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Dopo di noi venne l'inferno
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E-book375 pagine5 ore

Dopo di noi venne l'inferno

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Info su questo ebook

Il sedicenne trans Benji è in fuga dalla setta fondamentalista che ha scatenato l’Armageddon e decimato la popolazione mondiale. Cerca disperatamente un posto dove l’esercito degli Angeli non riesca a mettere le mani su di lui e, soprattutto, sull’arma biologica con cui lo ha infettato. Ma quando viene messo alle strette da uno degli abomini generati dal virus, Benji viene salvato dal gruppo di adolescenti del Centro LGBTQ+ di Acheson. Il loro leader, Nick, è bellissimo, autistico e dotato di una mira micidiale, e conosce il segreto più oscuro di Benji: l’arma biologica della setta lo sta mutando in Serafino, un mostro abbastanza letale da cancellare l’umanità dalla faccia della Terra. Tuttavia, Nick offre un rifugio a Benji, a patto che possa controllare Serafino e usarne il potere per difendere la sua comunità. Desideroso di farne parte, Benji accetta le condizioni di Nick... fino a quando scopre che il misterioso leader ha un piano nascosto e più di qualche verità da confessare.
LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2023
ISBN9788831982962
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    Anteprima del libro

    Dopo di noi venne l'inferno - Andrew Joseph White

    Capitolo uno

    Ritornerai alla terra perché da essa provieni; perché polvere eri e polvere sarai.

    Preghiera degli Angeli

    Ecco cosa succede quando si cresce come Angeli: non si elabora il lutto.

    Il lutto è un peccato. La perdita rientra nel piano di Dio, e piangere i morti è un insulto alla Sua visione. Disperarsi per la Sua volontà è un sacrilegio. Come osi tradire il Suo piano e lamentare la scomparsa di ciò che è sempre stato Suo? Eretico disgustoso e infedele, dovresti essere impiccato alle mura così che i miscredenti sappiano cosa li aspetta. Lettera ai Romani 6, 23: Perché il salario del peccato è la morte.

    Quindi l’immagine del cadavere di papà brucia tra le pieghe del mio cervello, si incide nelle scanalature dei miei polpastrelli, e io la soffoco fino a strozzarmi. Gli Angeli rimuovono le parti di noi che sanno piangere fino a renderci incapaci di farlo. Impariamo a mascherare il dolore, a metterlo da parte per dopo, dopo, dopo, finché semplicemente non moriamo.

    Per come la vedo io, non ho di che preoccuparmi. Se gli Angeli faranno a modo loro, tutto questo dolore sarà presto un Suo problema. E se non lo faranno…

    Dio, ti prego, fa’ che non…

    Sto correndo. Sento il sangue di papà in bocca. Fratello Hutch gli ha sparato una volta al petto per immobilizzarlo e una volta alla testa per ucciderlo.

    Fratello Hutch mi chiama: «Non c’è bisogno di complicare le cose, dico davvero!» Gli altri Angeli perlustrano la riva del fiume, risplendono bianchi nel sole cocente di febbraio, si muovono lenti e sicuri nelle strade. Non hanno bisogno di affrettarsi. Sanno che alla fine mi prenderanno.

    Un sedicenne contro uno squadrone della morte di Angeli? Sono spacciato.

    Inchiodo per fermarmi dietro un pilone di cemento vicino alla riva del fiume e mi piego a metà, ansimando, per riprendere fiato. Ho i capelli incollati alla fronte in un amalgama di sudore e sangue – il sangue di papà – che si sta seccando sulla faccia e sulle mani. Ho i polmoni in fiamme. Non so se il rombo che sento nelle orecchie sia il battito del mio cuore o il fiume.

    Papà non c’è più. È morto, è morto, è morto.

    «Ti prego, Dio», sussurro senza potermi trattenere. Cosa mi fa pensare che mi risponderà adesso? «Per favore, dammi qualcosa, qualunque cosa per—»

    «Sorella Woodside!» urla Fratello Hutch. «Tua madre è preoccupata per te! Vuole riportare sua figlia a casa».

    La prima cosa che mi ha detto papà – quando mamma mi assicurava che prima o poi avrei compreso il piano del Signore per la mia femminilità, che me l’avrebbe inculcata a forza se necessario –, la prima cosa che mi ha detto è che sono un uomo, e io ho lottato per questo, nessuno può togliermelo.

