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Firmato: il tuo agente spettrale
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E-book362 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Il detective Daniel McKenna si occupa dei cold case, i casi irrisolti, ma la sua ultima indagine si è arenata. Sono passati cinque anni da quando la studentessa delle superiori Amy Greene è scomparsa dopo essersi allontanata dal suo posto di lavoro part-time, e da allora nessuno l’ha più vista. Daniel è contento di ricevere finalmente l’aiuto che aveva richiesto all’FBI, anche se l’agente incaricato è proprio il suo ex: l’uomo incapace di emozioni che l’ha lasciato senza guardarsi indietro.
L’agente speciale dell’FBI Rain Christiansen era il golden boy dell’agenzia, ma gli è bastato un momento di debolezza, una piccola, minuscola, infinitesimale apparizione paranormale per diventare, all’improvviso, l’imbarazzo del Bureau.
Quando Rain incontra di nuovo Danny, non può negarlo: si sta di nuovo innamorando di lui, ammesso che abbia mai smesso di amarlo. I fantasmi che lo perseguitano dietro ogni angolo e un’indagine che non rivela piste contribuiscono alla sua frustrazione, al punto che comincia a chiedersi se le seconde opportunità e il lieto fine non siano solo favole.
LinguaItaliano
Data di uscita7 nov 2022
ISBN9791220704564
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    Anteprima del libro

    Firmato - S.E. Harmon

    1

    Il fantasma dell’ascensore era tornato.

    Era un teenager musone, con un covone di capelli scuri che cadeva su occhi altrettanto neri. Se sulla sua faccia c’era uno spazio senza un piercing, be’, non lo trovavo: li portava su sopracciglia e bocca, aveva i lobi allargati e una barretta stranamente di buon gusto al naso. La pelle liscia era di un pallore cadaverico e con ogni probabilità lo era stata anche in vita. Intuivo il suo umore dalle braccia conserte e il labbro inferiore imbronciato. Era incazzato. Non ne ero sorpreso. Era sempre incazzato.

    «Non di nuovo,» sussurrai.

    Sentii lo sbalzo della temperatura ancora prima di mettere piede nella cabina. Un freddo da far cadere la coda ai cani. Salii e mi girai, lo sguardo fisso in avanti, l’espressione cupa. Cercai di sopprimere i brividi mentre spingevo il bottone rotondo per il quinto piano, quello della BAU, Behavioral Analysis Unit, l’unità di analisi comportamentale. Espirai piano e il fiato si addensò in una piccola nuvola per poi dissolversi come fumo di sigaretta.

    «Eddai, Christiansen. Mi parli o no?»

    No, se posso evitarlo. I piani si susseguivano. Controllai l’orologio. Il Rolex Daytona mi era stato regalato da un ex e non ero stato così affranto per la nostra rottura da restituirlo. Il mio riflesso tremolava sull’acciaio dell’ascensore con le pareti a specchio. Non mostrava niente di strano.

    Solo un uomo che indossava un maglione nero di cashmere e pantaloni neri di sartoria. In cappotto, con una sciarpa di Burberry a scacchi grigi. Scarpe modello francesina semi-brogue, ben lucidate. Capelli biondo-miele che era ora di sistemare. Occhi nocciola ben distanziati. Occhi nocciola colmi d’ansia.

    Mi stavo arrovellando sulla frutta in un mercato all’aperto senza avere idea di come sceglierla, quando Graycie mi aveva lasciato uno dei suoi concisi messaggi criptici. Sebbene fosse un messaggio in stile porta qui il culo, mi ero preso tutto il tempo per andare a casa a cambiarmi e farmi bello. Mi lisciai i capelli. Bisognava mostrarsi chic anche quando si stava per essere licenziati.

    «A questo punto dovresti averlo capito che non vado da nessuna parte,» disse il fantasma dell’ascensore. Sapevo come si chiamava, naturalmente, ma dato che era una bestiolina fastidiosa, aveva perso il privilegio di essere chiamato per nome. Adesso era solo il fantasma dell’ascensore. Il fantasma del divano. Il fantasma della cucina, a volte. E di qualsiasi altro posto del cavolo dove gli venisse in mente di apparire.

