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This Much is True: Edizione italiana
This Much is True: Edizione italiana
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E-book336 pagine4 ore

This Much is True: Edizione italiana

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Info su questo ebook

Hope
È colpa dell’alcol.
Ho perso il mio locale, sono stata costretta a vendere l’adorata Chevy Impala del 1967 di mio padre e ho anche bevuto troppo.
Ora mi sono svegliata accanto all’uomo più sexy e arrabbiato che abbia mai visto, che sfreccia sull’autostrada come un pipistrello in fuga dall’inferno.
Due occhi azzurri si piantano nei miei con una forza tale da contrarmi lo stomaco…
Accosta, pronto a buttarmi fuori.
Inutile a dirsi, la nostra storia non è cominciata con dolcezza.

J.R.
Due anni fa ho abbracciato il mio figlioletto e gli ho promesso che sarei tornato presto.
Dopodiché, l’unica cosa che ho capito è che mi hanno arrestato per un crimine che non ho commesso.
Fino a che non hanno anticipato la scarcerazione…
Ora sto tornando a casa per affrontare l’uomo che mi ha fatto tutto questo.
Una bugia mi ha mandato dietro le sbarre e ora voglio sapere la verità.
Non ho tempo per una biondina sexy dagli occhi azzurri buttata sul sedile posteriore della macchina che ho appena comprato.
La mia missione è riprendermi mio figlio e ripulire la mia reputazione.
L’amore non è in agenda.
Ma si dice sempre così, vero?
LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2022
ISBN9791220702829
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    Anteprima del libro

    This Much is True - Tia Louise

    1

    HOPE

    2

    Non avrei dovuto bere l’intera bottiglia di vino.

    La brezza marina mi soffia via i capelli biondi dal viso e mi attorciglia la gonna tra le gambe. Mi stringo addosso il soffice cappotto beige e quando mi inumidisco le labbra, sento il sale sulla lingua.

    È una serata gelida in cui il vento infuria e gonfia le onde, ma ben si adatta al mio umore. Ho le viscere contorte e in tempesta, tutto mi si schianta intorno…

    La passeggiata lungo la baia di San Francisco è deserta, come tutto in questi giorni, così avanzo traballante nel mio tragitto verso il ponte.

    Sullo sfondo si ergono le due famose torri vermiglie, disegnate da un filo di luci che mi fanno pensare a una nave di passaggio nella notte.

    Con la vista annebbiata, immagino di essere in un film di Alfred Hitchcock… o Mike Myers… E così ho sposato un assassino con l’ascia…

    Inciampo in un avvallamento nella sabbia morbida e la bottiglia vuota mi scivola tra le dita. Colpisce il suolo con un tonfo sordo, ma continuo a camminare. Dovrei ascoltare il mio senso civico, tornare a prenderla per gettarla nell’apposito cassonetto, invece la lascio lì.

    Vado avanti.

    Grandi massi mi separano dal ponte. Metaforici, quasi. Guardo la rete di ferro e cavi e cerco di cantare la mia canzone preferita degli ABBA. «I have a dream…»

    La mia voce vacilla, mozzata da un respiro, ma reagisco. Raddrizzo le spalle e faccio appello alle mie affermazioni quotidiane…

    Sto riuscendo meglio di quanto penso.

    Ho davanti un futuro luminoso e i miei giorni migliori devono ancora arrivare.

    Sono abbastanza forte per affrontare ciò che mi aspetta.

    La mia vita non è finita e non mi arrendo mai senza combattere…

    Ma sono così stanca. Non sono più sicura di crederci davvero.

    Tiro fuori il telefono e mando un messaggio alla mia migliore amica Yarnell.

    Quanto tempo mi ci vorrebbe per raggiungere a piedi Half Moon Bay?

    A questo punto, penso che potrei camminare per tutta la notte. La sua risposta fa ronzare il telefono che tengo mollemente in mano.

    Perché dovresti arrivare a casa mia a piedi?

    Fisso le parole, barcollando appena mentre tocco l’icona di chiamata. Ho bisogno di una voce amica.