    Apri gli occhi. Respira. Calmati, Benji, calmati.

    Gli squadroni della morte non mi hanno ancora preso.

    Posso finire quello che papà ha iniziato.

    Posso andarmene da Acheson, Pennsylvania.

    Sbircio la strada da dietro il pilone. Il quartiere affacciato sul fiume doveva essere bello prima del Giorno del Giudizio. Prima del Diluvio. Ora l’edera si arrampica sui grattacieli di vetro e le automobili arrugginiscono nei cimiteri dei parcheggi. Prati e giardini si sono inselvatichiti e hanno inghiottito tutto ciò che potevano raggiungere. I fiori sbocciano a febbraio. È uno dei pochi mesi adatti alla fioritura. Moriranno di sete entro i primi di aprile.

    Ma non vedo nessun Angelo. Non ancora.

    Fratello Hutch urla al cielo: «Non vogliamo farti del male, dico davvero».

    L’unica via di entrata e di uscita dalla zona sud di Acheson è il ponte – l’unico ponte che gli Angeli non hanno distrutto il Giorno del Giudizio. È soltanto a mezzo isolato di distanza. Con gli squadroni della morte che si avvicinano e le guardie del ponte chiamate a partecipare alla mia caccia, è l’unica possibilità che mi resta.

    Avrei dovuto farlo con papà. Dovevamo andarcene da Acheson insieme. Dovevamo raggiungere Acresfield County insieme. Ora lui è ridotto a un cadavere nel giardino di un albergo fatiscente e il suo cervello cola nel terreno, ritorna alla terra perché da essa proviene.

    Non posso finire quello che avevamo iniziato se me ne sto qui a pregare Dio di cambiare le cose. Non servirà a riportarlo indietro.

    Respira.

    Corri.

    Sono giorni che corro, ma non così. Non con le gambe che urlano e le scarpe da tennis che schiaffeggiano il marciapiede al ritmo del mio cuore. Faccio finta che papà sia dietro di me, che non riesca a sentirlo solo perché ho il fiatone, che possa confonderlo con una macchia sfocata nelle vetrine dall’altra parte della strada.

    Arrivo all’imbocco del ponte. Anziché fermarmi, mi lancio tra le carcasse di automobili che strozzano l’accesso. Il ponte risplende argentato, dai tralicci dondolano spessi cavi di metallo da una sponda all’altra del fiume. Ora è degli Angeli. Uno striscione sventola sopra di me: dio ti ama. Dai cavi pendono cadaveri, gli organi giallo-rosati strabordano dagli stomaci e nascondono le nudità, come Adamo ed Eva pieni di vergogna per il proprio corpo.

    Uno dei cadaveri è contorto, ha la gamba rotta a un angolo strano e io non so se sia per colpa degli Angeli o del Diluvio. Il Diluvio è crudele. Ha effetti terribili sui corpi.

    Non che mi serva altro a ricordarmelo.

    Il ponte è lungo. Riesco quasi a convincermi che papà mi stia aspettando dall’altra parte con i nostri zaini in mano, chiedendosi: Perché ci mette così tanto? Io mi fionderei tra le sue braccia e insieme scapperemmo da Acheson, così lontano da ogni accampamento e colonia che gli Angeli non ci ritroverebbero mai. Io e papà abbiamo imparato a memoria la mappa di ogni avamposto negli Stati confinanti e di ogni grossa roccaforte nel Nord America. Staremo bene. Staremo bene.

    «Eccola!»

    Non devo guardare, non devo.

    Guardo.

    So che l’Angelo dietro di me è Fratello Hutch perché ha la veste chiazzata del sangue di papà. Il fucile gli pende da una cinghia a tracolla. È così vicino che posso distinguere le sbucciature sulle nocche, le macchie sulla maschera.

    Le maschere servono a proteggersi dal Diluvio, ma io non la indosso da un bel pezzo. Non corro il rischio di infettarmi un’altra volta.

    «Sorella Woodside», dice Fratello Hutch, e gli altri Angeli emergono dall’ombra, dalle rovine, dalle strade laterali. Io non indugio un attimo di più.

    La seconda cosa che mi ha detto papà – quando finalmente siamo scappati, tendendo l’orecchio alle urla dei mostri e al rumore degli stivali sul terreno – è che, se gli Angeli vogliono mettere le mani su di me, devo farli soffrire perché ci riescano.

    Sento ancora il sapore del suo sangue.