    «Te l’avevo detto che i miei genitori non avrebbero gradito il messaggio.»

    A voler minimizzare, avrei obiettato. Suo padre non era stato molto contento di ricevere un messaggio dall’oltretomba e mi aveva quasi frantumato il naso.

    «Non puoi dare la colpa a me,» continuò. Come faceva sempre. Sembrava non importargli che non gli rispondessi più.

    Col cavolo che non posso. Preferisco che il mio naso resti proprio dov’è. Avevo infranto la regola che mi ero imposto e avevo ascoltato il fantasma, e non avrei rifatto quell’errore. Ancora tre piani. «Oggi l’ascensore è così lento,» mormorai.

    «È sempre lento.»

    Come ci si poteva aspettare, lo spirito non si rifletteva sulla superficie a specchio. Sembravo esattamente quello che ero: un pazzo che parlava da solo.

    «Che orario fai? Quando ricevi? Posso sempre tornare.»

    Digrignai i denti. Che ne dici del primo del mese di mai alle baciami il culo?

    «Eddai!» Era possibile che un fantasma fosse infastidito? Sembrava di sì, a giudicare dalla sua espressione stizzita. «Non puoi continuare a ignorarmi.»

    «Come posso ignorare qualcuno che non c’è?» sbottai, poi feci una smorfia. La smorfia non bastava. Avrei voluto prendermi a schiaffi. Ero riuscito a ignorarlo per oltre due mesi. Ormai non se ne sarebbe più andato.

    «A-ha!» Ethan era trionfante. «Sapevo che mi vedevi.»

    Premetti di nuovo il bottone del quinto piano.

    «Facciamo un accordo. Mi ascolti solo questa volta, poi non mi vedrai mai più.» Di fronte al mio silenzio ostinato, insistette. «O vorresti che dicessi ai miei amici dove trovare un ponte per il mondo dei vivi?»

    Come asso nella manica, quello era… devastante. Avrei dovuto decidere se avere a che fare con un solo fantasma fastidioso o con un plotone di spettri. Espirai pesantemente. «Hai tempo fino al quinto piano, perciò mi darei una mossa se fossi in te.»

    «Dovresti trasmettere un altro messaggio ai miei genitori.»

    «Be’, questa è facile.» Incrociai le braccia. «Col cavolo!»

    «Eddai,» piagnucolò. «Senti, ognuno ha il suo ruolo. Tu sei un medium, un mezzo, un ponte, e io sono un fantasma. A me tocca raccontarti quello che è restato in sospeso della mia vita, a te tocca sistemarlo. A quel punto finalmente me ne andrò da questo accidenti di posto. È così che funzionano le cose.»

    Come no. Va’ a dirlo ai genitori di Shawna Paul, anche noti come la ragione per cui tutti pensavano che fossi instabile. Era il primo fantasma per conto del quale avevo cercato di consegnare un messaggio. Suo padre mi aveva puntato addosso un fucile e mi aveva ordinato di lasciare la proprietà. Sua madre aveva chiamato il Bureau per denunciarmi. A quel punto mi avevano assegnato un bel periodo di riposo da passare nell’ufficio dello psichiatra del dipartimento per riflettere su quello che avevo fatto.

    Scossi la testa. «No. Assolutamente no. E non sono un ponte,» aggiunsi per buona misura.

    «Ovviamente no,» brontolò Ethan. «Visto che sono ancora bloccato qui.» Dietro quell’atteggiamento, intravedevo confusione. Tristezza. «Perché cazzo sto ancora qui?»

    «Non lo so. Sei tu il fantasma, non io.»

    «Devono sapere che sono in pace.»