    «Se sei fuori dalla porta, sappi che non ti faccio entrare senza aver controllato la temperatura.» La mia migliore amica è l’incarnazione della tragedia.

    «Sono in piena crisi esistenziale.»

    «Sei la solita tragica.»

    Resto a bocca aperta. «Io? Tu, semmai!»

    «Perché minacci di venire a piedi fino a casa mia? Prendi la macchina!»

    Inspiro lentamente, mi schiarisco la voce e, per non piangere, alzo lo sguardo verso il crepuscolo che si sta dissolvendo. «Ho venduto Metallicar.»

    «Cosa?» Un sussulto, subito seguito da un: «Nooo…»

    «Sì. Passano a ritirarla domani. Sono ufficialmente indigente.»

    E infelice.

    Anni fa, abbiamo soprannominato Metallicar, la cara Chevrolet Impala nera del 1967 di mio padre, ispirandoci a Supernatural, il nostro programma televisivo preferito.

    Mio padre me l’ha lasciata prima di entrare in una casa di cura, dopo l’impianto di protesi bilaterale del ginocchio. Doveva essere una riabilitazione a breve termine… Nessuno si aspettava che sarebbe diventata una lunga degenza e non posso nemmeno andare a trovarlo. È sempre bloccato lì e io sono al verde.

    «Mi dispiace tanto, Hope.» Almeno il sarcasmo è sparito dal suo tono. «Dove sei?»

    «Sono sul ponte.»

    «Hope Eternal Hill! A che cosa stai pensando?»

    Mi massaggio la fronte con le dita, per calmare il tumulto che mi sta montando nel cervello. «Sto pensando al mio nome. È Speranza Eterna? O è Eterna Collina? Perché questa collina mi sembra sempre più alta…»

    «Cosa posso fare? Di cosa hai bisogno?»

    «Ho bisogno di un lavoro, accidenti! Ho fatto del mio meglio per aspettare che la situazione tornasse alla normalità, ma non credo di poter più aspettare.»

    Da quando il lockdown ha ucciso Pancake Paradise, il locale dei miei sogni in cui avevo investito fino all’ultimo centesimo, è stato sempre più difficile sbarcare il lunario.

    «Vai in uno di quei centri di distribuzione di Amazon. Ora lo fanno tutti.»

    «E infatti non assumono più.»

    «È impossibile! Stanno mandando la gente nello spazio per avere centri di distribuzione Amazon sulla luna.»

    «Beh, quelli sulla terra non hanno bisogno di me.»

    Guardo di nuovo il gigantesco ponte di metallo e mi chiedo se… C’è un segnale là sopra, lo vedo nella mia mente.

    Quando ero piccola, mio padre mi portava sempre a passeggiare sul ponte. Se ne avevamo le energie, cercavamo di percorrerlo tutto di corsa, oppure ci fermavamo a guardare l’Oceano Pacifico e io tendevo le orecchie per sentire il canto degli angeli.

    Socchiudo gli occhi e cerco di sentirlo anche ora, ma è tutto silenzio. Il silenzio del vento senza sosta e del gemito delle chiatte.

    Una volta sentivo gli angeli…

    Lungo il bordo qualcosa si muove; mi sembra di vedere una figura in piedi, in lontananza. La sagoma di un uomo.

    «Mi stai ascoltando?» La voce della mia migliore amica irrompe nei miei pensieri.

    «Scusa, cosa?» Ho la testa nel pallone, non sono lucida. Troppo vino.

    «Da piccole, chi è che disse che potevamo salvare il nostro chiosco di limonate dopo che la signora Blackburn aveva investito tutti i nostri limoni con la macchina?»

    Aggrotto la fronte e scuoto la testa. «La signora Blackburn era un disastro alla guida. Ha quasi investito anche me mentre ero in bicicletta nel quartiere. Due volte!»

    «Hai detto che potevamo salvarlo!» Insiste. «Non hai permesso che rinunciassimo!»