    Scavalco le barriere di sicurezza al posto di blocco degli Angeli e mi schianto dall’altra parte. Qui dietro ci sono delle sdraio, una Bibbia, qualche bottiglia d’acqua. La strada è piena di vetri infranti. I corpi ondeggiano.

    Corri.

    Ho sognato la sensazione di raggiungere l’altra sponda del ponte. Io e papà ci saremmo diretti a nord e avremmo trovato un posto dove passare l’estate. Certo, ci sarebbero stati degli Angeli, perché finché l’ultimo Angelo non sarà morto ce ne saranno sempre, ma avremmo avuto tutto il mondo per evitarli. Forse avremmo incontrato qualcuno: un affascinante miscredente che si sarebbe innamorato di me non appena gli avessi immerso le mani in acqua tiepida e bendato le ferite. Un ragazzo dolce e un po’ impertinente e queer da morire che non avrebbe incasinato i miei pronomi dopo avermi visto il petto. Alcune volte era biondo, come il mio fidanzato. La maggior parte, no.

    Basta. Non pensarci. Non pensare a Theo. In ogni caso non ha più importanza, non succederà niente di tutto ciò. Il Diluvio mi spezzerà come ha spezzato chiunque altro, ma io devo tenere il mostro fuori dalla portata degli Angeli. Devo andarmene, devo scappare da qui, devo—

    Un Angelo fischia, e al richiamo risponde un urlo.

    Tra le macchine davanti a me si dispiega un groviglio di arti, che strilla e ulula per tutte le pene dell’inferno, si lamenta e digrigna i denti. Dalle macerie si erge una creatura composta da cadaveri e Diluvio – le costole affilate gli ricoprono la schiena in una sfilza di spine dorsali, i globi oculari appaiono tra i nervi, i muscoli sono così gonfi da lacerare la pelle. Gli artigli grandi quanto l’osso di un braccio si avvolgono attorno alla cabina di un camion e la accartocciano.

    Smetto di correre. No. No, no, no. no.

    Non una Grazia. Non quando manca così poco.

    Quello che un tempo era il viso di una persona si spalanca a partire dal lato inferiore della mascella, su fino allo spazio in mezzo agli occhi e dietro la nuca, e mostra denti imbrattati di nero marciume del Diluvio. Mi accorgo a malapena del suono degli stivali e delle urla, ma non importa. L’unica cosa che conta è il mostro che torreggia sopra di me grondando decomposizione e che blocca l’unica via d’uscita.

    La terza cosa che mi ha detto papà – quando ha capito di cosa fossi capace, quando sono entrato in contatto con una Grazia e l’ho implorata di uccidere ogni Angelo sulla sua strada; quando sono rimasto in piedi in un mare di sangue con una bestia stretta al mio corpo.

    Mi ha detto di essere buono.

    Di non diventare mai il mostro in cui gli Angeli volevano trasformarmi, perché il male genera male e ancora male.

    Il rumore di stivali rallenta fino a fermarsi. Mi cedono le gambe. Inciampo a terra, premo i palmi sull’asfalto bollente.

    Sii buono. Falli soffrire. Essere buono significa stare tranquillo, obbedire, voltare le spalle al potere del virus così come Eva ha voltato le spalle alla mela. Farli soffrire significa prendere il controllo sulla Grazia e trascinare gli Angeli all’altro mondo con me, in uno scoppio di carne e furore.

    Potrei fermarla. Potrei indirizzare un sussurro all’altro lato della strada e costringere gli Angeli a pentirsi di aver posato le mani su di me.

    Riesco quasi a entrare in contatto con la Grazia.

    Ma.

    Papà è morto stringendomi il viso tra le mani – il suo sangue è colato sulla mia lingua, sulle mie guance, mi ha impiastricciato i capelli – e mi ha implorato di essere buono.

    Non mi sta aspettando dall’altra parte. Non posso continuare a correre così. Sono tanto, tanto stanco.

    La bontà vince.

    «Sarò buono, sarò buono, sarò buono». Lo dico ad alta voce come se potessi alleviare il fallimento, come se le mie interiora non stessero urlando di bruciare gli Angeli nel fuoco dell’inferno, come se ci fosse un modo di obbedire a tutte le parole di papà al tempo stesso. «Sarò buono. Oh, Signore, dammi la Tua forza, conducimi e guidami—»

    Sento un liquido bollente gocciolarmi sul mento, e mi pulisco la bocca. Quando allontano le dita, sono rosse e nere.