    Sospirai e mi voltai per guardare il mio pedinatore spettrale. Chissà quanto sarebbero stati interessanti i filmati delle telecamere di sicurezza quel giorno! «Ethan, su questo devi fidarti di me. Probabilmente non mi crederebbero nemmeno.»

    Scivolò lungo la parete dell’ascensore fino a sedersi, poi tirò al petto le gambe infilate nei jeans stretti. Le circondò con le braccia e fissò il pavimento. Ci volle un altro secondo prima che riuscisse a parlare di nuovo. Quando lo fece, la sua voce era piatta, controllata, pratica.

    «Sono stato il figlio bravo per tutta la vita, sai, o almeno era questo che pensavano i miei genitori. Il pensiero che credano che abbia semplicemente tagliato la corda…»

    «Sei stato tu a decidere che andare in montagna da solo fosse una buona idea.»

    «Potevo immaginare che avrei incrociato un orso?» sbottò. «Non è stata proprio una morte facile, sai.» Soffiò fuori l’aria e si strofinò forte gli occhi. Sembrava avere più di diciassette anni in quel momento. Molti di più.

    «Mi dispiace,» sussurrai.

    «Non posso rimediare a quello che è successo. Ma non posso sopportare che mi cerchino per i prossimi dieci anni. Devono andare avanti. Usare il mio fondo per il college per quella baita in Alaska che sognavano di prendere e smetterla di far arricchire gli investigatori privati. È l’ultima cosa che posso fare per loro.»

    «Ethan, io…»

    «È solo uno stupido messaggio. Perché diavolo hai ricevuto questo dono se non lo usi per aiutarci? Non è che abbia una grande scelta di persone con cui parlare. Sono proprio… morto.» Deglutì come se stesse di nuovo digerendo quel fatto. «Sono morto.»

    «Mi dispiace,» ripetei, un po’ demoralizzato. Se era un prodotto della mia immaginazione, era piuttosto vivido. «Mi dispiace per quello che ti è accaduto, che tu non abbia la possibilità di cominciare da capo. Ma è qui che finiscono le cose per te e me, Ethan. Non posso tornare da loro, affrontarli e dirgli che ho visto il tuo fantasma.»

    Rabbrividii solo a pensarlo. «Sai che tipo di equipaggiamento mi servirebbe per affrontare quel polverone? Sarebbe la fine della mia carriera.»

    «Fanculo la tua carriera,» disse Ethan in tono duro. «Anzi, fanculo a te.»

    «E fanculo anche a te,» ribattei. Ero alla frutta, e la frutta stava marcendo. L’ultima cosa che mi serviva era farmi fare la predica da un fantasma impertinente. Se c’era davvero un fantasma. Le porte dell’ascensore si aprirono senza rumore sul fulcro di attività che era la BAU. Attraversai la sala, circondato da brusii e suoni smorzati.

    Naturalmente Ethan mi seguì passo dopo passo, facendo precipitare la temperatura dell’ambiente. Ero fiero di me. Non urlai mentre percorrevo il piano, soprattutto perché farmi scaricare addosso un taser in un edificio federale non mi attirava molto. Nemmeno essere lasciato a contorcermi davanti ai miei colleghi. Tenendo quel pensiero bene in mente, riuscii perfino a ricambiare i cenni di saluto che mi rivolgevano.

    Non ci sono fantasmi. È l’ansia. Avevo soltanto bisogno di prendere le pillole che mi avevano ordinato e riposare. Le pillole avrebbero bloccato le visioni solo temporaneamente, ma mi sarei accontentato anche di una piccola tregua. Con l’ufficio di Graycie ormai in vista, accelerai. Come se fosse possibile staccare un fantasma!

    «Scappi?» sibilò Ethan.

    «Se serve.» Mi fermai con una mano sulla maniglia della porta dell’ufficio del capo. Non potevo entrare nell’ufficio del mio supervisore, reduce da due mesi di congedo – per motivi psichiatrici – e farmi beccare a parlare a un fantasma. O a me stesso. Quello mi rendeva un disperato. E la gente disperata compiva azioni disperate. E se questo significava minacciare un fantasma che poteva essere o meno un prodotto della mia immaginazione, allora era quello che avrei fatto.

