte più temuta eppure più urgente: quella di saper piantare il seme del sorriso nella vita.

    La fede implica una sterminata riserva di risorse.

    La porta della sofferenza è la fede. La ricompensa all’uomo del suo patimento è il supplizio, ed è in ciò la chiave del mistero della vita. Una quotidiana resurrezione proprio quando la vita non trova pace.

    La storia che si racconta è lo specchio di una vicenda personale di grande sofferenza vissuta con cristiana rassegnazione.

    Lo Jefe, sono portato a pensare, è lo stesso Totò. Un uomo che ha vissuto nel mondo di fuori la vita dell’impegno politico in una terra dove i contorni non sono mai netti, dove la zona grigia lambisce rapporti e penetra negli anfratti più nascosti, dove le vicende degli uomini sono fatte di carne e sangue e niente è come appare.

    Il monastero è metaforicamente il carcere. È il luogo dove Totò, un tempo l’uomo tra i più potenti, ha scontato con la dignità propria di un bimbo reso forte dalla Madonnina una condanna definitiva. Lì il tempo scorre lento, appiccicoso come il miele degli alveari, le gerarchie si annullano e spazi angusti vanno divisi con un came-ratismo ignoto al mondo di fuori. Lì, dove è impossibile avere uno spazio per la propria intimità, Totò è riuscito VIII

    a fare della sua croce un tempo di rinascita: ha saputo trovare silenzio e raccoglimento dove tutto è clamore e promiscuità. Ha trovato amici di sventura, quelli che noi del mondo di fuori siamo portati a guardare in un istante di commiserazione e a cui lui, invece — bimbo reso forte dalla Madonnina —, offre la fraterna solidità dell’amore per il prossimo.

    Nel carcere è morto l’uomo di potere ed è nato — con il bimbo reso forte dalla Madonnina — l’uomo di fede.

    Il dolore lo ha attraversato e vivificato, la paura lo ha imprigionato ma la speranza, ogni giorno, primavera dopo primavera, vince.

    La clausura di Totò non è stata una scelta — come è per chi entra in un monastero per rispondere a una misteriosa chiamata assurda al giudizio dei più —, la vita del carcere è segregazione forzata della persona, umiliazione del corpo da cui Totò ha saputo trarre la liberazione dell’anima, capace di volare dietro le sbarre anche attraverso la fatica della scrittura a cui lui affina garbo e grazia. La forza della sua fede è quella che la storia ci racconta. Penetrare il mistero della vita, invece — con le sue svolte impensabili, i suoi colpi di scena — è un viaggiare nel meno prevedibile, nella caduta rovinosa e nell’immane coraggio che avvia a una salita aspra e faticosa. Al prezzo di lacrime la cui trasparenza è sangue, non tenerezza, eppure all’insegna del riscatto. Riaccendere la luce che era stata smarrita nelle tenebre più profonde, quando l’uomo vacilla e il silenzio della sua solitudine diviene insostenibile, restituisce la vita. La fede centuplica le poche umane risorse e permette di valicare montagne di dolore. Dare ordine alle cose, tenerle in ordine, comprendere l’essenziale, vivere IX

    in una cella, sentire il soffio di Dio, sbarrare gli occhi di fronte al buio e lì, nella cella di mura invalicabili e perciò caduche, trovare la luce: questo è il senso di una letteratura in captivitate.

    Il vagito di una creatura, il sorriso di un bimbo, l’innocenza che torna a vestire le carni perché quella figlia — l’esistenza bambina di chiunque soffra — è la carne tutta di dolcezza di chi, come Totò, non ha mai smesso di starsene a mani giunte di fronte alla fatina, alla mammina, alla Madonna rispetto a cui nessuno, nemmeno il mistero del Dolore, può mai dirsi orfano.

    Pietrangelo Buttafuoco

    X

    Introduzione

    Il tempo insegna a conservare, nella memoria, i segreti e a custodire i sentimenti che tengono viva la fiamma del ricordo.

    Si è dovuto vivere con la necessità che la storia che sto per scrivere andasse perduta per sempre. Il destino, ora che i protagonisti, tranne le suore, non ci sono più, ha voluto che la si raccontasse senza però svelarne i segreti.

    Sarebbe stato meglio che fosse stato uno dei protagonisti a riscattare questa storia dall’oblio, ma la vita ha voluto dare questo ruolo a un cantastorie. La vita si è incaricata di assegnare, a lui, questo compito di depositario della memoria.