    «I limoni andavano comunque spremuti…»

    «Alle medie, chi è che disse: La mascotte della nostra squadra di calcio sarà pure una colomba, ma possiamo sempre avere un inno di lotta coi contro-coglioni!»

    «Avevamo dodici anni, Yars. Non credo di aver detto contro-coglioni

    I nostri genitori erano dei super-hippy pacifisti, ma non ci permettevano comunque di dire parolacce.

    «Beccate di brutto, Colombe è rimasta una canzone di lotta per secoli!» Alza il tono di voce come se fosse nel bel mezzo di un discorso di incoraggiamento in uno di quegli episodi di Friday Night Lights.

    «Più che altro una canzone di lotta per sfigati.»

    Mi sembra ancora di vedere la grande colomba bianca applicata sul davanti delle nostre maglie da cheerleader blu lunghe fino al ginocchio. Brividi.

    Il nostro gruppo di studio domiciliare giocava a flag football perché i nostri genitori sostenevano che il tackle football causasse carenze cognitive e disturbi dell’umore e del comportamento.

    Cercavano di farci sentire come tutti gli altri bambini, ma noi sapevamo di essere strani.

    «Forse sono sempre stata una perdente e non lo sapevo.»

    «Tu non sei una perdente! Sei la persona più forte che conosco. Hai sempre trovato un modo per superare le situazioni difficili. E ci riesci sempre!» Immagino la musica che aumenta in sottofondo, le luci che si accendono dietro la mia migliore amica e il boato della folla che irrompe dagli spalti. «Adesso dillo! Io non mi butto giù dal ponte!»

    Interdetta, scatto con la testa all’indietro, come un disco che si incanta. «Non mi butto giù dal ponte, Yars.»

    «Questo è lo spirito giusto!»

    «No, davvero, non stavo…»

    «Supererai questo momento difficile. Lo faremo tutti, e torneremo più forti di prima.»

    «No, sul serio. Stavo solo ascoltando le voci.»

    Silenzio.

    Linea muta.

    Guardo il telefono per un attimo e lo riporto all’orecchio. «Ti ho perso?»

    «Le voci?» Usa un tono cauto.

    «Quando ero piccola e venivamo a guardare il ponte sull’oceano, credevo di sentire il canto degli angeli sull’acqua.»

    «E hai davvero sentito cantare gli angeli?»

    «Nella mia immaginazione sì.»

    «Fiuu!» Sospira di sollievo. «Per un attimo ho temuto che avessimo un problema più grande.»

    «Più grande di me che mi butto dal ponte?» Sto scherzando, ovviamente, ma la tristezza rimane. «Non li sento più, Yars. Hanno smesso di cantare. Significherà qualcosa.»

    «Significa che ora sei una donna adulta che vive nel mondo reale.»

    A testa bassa, torno indietro da dove sono venuta. Il vento mi scompiglia i capelli e sento una lacrima sulla guancia. «Se solo potessi parlare con papà. Ho bisogno di un abbraccio.»

    Mio padre è sempre riuscito a riportarmi in prospettiva. Mi cinge con un braccio e mi racconta una storia, un aneddoto di gioventù o come aveva risolto un problema.

    «So che sei preoccupata per lui.» La voce della mia amica ora è più morbida. «Ma allo Shady Rest si stanno prendendo molta cura di quei ragazzi. Diamine, sono sicura che, giovane e atletico com’è, tuo padre se la stia godendo.»

    Stringo gli occhi a fessura. «È bloccato in una casa di cura, Yars.»

    «Tuo padre ha sempre tratto il meglio da una brutta situazione. È da lì che hai preso.»

    Sono ormai arrivata alla vecchia casa di famiglia sulla spiaggia, con le assi ingrigite e la vernice scheggiata. «Probabilmente mi direbbe di passare una mano di vernice.»

    «Sai…» Il tono si fa più calmo. «Quella vecchia casa varrà almeno un milione.»

    «Non posso vendere la casa. Appartiene alla nostra famiglia da sempre.» Non specifico che non è intestata a me. Equivarrebbe ad ammettere che l’ho preso in considerazione.

    «Allora? Vuoi venire qui? Puoi dormire sul divano.»