    Mi guardai attorno per accertarmi che nessuno mi stesse osservando. Via libera. Mi chinai e finsi di togliermi qualcosa dalla scarpa. «Se vuoi mantenere la minima speranza che ti aiuti a consegnare un messaggio, e intendo proprio minima, allora ti consiglio di stare zitto,» mormorai, muovendo le labbra di un infinitesimo di millimetro.

    «Non voglio metterti nei guai,» reagì Ethan, visibilmente offeso.

    «Allora chiudi quella bocca da spettro,» replicai.

    Spalancai la porta e mi infilai nell’ufficio. La chiusi in faccia a Ethan, come se quello potesse proteggermi.

    «Ci vediamo in giro,» gridò Ethan sbucando dal vetro temperato. Non era una promessa dal tono amichevole.

    «Se non vieni investito da un autobus fantasma,» mimai con le labbra. A giudicare dalla sua espressione, aveva sentito benissimo.

    2

    Non saprei indicare con precisione il periodo in cui avevo cominciato a vedere i fantasmi, ma ne avevo incontrati parecchi. In genere ero bravo a ignorarli, ma se avessi dovuto valutarli secondo una scala di fastidiosità, quello nell’ufficio di Graycie era un inaspettato contendente per il primo posto.

    Stava fermo a fissare fuori dalla finestra. I suoi abiti sembravano datati, forse un po’ fuori moda, con bretelle che sostenevano un paio di pantaloni blu scuro. Aveva gli occhiali sollevati sulla fronte, il che mi sembrava coerente. Chi saltava nel vuoto non voleva vedere quello che c’era alla fine. Sembrava triste. Pentito. Mi pentirei anch’io di essermi tuffato da una finestra del quinto piano.

    Non sembrava un buon momento per dire a Graycie che c’era un fantasma nel suo ufficio. Invece, osservai il capo che girava una pagina del giornale con una mano e mescolava sbadatamente il latte nel caffè con l’altra. Come responsabile dell’unità BAU-3 era bravo a mettere a disagio la gente.

    A un osservatore casuale sarebbe sembrato rilassato, senza nessuna preoccupazione al mondo. Io lo conoscevo un po’ meglio. Graycie era incavolato. Faceva fatica a sopportare le cazzate e io, al momento, ero in testa di diverse lunghezze nel campionato delle mega-cazzate.

    «Grazie per aver accettato di incontrarmi questa mattina.» Graycie girò un’altra pagina. «Tagliamo la testa al toro.»

    Bene, allora. I tori hanno le corna, sono bestie pericolosissime. «Signore?»

    «Ho parlato con i Paul. Avevano un bel po’ di cose da dire su di te.»

    «Tutte positive, spero.» Probabilmente non era una buona idea fare lo spiritoso. Però sono quasi sicuro di essere fatto per il settanta per cento di farina e acqua, perché il sarcasmo è il mio pane.

    Graycie si tolse gli occhiali, li appoggiò sulla scrivania e si strofinò le tempie spruzzate di grigio. Non gli stavano male. Gli sarebbe bastato perdere dieci chili e trovare un buon barbiere per diventare un attraente uomo maturo alla Sean Connery. I suoi capelli sale e pepe erano ancora folti e le rughe attorno agli occhi aggiungevano carattere a un insieme di lineamenti già interessanti. In quel momento, tuttavia, erano rivolti verso il basso dopo un sospiro pesante.

    «Christiansen, sei un agente davvero bravo, ma quello che hai combinato mi sta creando diversi problemi. Sto ancora cercando di capire perché, che mi assista il Cielo, gli avresti riferito un messaggio dalla figlia morta.»

    Perché il suo fantasma non ne voleva sapere di lasciarmi in pace, ecco perché.