    La vita è la protagonista del romanzo e l’amore ne è l’inizio, l’amore che dura e si scrive durante tutta la vita.

    Il cantastorie, che la vita ha incaricato, si è impegnato a mischiare bene storia e romanzo, racconta lottando con la memoria, attento a narrare i ricordi senza tradirli.

    Con questo animo e, consapevole di volersi far prendere dalla fantasia e dall’emozione, ha provato a far vivere questo romanzo.

    XI

    Io ho solo scrupolosamente trascritto ciò che il cantastorie ha narrato.

    La storia di questo romanzo è una storia siciliana. Un cantastorie la narra e io la scrivo. Chi conta non è chi scrive, è il cantastorie che racconta, e chi legge dovrà farsi la sua idea.

    XII

    A tutte le mamme.

    La figlia delle monache è un romanzo.

    È la storia di RosaGemma, la bimba che è vissuta senza nascere e senza morire.

    Le storie raccontate nei romanzi

    non sempre sono del tutto inventate.

    Rosa Gemma

    I

    Oltre il portone

    C’era una volta… e nella realtà c’è ancora, nella Regione Siciliana delle specialità delle quali non raccon-terò, una specialità particolare della quale, però, devo dire perché è l’inizio della storia che racconto.

    Nella Sicilia religiosa ci sono tanti monasteri e conventi, molti di proprietà della Chiesa di Roma, altri del Fondo Edifici Culto del Ministero degli Interni quindi dello Stato, alcuni della Regione Siciliana. Tra questi ultimi ci sono conventi di monache di clausura costruiti — grazie ai finanziamenti della Regione Siciliana — su terreni che le suore hanno ricevuto in dona-zione o per lasciti ereditari.

    Gli statuti di questi conventi, non tutti per la verità, contengono una particolare postilla che permette al Capo dell’Amministrazione della Regione di poter entrare nel convento, anche se di suore di clausura, unico uomo a cui è consentito farlo, oltre al Vescovo della Diocesi nella quale il convento, o il monastero, si trova. Privilegio, forse retaggio arabo, forse normanno, 1

    legato alla Legazia Apostolica, forse spagnolo, per cui ho pensato di chiamare Jefe il Capo dell’Amministrazione.

    Jefe in spagnolo vuol dire capo, di derivazione araba e radice normanna.

    La nostra storia si svolge in uno di questi conventi, il cui statuto contiene la prerogativa — davvero speciale — che consente allo Jefe di poterci entrare. Piccola specialità, sconosciuta, tra le tante invece conosciute, della Regione Siciliana, ma non insignificante almeno per la nostra storia. Senza tale prerogativa la storia che racconto non ci sarebbe stata, o quanto meno sarebbe stata diversa e, forse, non si sarebbe rivelata.

    Nel passato i monasteri e i conventi erano luoghi e strutture diverse. I monasteri sorgevano sui valichi, lungo i cammini fra una città e l’altra, sulle vette e sui fianchi delle montagne, erano zone di sosta, assicuravano assistenza al viandante, protezione a chi la chiedeva, erano luoghi di pellegrinaggio. I conventi, invece, erano più piccoli, più poveri, non possedevano proprietà fondiaria ed erano quasi sempre dentro la cinta urbana o nei dintorni. Le condizioni sociali ed economiche della vita di oggi fanno sì che tali differenze non hanno più ragione di essere, per questo motivo il nostro cantastorie utilizza indifferentemente entrambi i nomi.

    Il convento, così lo chiamerò da qui in avanti, sorge in fondo a una lunga strada diritta, nei pressi di un camposanto, con i suoi cipressi e i fuochi fatui a guardia delle ossa dei morti. È sovrastato da una montagna che le incombe sopra come un grande tabarro aperto, verde d’inverno e ambrato d’estate. La montagna è il vicino nubile e silenzioso di questo convento, e come esso non 2

    accoglie mai ospiti a causa delle sue irte e impervie fattezze. Uniche frequentatrici dei pendii sono le abili mucche di razza siciliana, lasciate libere al pascolo e con le campanacce appese al collo.

    Il convento gode della compagnia della montagna e d’estate della sua frescura. È una costruzione fatta in pietra ma non antica; il portone di legno, realizzato da un mastro falegname ha — ben scolpita e intarsiata — una decorazione che riproduce la Natività, con la Madonna, san Giuseppe, il Bambinello, il bue e l’asinello e sopra, con le ali aperte, l’angelo.