    Con la coda dell’occhio vedo comparire un paio di stivali pesanti, inghirlandati da una tunica bianca macchiata. Fisso la mano, l’orizzonte, il sole che albeggia.

    È davvero questo ciò che Egli vuole? È davvero questo il Suo piano?

    Fratello Hutch dice: «Mi dispiace», e sembra quasi sincero.

    Dal profondo della gola mi esce un terribile lamento. È da anni che non sono così vicino al piangere. Oltre Fratello Hutch e oltre la Grazia c’è il rombo del fiume, perfettamente azzurro e limpido e pulito; le montagne di Acresfield County splendono d’oro e di verde; le ali nere degli avvoltoi brillano nel sole mattutino.

    Fingo che papà sia da qualche parte là fuori. Gli dico che sono stato buono e di andare avanti senza di me. Gli dico che un giorno, alla fine, ci ritroveremo, forse; lo prometto.

    Fratello Hutch dice: «È ora di tornare a casa».

    Capitolo due

    In che cosa credono gli Angeli? In quanto veri fedeli, la nostra priorità è servire il signore. Sappiamo che la salvezza deriva dal servire Dio, dall’eseguire il Suo ultimo comandamento. Ci definiamo angeli per proclamare la nostra verità nella servitù.

    Dal sito web ufficiale del Movimento Angelico

    È ora di tornare a casa.

    Fratello Hutch mi tende la mano. La mano che ha stretto quella di mamma in preghiera, la mano che ha premuto il grilletto contro papà.

    Casa significa tornare a Nuova Nazareth. Tornare da Theo, tornare da mamma. Ogni Angelo a Nuova Nazareth si inginocchierà e pregherà per la mia benedizione. Theo mi riprenderà come sua promessa sposa, come se non mi avesse sputato addosso e detto che ero una stronza bugiarda e ingrata. Mamma mi bacerà le guance, fingendo di non notare i vestiti da maschio e i capelli corti, poi mi sbatterà in una cella d’isolamento finché il Diluvio non mi avrà trasformato in un mostro.

    In Serafino. In una bestia con sei ali, ardente di fuoco sacro, che condurrà le Grazie e il Diluvio in guerra, scavando un sentiero verso il paradiso attraverso i corpi dei miscredenti.

    Non afferro la mano.

    Non voglio tornare a casa.

    Sento una fitta allo stomaco e vomito sulla strada. È giallo, rosso e nero; ho la gola riarsa e bollente. Attorno a me – click, click, clack – una serie armi rimuove la sicura. Ma gli Angeli non spareranno. Non mi uccideranno. Immaginate che fine farebbe il soldato colpevole nelle mani dei fedeli. Finirebbe crocefisso. Tagliato in due. Morirebbe guardando i vermi dimenarsi nelle proprie viscere.

    «Ehi!» Fratello Hutch aggredisce i soldati. «Abbassate le armi, subito

    Ho ancora i conati. Non esce niente, solo acido. Fratello Hutch sussurra dolcemente, ed è un suono così gentile da far morire di paura.

    «Su, su», mormora. Mi massaggia fra le spalle con piccoli movimenti circolari. «Va tutto bene».

    Le parole mi escono in un rantolo incerto, gorgoglianti di saliva. «Non mi toccare».

    «Okay», dice Fratello Hutch. «Capisco. Ho sentito come ti chiamava tuo padre. Benji, giusto? Ti chiamerò Ben, se è ciò che desideri. Tua mamma è preoccupata per te, Ben. Vuole assicurarsi che torni a casa».

    Mamma non è preoccupata per me. È preoccupata solo per la salvezza.

    Dico: «Marcisci all’inferno».

    Funziona. Fratello Hutch ringhia e mi trascina su – non tanto da mettermi in piedi o persino sulle ginocchia, solo quel che basta per guardarlo negli occhi. Occhi pungenti e iniettati di sangue. «E se facessimo un patto?» dice. Cerco di tirarmi indietro, ma lui mi stringe forte. «A te la scelta. Puoi venire con noi con le buone, oppure possiamo costringerti con le cattive. Puoi rinsavire, oppure posso spezzarti le gambe». Sta sorridendo. Il viso gli si illumina in modo osceno. Nessuna maschera può nasconderlo. «La scelta sta a te. Come vuoi procedere?»