    «Non ho riferito un messaggio,» precisai. «Ho solo detto che era in pace. Stavo solo cercando di dar loro un modo di… trovare sollievo. Tutto qui.»

    A volte pensavo che Graycie avesse degli occhi davvero belli, ma quando decideva di trapassarmi con quello sguardo freddo, ero di tutt’altra opinione. Quelle sfere verde chiaro diventavano un po’ snervanti ed era come essere fissati da un paio di spietati e ostili acini d’uva senza semi.

    «L’indagine sul rapimento di Shawna Paul è ancora aperta. Non abbiamo rinvenuto il corpo.» Graycie sembrò scegliere con cura le parole e le pronunciò scandendole bene. «In realtà, non sappiamo se sia morta. Quindi, come fai a dire se è in pace o no?»

    «Senta, cosa vuole che le dica?» chiesi fiaccamente. «Mi faceva star male, va bene? È da sette anni che il signor Paul tiene accesa la luce del portico per consentire alla figlia di trovare la strada di casa al buio. Non vendono nemmeno la proprietà nell’eventualità che Shawna torni, in modo che sappia dove trovarli. Non riescono ad andare avanti.»

    «Quindi ti sei inventato una storia che la figlia era morta?»

    «Non mi sono…»

    Mi interruppi. Non c’era motivo di peggiorare la situazione. Non era il momento di ammettere che non solo avevo visto il suo spirito ma che Shawna era anche una gran chiacchierona. A quel punto mi conveniva di gran lunga passare da bugiardo piuttosto che da matto.

    Mi strofinai gli occhi. Sinceramente ero stanco di tutto quel casino. «Non avrei dovuto dire nulla.»

    «Ma davvero?» Graycie sembrava sul punto di tirarmi un pugno. «Se non fossi l’agente che sei, non avrei esitato a buttarti fuori a calci in culo. Lo sai, vero?»

    Sospirai. «Mi dispiace.»

    «Lo spero proprio,» sibilò. «Se sento che ti sei avvicinato a meno di venti metri dal beagle infestato di pulci dei Paul, ti farò diventare uno di quei fantasmi che ti piacciono tanto.»

    «Capito,» ribadii a denti stretti. «Posso andare?»

    «No, non ti ho convocato per questo.» Graycie sfilò uno spesso fascicolo dalla montagna di caos sulla sua scrivania. «Ho valutato il rapporto dello psichiatra del dipartimento.»

    «Ah sì?» Quelle parole così neutre non si avvicinavano nemmeno a descrivere come mi sentissi al riguardo. Imbarazzato dal mio congedo amministrativo di due mesi. Nervoso per ciò che Ryder, lo psichiatra diabolico, aveva concluso sul mio stato mentale. Per quanto ne sapevo, quell’uomo non rispondeva mai a una domanda se non con un’altra domanda. E questo come la fa sentire?

    Arrabbiato. Davvero tanto, tanto arrabbiato.

    «A grandi linee sembra a posto.»

    A grandi linee? Annuii interrogandomi circa l’unica emozione che mancava. Il sollievo. Non provavo sollievo. Mi sarei sentito allo stesso modo se mi avessero detto che non mi avrebbero autorizzato a tornare in servizio. Niente. Se mi avessero attaccato dei monitor avrebbero tutti mostrato una linea piatta. Ero perplesso per la mia reazione. Avevo lavorato sodo per arrivare dove ero. Non avrei rinunciato a tutto perché all’improvviso mi ritrovavo con il ventaglio di emozioni di un pomodoro.

    Mi schiarii la gola. «Sono pronto a tornare al lavoro.»

    «Dici?»

    «Ha il rapporto,» risposi sulla difensiva. «Dove sono i miei colleghi? Fox? Scout? Angela?»

    «Sto mandando il resto della BAU-3 in Texas. Devono occuparsi di una serie di rapimenti di bambini.»

    «Sarò pronto in un’ora.»

    «Sono partiti da due ore.»