    «Forse.» Il cancello è chiuso, quindi faccio il giro fino al vialetto. Quando vedo la lucida Impala nera parcheggiata davanti, un macigno mi cala sul petto. Non riesco a immaginare di non averla più. «Troverò una soluzione. Ci vediamo tra qualche giorno.»

    «Tieni duro, amica mia.»

    Chiudo la chiamata e mi avvicino all’automobile che racchiude così tanti ricordi. L’accarezzo con le dita dal parafango alla portiera. Papà ha sempre adorato questa macchina. Ce l’ha fin dall’adolescenza, si occupa della sua manutenzione e della messa a punto ogni volta che serve. Era il suo passatempo preferito e se ne è preso cura affinché funzionasse sempre alla perfezione. Tutte le cinghie sono lubrificate, tutti i dadi e i bulloni sostituiti. Come si può amarla tanto quanto lui?

    Ho il cuore a pezzi. Mi sembra di vendere un amato animale domestico.

    «Oh, papà.» Apro lo sportello di guida e salgo dietro, adagiandomi sul sedile posteriore di pelle con le ginocchia tirate al petto sotto il cappotto di peluche. «Quanto vorrei trovare un modo per non doverla vendere…»

    Con gli occhi chiusi, scivolo di fianco travolta dai ricordi. Mi rivedo bambina, con la cintura di sicurezza e il finestrino aperto mentre la portavamo a fare un giro.

    Papà metteva la sua stazione preferita, Sirius XM’s 60s sul canale 6, a tutto volume.

    Era nato negli anni Sessanta e adorava quella stupida, vecchia musica da spiaggia. Dawn di Frankie Valli and the Four Seasons era la sua preferita.

    Muovo le labbra e pronuncio le parole in un sussurro strozzato. Go away, I’m not good for you…

    Mi rivedo con gli occhi scintillanti e i codini. Ricordo che sorridevo così tanto che mi facevano male le guance. Il sole splendeva mentre guidavamo lungo l’autostrada costiera cantando insieme alle melodie eternamente allegre dei surfisti.

    Hope Eternal… Speranza Eterna…

    Come la scintilla di un fiammifero, un minuscolo guizzo di luce mi si accende nel petto. Un minimo accenno di fede che resiste alle nebbie della disperazione, che cerca di avvolgermi nella sua soffocante oscurità.

    La nostra storia non finisce qui. Non affonderò senza combattere. Ribalterò questa nave che affonda. Recupererò ciò che abbiamo perso.

    Ho solo bisogno di dormire un po’ per schiarirmi le idee. Troverò una soluzione…

    3

    JR

    4

    Il sole ha appena cominciato a scaldare la linea dell’orizzonte quando raggiungo la vecchia casa sulla spiaggia in un tratto fuori moda della strada costiera.

    Il vialetto si vede a malapena e ricontrollo l’indirizzo. In realtà non ne ho bisogno: l’auto che ho comprato mi sta aspettando, inconfondibile. Grazie alla consegna contactless, le chiavi dovrebbero essere in una cassetta a combinazione sotto il parafango. Dovrei essere in grado di entrare e partire subito.

    Arrivare fin qui a piedi è stata un’esperienza strana. Ho incontrato solo una persona che faceva l’autostop e quasi nessuna macchina sull’autostrada. Ma non ho tempo di rifletterci. Ho molto da fare e troppo poco tempo a disposizione.

    Cerco in giro e trovo le chiavi. Non mi fa piacere che lo sportello di guida sia aperto, ma nel momento in cui l’avvio, il motore ruggisce mentre prende vita, perfetto come promesso da Car Heaven.

    Mi stupisce quasi l’affidabilità di queste vendite auto online. Non ho nemmeno dovuto lasciare un acconto. Suppongo che possano rintracciarmi e reclamare se non lo faccio… e rispedirmi in galera. Nel borsone ci sono i pochi effetti personali che avevo con me all’ingresso a San Quintino: un vecchio iPhone, il portafoglio con alcune carte di credito e la patente.