    Ha qualcosa sullo zigomo. Uno schizzo, stranamente soffice e rosa. Un pezzettino di carne.

    Un pezzettino di papà.

    Gli sputo in faccia.

    Fratello Hutch ulula. Il marciume acquoso del Diluvio – saliva mescolata alle mie interiora in putrefazione – gli cola negli occhi prima che possa pulirsi, e lui mi tira un manrovescio così forte che la vista mi si riempie di scintille. L’udito si dissolve in uno stridio acuto. Mi riprendo appena prima di sbattere la testa sulla strada.

    «Non è contagioso», dice una guardia del ponte, e strappa le mani di Fratello Hutch dal volto. «Non è contagioso, fratello. Sorella Kipling dice—»

    Con un calcio mi fanno cadere di schiena. L’asfalto bollente brucia attraverso la maglietta. La ghiaia sparsa mi affonda nelle scapole. Il tallone di uno stivale mi inchioda alla strada e mi preme sullo stomaco come se volesse spegnere un mozzicone di sigaretta.

    Conosco l’uomo in piedi sopra di me. La cicatrice che gli attraversa il naso, le rughe che gli solcano la fronte.

    «Steve», sussurro, come se chiamarlo con il suo nome anziché Fratello Collins potesse rendere più gentile uno dei sacri assassini del Signore. «Steven. Sono io».

    Ci siamo conosciuti, quando io avevo undici anni e lui ventuno, perché siamo arrivati a Nuova Nazareth all’incirca nello stesso periodo. Ricordo quando lui ha ricevuto il marchio dello squadrone della morte: le ali impresse nella schiena, le piume che partono dalle spalle e scendono fin sotto le costole. Theo fissava quei tatuaggi freschi come un bambinetto osserva un soldato tornato dalla guerra. Io li fissavo come una bambinetta osserva lo zio da cui le sorelle le dicono di tenersi alla larga.

    Steven si ammorbidisce, solo un po’, e io penso che forse ha funzionato, ma poi mi solleva con una presa da lottatore e mi blocca la testa contro il suo petto. Puzza così tanto di sudore che mi sembra di sentirlo sulla lingua.

    Un guizzo e mi ritrovo un coltello alla gola. Uno grosso, con una lama nera che luccica al sole.

    «Se ci tieni così tanto a essere un ragazzo», dice Steven, «allora potremmo iniziare tagliandoti qualcosa. E così che funziona, giusto?»

    Non riesco a tirare fuori le parole. Scuoto la testa. No.

    «Come pensavo. Allora comportati da brava bambina e fa’ come ti diciamo».

    Scusa, papà. Scusa.

    Dico: «Okay».

    Fratello Hutch prende la Bibbia dal posto di blocco sul ponte mentre Steven mi fa indossare una veste bianca e mi aggancia una maschera alle orecchie – un’esile maschera di tessuto in uso solo tra le mura di Nuova Nazareth, dove ci muoviamo sotto la protezione di Dio. «Troia», sussurra Steven, lanciando uno sguardo truce ai miei abbondanti pantaloncini di jeans prima che spariscano sotto l’abito. Le guardie del ponte riprendono posto dietro alle barriere di protezione, in attesa di impiccare altri miscredenti e lasciar passare gli Angeli messaggeri verso altri accampamenti. Il soldato vicino alla Grazia la persuade gentilmente a uscire da dietro le macchine, e il suo corpo sciolto dal virus rabbrividisce nella brezza umida che si leva dall’acqua.

    «Signore», proclama Fratello Hutch, la mano libera alzata come se volesse raggiungere i corpi che ondeggiano sopra le nostre teste. Tutti si uniscono a lui, tranne me. «Signore, noi ti preghiamo; quanto è grande la Tua grazia nel ricondurre il nostro benedetto Serafino a noi!»

    Sarò buono. Sarò buono. Sarò buono. Terrò nascosto Serafino, rinchiuso nel mio petto, costi quel che costi. Gli Angeli non avranno mai l’arma in cui mi hanno trasformato.

    Ma sono così stanco di correre.

    Lo squadrone della morte mi porta via dal ponte, via da Acresfield County, e mi conduce tra le strade di Acheson verso Nuova Nazareth. Chiedo di potermi pulire, ma loro rifiutano, quindi ho ancora il sangue di papà sulla faccia, sui capelli, sulle mani. Via. Lo spalmo sulle maniche, ma si è conficcato tra le linee delle dita e le pieghe dei palmi. Voglio immergere le mani in acqua bollente. Via, via, via.