    «Allora li incontrerò in Texas,» replicai trattenendo il fastidio. Il suo silenzio eloquente mi fece accigliare. «Lei non pensa che io sia pronto.»

    «No,» concordò, con una sincerità tale che le mie sopracciglia raggiunsero l’attaccatura dei capelli. Non provava nemmeno a raccontarmi fandonie? Doveva trattarsi di qualcosa di serio.

    «Diversi membri della squadra hanno espresso… preoccupazione. E sai quanto dobbiamo dipendere gli uni dagli altri sul campo.»

    Era vero. A volte passavamo più tempo con i colleghi che con la famiglia. Feste, compleanni. Diavolo, quando eravamo in missione, anche la colazione e la cena. Era un lavoro stressante che richiedeva che ti fidassi di ogni componente della squadra. Sembrava che non fosse più quello il caso. Mi sforzai di non sentirmi amareggiato, ma ero fatto così. Ce l’ho nel DNA, insieme alla puntualità e all’amore per il cioccolato.

    «Se aveva intenzione di licenziarmi, poteva farlo al telefono. Mi stavano facendo un buon prezzo sulle sanguinelle.»

    «Non sto licenziando nessuno,» disse Graycie, l’esasperazione chiara nel suo tono. «Ma ho in mente qualcosa di diverso per te.»

    «Sì? Non ho proprio voglia di andare a piegare magliette all’H&M.»

    Graycie ignorò con fatica la mia irriverenza, ma giuro che gli si contrasse l’angolo di un occhio. «Vorrei che lavorassi su uno di questi casi irrisolti. Abbiamo ricevuto richieste da tutti questi dipartimenti, alcune sono vecchie di anni, e non abbiamo ancora risposto. Sai che la nostra divisione è già oberata di lavoro, quindi questi casi a pista fredda non ricevono l’attenzione che meritano.»

    Afferrò un mucchietto di cartelline gialle e me le porse. Dopo un attimo di esitazione, le presi.

    «Cosa sono?»

    «Alternative. Ryan Markisson da Brighton, Michigan. È scomparso da un campo di basket. Tavis Ward, un bambino di sei anni di Charleston.» Mi passò un’altra cartellina gialla. «Trovato morto nei boschi dietro casa. Carly Woodward. Una sedicenne di Chicago. Hanno trovato la macchina nel parcheggio dietro la scuola. Dalla quantità di sangue nel bagagliaio, non promette bene.»

    Era in quelle occasioni che mi rendevo davvero conto della natura del mio lavoro. Ognuno di quei fascicoletti gialli – alcuni sottili, altri spessi – rappresentava la vita di qualcuno. Qualcuno che era scomparso, forse morto, probabilmente ucciso. Faceva riflettere. Magari non erano i rapimenti seriali da prima pagina su cui il resto del team stava lavorando in Texas, ma erano importanti. Presi una cartellina. Quelle persone erano importanti.

    «Mi piace il caso di Tavis Ward,» mi sussurrò Ethan all’orecchio. Riuscii a sopprimere un sussulto appena in tempo. Ero così concentrato sui fascicoli che non l’avevo nemmeno sentito entrare. «Non sono mai stato a Charleston, sai.»

    Dovresti andarci. Proprio adesso, direi. Cercai di proiettare il messaggio al fantasma impiccione con un’occhiataccia, ma Ethan si limitò a occupare la sedia accanto alla mia.

    «Mi serve un po’ di tempo per esaminare i fascicoli,» dissi.

    «Prenditi tutto il tempo che vuoi.» Il telefono di Graycie vibrò sul piano della scrivania e lui lo afferrò. Lo guardai smanettare impacciato sullo schermo con i pollici. Mentre cercava, con la fronte corrugata, la lettera successiva, sembrava un tableau vivant esposto in un museo: Uomo di Cro-Magnon alle prese con un Samsung Galaxy.