    Un sedile di ferro lavorato poggia lungo il muro di pietra, accanto al portone, come a voler invitare il passante a fermarsi, sedersi, riposarsi e riflettere. Invece, serve a tante donne che si siedono mentre aspettano la carità delle suore che non manca mai di arrivare.

    Il convento è un ambiente deputato all’incontro diretto fra l’umano e il divino. Un luogo di dimensione di vita sconosciuta in cui il tempo è scandito dal susseguirsi dei ritmi sacri, dalle preghiere e dalla bellezza dei canti liturgici. Un luogo in cui c’è un tempo fuori dal tempo, pervaso dallo spirito monastico della clausura, e chi lo vive comincia a vivere l’eterno. Un spazio in cui il silenzio non è solitudine e assenza della parola, ma capacità d’ascolto.

    Il nostro è un convento costruito quattro anni dopo la nascita dello Statuto Autonomista della Regione Siciliana, nel 946; ha una struttura moderna, con le sue cellette per le monache, la chiesetta, la cucina con annesso refettorio, le sale da lavoro, il giardino per i fiori alla Madonna con l’angolo per l’orto.

    3

    Il lavoro nel quale le nostre suore di clausura sono specializzate e dal quale traggono le risorse per il loro sostentamento — in aggiunta alle poche offerte che il sentimento religioso dei siciliani offre in cambio delle loro preghiere — è il ricamo. Un tipo speciale di ricamo, il tombolo, un merletto prezioso e ricercatissimo, non solo perché è bello, ma perché nelle famiglie che se lo possono permettere viene usato per ornare e decorare lenzuola da letto matrimoniale, tovaglie da pranzo, centri da tavolo, e può essere incorniciato come quadro.

    Il lavoro del tombolo è un’antica tradizione di Sicilia, risale al xv secolo, ed era praticato soprattutto nei palazzi signorili della nobiltà siciliana. Le nostre suore sono bravissime nell’arte del tombolo, le loro realizzazioni sono delle vere e proprie opere d’arte, ed è con il ricavato della vendita dei merletti che queste possono permettersi l’autonomia finanziaria del convento; le richieste che ricevono sono molte di più rispetto a quelle che riescono a esaudire.

    Le suore pregano, lavorano, svolgono un’intensa vita di comunità, ma senza avere alcun contatto con il mondo esterno, né materiale né virtuale, non ascoltano la radio e non guardano la televisione. Il loro è un mondo di sognatrici fiduciose, credenti e propense all’amore. Il loro è un mondo che non conosce la cattiveria e l’odio ma la bontà misericordiosa e l’amore limpido, non il furore della com-petizione, ma una delicata pace celestiale.

    Un mondo di continua speranza; alcuni pensano che la speranza troppo prolungata faccia male al cuore, ma ciò non vale per le nostre suore.

    Vale per tutti, invece, che senza la speranza sarebbe difficile vivere.

    4

    Le nostre suore, seppur vestite di scuro, non sono ombre, sono vere ed è vero il loro mondo. Sarebbe bello se fosse il mondo reale, e sarebbe già bello se, soltanto, ci aspirassimo in tanti. Non sarebbe inseguire il nulla, ma inseguire noi stessi. Sono una comunità e si sentono abbracciate e parte del Mistero. Sono una macchina d’amore. Il loro amore è una gioia ininterrotta ed è l’atto creativo più grande che possiedono. Stanno e si sentono dentro il mare più grande della comunità degli uomini, sanno di non dover chiedere coccole particolari a Gesù, ma di doverle dare.

    Sono una comunità abbastanza numerosa per essere di clausura, sono oltre venti, molte giovanissime, alcune giovani, qualcuna anziana, una, la Madre, anzianissima ma attiva: è lei che guida il convento, molto amata e rispettata dalle consorelle — oserei dire venerata — per la sua vita in odor di santità.

    Suor Maria Assunta, per la sua devozione alla Madonna dell’Assunta, o più semplicemente la Madre, come tutte le suore la chiamano, al tempo in cui comincia la nostra storia è vicinissima ai cento anni. È, per le suore, un’icona limpidissima di comprensione e di verità, che dispensa amorevolmente alle sue creature, mai con severità ma sempre con tenerezza. Ed è proprio lei che, una notte, dà inizio

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