    Steven mi prende per la spalla e mi scuote. «Chiudi quella cazzo di bocca».

    Sussulto. Un linguaggio del genere non sarebbe mai ammesso tra le mura di Nuova Nazareth. Nemmeno se pensato. Mamma dice che Dio lo saprebbe in ogni caso.

    Oltre ai soldati e alla Grazia che si trascina dietro di noi, nell’intera mattinata non vediamo altro che macchine abbandonate e edifici vuoti. Il mondo è finito solo da due anni, quindi tutto sembra esattamente com’era: grappoli di adesivi appesi alle fermate degli autobus, erbacce che spuntano tra le crepe nel marciapiede, alberi troppo cresciuti per i quadrati di terreno nel cemento. C’è un cadavere appeso a un’asta portabandiera, e sull’edificio alle sue spalle lettere giganti urlano: pentiti, peccatore.

    È così che funziona adesso. Tutti stanno morendo, la questione è solo di cosa. Gli Angeli, o il Diluvio, o un infarto, o la cara vecchia setticemia.

    Per la maggior parte dell’umanità, è stato il Diluvio. La mamma di Theo si è martirizzata il Giorno del Giudizio e lui l’ha compianta nell’unico modo permesso: imparando tutto. Il fatto che il virus è avvampato in miliardi di persone, grazie ai missionari come sua mamma che lo trasportavano in ogni grande città del pianeta. Il fatto che ti uccide quando le nuove costole crescono nei polmoni, ma pochi sfortunati sopravvivono abbastanza a lungo da trovare la salvezza diventando Grazie. Il fatto che gli squadroni della morte si infettano di propria iniziativa con un assaggio di Diluvio durante il rito di iniziazione, camminando sulla linea sottile che divide l’avvicinarsi di un passo a Dio e il soccombere alla malattia… Il fatto che Serafino sia un equilibrio tra il bisogno del Diluvio di divorare e quello di sopravvivere: è abbastanza famelico da trasformarmi in un mostro, ma abbastanza paziente da farlo nei tempi giusti. Perché Sorella Kipling ha reso il Diluvio potente, ha reso Serafino perfetto.

    Mi ha reso perfetto.

    La Grazia brontola e si dimena come un cavallo che prova a scacciare le mosche. In altezza arrivo a malapena al suo petto ingobbito. Quando ha la bocca chiusa, vedo quel che resta della persona – delle persone – che è stata. Denti umani tra le zanne serrate. La parvenza di un naso tondo.

    Fratello Hutch mi sorprende a fissarla. Distolgo lo sguardo, ma non basta. Lui rallenta per prendere il mio passo. Davanti a noi due soldati studiano una mappa, confabulando di imboscate passate e di nuovi percorsi all’interno della città.

    Ultimamente Acheson si sta mangiando gli Angeli.

    «Non è stupefacente», tuba Fratello Hutch, le dita tese verso la Grazia, «questa nuova vita che le è stata concessa? Com’è misericordioso il nostro Signore a permettere loro di rinascere, di diventare guerrieri nella nostra battaglia per il Suo piano. Proprio come te».

    Proprio come me. È per questo che sono stato scelto. Perché il virus mi trasformasse in un mostro che conduca gli Angeli al paradiso.

    Che spazzi via l’umanità dalla Terra una volta per tutte, proprio come ha richiesto Dio.

    Poco dopo mezzogiorno, il più giovane membro dello squadrone chiede una pausa. Ci troviamo su un viale largo fiancheggiato da ristoranti e uffici hipster che sfoggiano strani loghi. Alcuni erano stati abbandonati già prima del Giorno del Giudizio, per via dell’inflazione galoppante, dei prezzi dell’affitto e, in realtà, di tutto quanto. I volantini sul risparmio dell’acqua e gli inviti a protestare si sfaldano dai muri di mattoni, vicino agli avvisi di sfratto o ai cartelli di cessata attività. Da qualche isolato non vedo corpi o segni della propaganda degli Angeli. Dev’essere un nuovo percorso.

    «Ho sete», si lagna il soldato più giovane. È da quando siamo partiti che provo a riconoscerlo, ma i miei tentativi cadono nel vuoto. Di chi è fratello, di chi è figlio? «Mi fanno male i piedi».

    Steven gli sbatte una bottiglia d’acqua sul petto. «Allora bevi. E piantala di lamentarti».