    Mi morsi il labbro. Era il mio segnale. Forse era meglio che mi alzassi e lasciassi il capo a rispondere a chissà quale messaggio gli era arrivato da chissà dove. Probabilmente da uno degli agenti non-combina-cazzate che gli diceva di aver contribuito a risolvere l’omicidio del secolo.

    Invece, sfogliai le cartelline e presi confidenza con i casi. Aprii quella di Tavis Ward e iniziai a leggere. Non passò molto prima che cominciassi a scrollare la testa. «1965? Quando si dice quarantotto di solito ci si riferisce alle prime quarantotto ore, non ai primi quarantotto anni.»

    «Di recente hanno trovato una testimone che si ricorda di averlo visto in una gelateria. Stava piangendo e facendo i capricci, ma lei pensava semplicemente che volesse far impazzire il padre.»

    «E perché si è fatta avanti adesso?»

    Lui si strinse nelle spalle. «E chi lo sa? Cosa li spinge a farsi avanti? A volte gli interessa solo quando diventa una questione personale. Forse ha sofferto un lutto recente in famiglia. Con questa nuova informazione, gireranno uno speciale per quella trasmissione sugli scomparsi. I dimenticati

    «Mai sentita.»

    «Non senti mai niente di quello che riguarda la televisione, Christiansen.»

    Mi strinsi nelle spalle. No, non ero un esperto di cultura popolare, ma avevo una TV. Il problema vero era che se ti capitava di essere sconfitto a uno di quei giochi di mimi a squadra te lo rinfacciavano a vita. «Abbiamo perso in modo onesto e leale, Grace.»

    «Avevamo quella partita in pugno.» Graycie sospirò e scosse la testa per la tristezza di quel ricordo. «Era Harry Potter, porca miseria. Come si fa a non capire una cosa del genere?»

    «Hai disegnato una zeta con sopra dei capelli, pensavo Zorro.»

    «Avrei disegnato una maschera. Era una saetta. Cosa avrei dovuto disegnare?» sbottò.

    «Magari un cappello da mago? E, non so, un libro?»

    Mi guardò male. «Il prossimo fascicolo riguarda una ragazza scomparsa a Brickell Bay. Amy Greene. Non sanno se se ne sia andata da sola o se qualcuno le abbia dato una mano.»

    Aprii la cartellina e fui accolto dalla sua foto sorridente. Aveva un viso a forma di cuore circondato da onde di capelli castano-rossicci che le arrivavano fino alle spalle magre. Sembrava esattamente quello che era: un’adolescente felice e in salute. A parte gli occhi. Quegli occhi castani sembravano… maturi, in un certo senso, strani rispetto a quel sorriso felice con l’apparecchio ai denti.

    Sospirai, chiusi il fascicolo e lo tamburellai contro la gamba. Graycie era già tornato al telefono, come se io non fossi lì. «E se non volessi scegliere uno di questi?»

    «Dove sta quel cacchio di cancelletto?» Non alzò lo sguardo.

    «Alford.»

    «Non sono sordo, Christiansen. Comunque vada, tu non puoi stare qui,» disse. «Almeno finché non ho sistemato il disastro con Shawna Paul. Dovresti ringraziarmi

    «Ringraziare? Ma è fu…»

    «Ti volevano licenziare.»

    Oh. Sì, c’era anche quello. Deglutii. «Grazie.»

    Mi lanciò uno sguardo eloquente. «Ehm, non lavorerai con la squadra finché non metterai la testa a posto. E prima che torni in servizio effettivo, devi andare dallo psichiatra del dipartimento e avere la sua autorizzazione.»

    «L’ho già fatto,» protestai. «Ha letto il rapporto.»

    «Già.» Finalmente Graycie sollevò gli occhi verde muschio dallo schermo. Erano seri e dolci, un’espressione così strana per lui. «L’ho letto.»

    Sbuffai. Ryder del cazzo! Probabilmente non avrei dovuto essere così onesto con lo strizzacervelli.