    Nemmeno io farei una pausa, se stessi scortando la mia chiave per la vita eterna. Ma Fratello Hutch dice: «Ha ragione». Gli occhi di Steven si contraggono sopra la maschera. «Non serve a niente sfinirci. Ci manca ancora un’ora per raggiungere Riformata».

    Riformata? Intende la Chiesa Evangelica della Fede Riformata. I miei ricordi di quel luogo riemergono di soprassalto, così come la nausea sul retro della gola. Dovevo aspettarmelo. Riformata è a metà strada tra il ponte e Nuova Nazareth; è il posto ideale dove riposarsi in questa città selvatica, ma se io entrerò in quell’edificio perderò completamente la testa. Se entrerò di nuovo in una chiesa qualsiasi

    «Sedetevi», dice Fratello Hutch. «Mangiate, riposate. Tutti quanti».

    «Grazie a Dio», dice il più giovane, che immediatamente si accascia sul cofano di una berlina martoriata dai proiettili. Gli altri alzano gli occhi al cielo. Il ragazzo è strano e ossuto, non molto più grande di me. Probabilmente ha appena finito l’addestramento, le sue ali sono ancora doloranti, ed è stato assegnato allo squadrone che per caso aveva l’incarico più importante del mondo. Se è un novellino come credo, mi stupisce che nessuno l’abbia ancora colpito forte sulla schiena, dove i tatuaggi fanno più male. Theo se ne lamentava in continuazione, quando aveva ancora commilitoni di cui lamentarsi. Di certo ho un ruolo troppo importante per assistere a certi episodi di nonnismo.

    Se Theo non fosse stato cacciato dagli squadroni della morte, adesso avrebbe potuto esserci lui qui – il mio promesso sposo – a fissarmi, mascherato e armato di pistola.

    Un soldato indica la strada. La Grazia si ripiega su sé stessa e si siede, tremando da capo a piedi. C’è abbastanza materia grigia nel cervello delle Grazie da costringerle a eseguire semplici comandi a suon di frustate: seduta, ferma, uccidi. Steven non mi concede la dignità di eseguire gli ordini. Mi spinge a forza sul marciapiede. Gli altri si scambiano la mappa e pacchetti di cibo, si avventano sui pasti e si raggruppano all’ombra. Il novellino bisticcia per avere la mappa e, con uno sbuffo di trionfo, la strappa di mano a un altro.

    Congiungo le mani insanguinate e premo le labbra contro le nocche come se stessi pregando. Se ci fermiamo, voglio approfittarne. Dev’esserci una via di fuga. Se riesco a mettere un po’ di distanza, qualsiasi distanza, tra me e gli Angeli, posso seminarli di nuovo.

    C’è un vecchio caffè dietro di noi, la porta di vetro in frantumi rivela un percorso tra le sedie e i tavolini eleganti che conduce a una porta sul retro con la targa uscita d’emergenza.

    Se li distraggo abbastanza a lungo, posso farcela.

    Vicino alla berlina, il novellino dice: «Siamo vicinissimi a dove è scomparso Salvezza».

    Tutti si bloccano. L’inquietudine si insinua come nebbia.

    Ne ho sentito parlare qualche tempo fa. Il mese scorso lo squadrone Salvezza era uscito per rastrellare un possibile accampamento di miscredenti, ma non ha mai fatto ritorno. Mamma ha officiato una messa in suo onore sul prato davanti alla cappella, le mani alzate per aiutare i soldati a raggiungere la loro meta predestinata al fianco di Gesù, il dono della vita eterna ora e per sempre, nei secoli dei secoli. Non un funerale, però. Gli Angeli non tengono funerali.

    Fratello Hutch prende la mappa. «Non dovremmo», dice. «Siamo da tutt’altra parte rispetto al quadrante nord-est, dovrebbe essere tutto a posto. Dovremmo…»

    La Grazia grufola.

    «È così», dice Fratello Hutch. «Giusto?»

    Un soldato si aggrega agli altri. «Pensavo che avessimo preso la via più lunga per aggirarlo».

    «Anche io», dice Fratello Hutch. «Forse abbiamo imboccato una svolta sbagliata vicino al tribunale».

    crack.

    Una ferita sboccia sul collo di Steven, come se qualcuno avesse voluto sparargli in pieno petto ma avesse mancato il bersaglio, squarciandogli il collo in una poltiglia di carne e arterie

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