    Graycie tornò a concentrarsi sul telefono, qualsiasi sguardo gli avessi visto era sparito alla stessa velocità con cui era apparso. «Minestra-finestra, Christiansen. Vai a ficcare il naso in uno di questi casi a pista fredda, e intendo a pista fredda glaciale, cavolo. Vai là, indaghi, fai il bravo con il dipartimento di polizia del posto, profilo basso, rasoterra. Da’ l’idea di provarci. Se risolvi il caso? Ancora meglio.»

    Allora, se era così… Brickell Bay si trovava ai confini della mia città natale. Andare voleva anche dire rivedere mia sorella e cenare dai miei almeno una volta. Quello avrebbe dovuto garantirmi una bella indennità, no?

    Indicò il fascicolo che avevo ancora in mano. «È quello il tuo caso?»

    «Sì, Amy Greene.»

    Annuì, soddisfatto. «Ti mando via mail i dettagli che ti serviranno quando ti recherai al dipartimento di polizia di Brickell Bay. Avrai una scorta che ti verrà a prendere all’aeroporto.»

    «Una scorta?» Sentii le sopracciglia risalirmi la fronte. «Così non potrò scappare? Sto andando a Brickell Bay o ad Alcatraz?»

    «Normale cortesia.»

    Soppressi un gemito mentre mi alzavo e mi infilavo cappotto e guanti. Dovevo fare il bravo con un tirapiedi della squadra di archeologia criminale fino a Brickell Bay. Deciso! Avrei ufficialmente gonfiato i rimborsi spese.

    «Allora facciamolo,» sospirai. «Quando è il volo?»

    «Il notturno dall’aeroporto nazionale di Washington.»

    «Niente jet dell’agenzia,» commentai triste.

    «No, ma ti prenoterò due sedili in economy.» Graycie fece un sorrisetto. «Così avrai spazio per i gomiti.»

    «Che bastardo sfacciato. Ha mai sentito parlare della business class?» Mi avvolsi la sciarpa al collo, ma non mi preoccupai di fare un nodo. Sarei stato presto in macchina. Era per quello che Dio aveva creato i sedili riscaldati, dopotutto. Per quello, e per tenere in caldo il cibo da asporto quando si tornava a casa.

    «E… Christiansen?»

    Tornai a guardare Graycie che mi stava fissando. Severo. «Sì?»

    «Niente cazzate.»

    Le parole che non aveva detto – di nuovo – restarono sospese nell’aria. Strinsi le labbra prima di uscire.

    Grazie per la fiducia.

    3

    Mentre l’aeroplano atterrava a Brickell Bay, restai a fissare cupamente fuori dall’oblò. La pista del piccolo aeroporto sfavillava di luci e sembrava quasi natalizia nell’oscurità che scendeva. Le quattro ore che avevo trascorso ad ascoltare un fantasma raccontarmi con dovizia di particolari l’attacco di cuore che lo aveva stroncato in volo erano quattro ore di troppo. Purtroppo, avevo lasciato le mie pillole magiche nel bagaglio che era andato in stiva.

    In realtà, quella era una bugia. Non le avevo dimenticate là dentro. Le avevo impacchettate di proposito, determinato ad affrontare quel semplice volo di quattro ore senza assumere medicinali. Cosa avevo concluso dall’esperimento? Che mi sbagliavo, che ero un pazzoide conclamato e che avevo bisogno delle medicine. Afferrai entrambi i braccioli mentre il velivolo toccava terra con uno scossone e il fantasma dell’aeroplano triplicava il volume della voce.

    «Se quella hostess idiota non ci avesse messo così tanto a chiamare aiuto, forse sarei ancora vivo,» si lamentò accigliato mentre l’aeroplano rollava lentamente sulla pista. Innalzai una preghiera silenziosa di ringraziamento quando avvistai il nostro gate.

    «Ted,» cominciai.

    «Tom.» Spostò il cipiglio su di me. «Ma mi ascoltavi almeno?»

    «Certo. Volevo solo chiederti… sei bloccato su questo aereo?»

    Strinse gli occhi.

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