    L’unica novità è la semplice busta bianca con duecento dollari in contanti. A quanto pare, è la somma che ti danno quando vieni rilasciato dal carcere, come se fosse un cazzo di Monopoli o qualcosa del genere.

    Stringo i denti, per un attimo di nuovo preda della rabbia ardente per tutto ciò che ho perso e per dove mi ritrovo ora. Una volta avevo tutto.

    Ero conosciuto in città, l’idolo della porta accanto. Mi brucia ancora e questo rafforza il mio intento. Ho sette giorni per portarlo a termine.

    Tre ore dopo, il telefono è abbastanza carico per fare una chiamata. Che funzioni ancora mi sorprende solo un po’: ho continuato a pagare le bollette e avevamo un piano famiglia. Sono sicuro che non hanno nemmeno pensato di togliermelo.

    Famiglia, rido amaramente. Ho imparato molto sulla famiglia durante questa esperienza, in particolare di chi mi posso fidare.

    «Qui Scout.» Mio fratello minore ha la voce impastata, come se si fosse appena svegliato.

    Mi pare quasi di sentirlo che russa come un trattore e la mia tensione si allenta di una tacca. «Dormivi?»

    Si schiarisce la voce e sento un fruscio in sottofondo. «JR? Sei tu? Che diavolo!»

    «Sono le otto del mattino. Non lavori più?»

    «No!» Lo dice come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Sto anche per perdere l’appartamento. Che novità hai?»

    «Mi hanno fatto uscire prima.»

    «Non mi dire!»

    «Già. Uno dei detenuti aveva un buon avvocato, ha detto che era una questione di diritti civili.»

    «Mi prendi per il culo.»

    «No. Sono fuori.»

    «Non so cosa provare in proposito.» Ride e sembra che stia camminando. «Chi altri se ne va in giro a piede libero?»

    «Non mi beccherai a sparare giudizi.» Basti sapere che ho una prospettiva del tutto nuova sul sistema penale.

    Stringo il volante e socchiudo gli occhi al sole che sorge.

    «Allora… stai bene?» Esita. Sono sicuro che stia pensando a tutte le stronzate esagerate che ha visto nei film.

    «Sto bene. Ma ho bisogno del tuo aiuto.»

    «Oh, certo. Ti serve un posto dove dormire? È tutto chiuso, quindi trovare lavoro è difficile, ma posso vedere di…»

    «Puoi assentarti per una settimana? Sto facendo un viaggio in macchina e mi serve un cambio alla guida.»

    «Una settimana?» A quanto pare si sta stropicciando il viso. «Non lo so. Voglio dire, gli studi sono chiusi, ma potrebbero riaprire in qualsiasi momento.»

    «Sono a un’ora dalla città. Mandami un messaggio con il tuo indirizzo e ti vengo a prendere. Ti riporto a casa tra sette giorni.»

    «Sembri terribilmente sicuro.»

    «Lo sono infatti.» Digrigno i denti.

    Non sono del tutto libero, il che non fa che alimentare la mia rabbia. Mi fa infuriare l’idea di avere la fedina penale sporca. In caso contrario, avrei potuto farlo da solo, invece di trascinarci lui.

    Comunque, Scout starà bene. Se qualcosa va storto, sarà colpa mia.

    «Ti dispiace dirmi perché?»

    «Te lo dico strada facendo. Ci stai?»

    Esita, ma colgo un sorriso nella sua voce. «I fratelli Dunne si danno di nuovo da fare, eh?»

    «Qualcosa del genere.»

    Si riferisce a un periodo della mia vita che ora riconosco a malapena, un periodo in cui io e lui eravamo i ragazzi d’oro, star del football, quando ci stendevano il tappeto rosso.

    Un periodo in cui pensavo che la mia vita sarebbe stata molto diversa.

    «Puoi almeno dirmi dove siamo diretti?»

    «A casa.» La linea cade nel silenzio, ma non aspetto una risposta. «Ci vediamo tra un’ora.»

    Riaggancio, lancio il telefono sul sedile del passeggero e premo il pedale quasi a tavoletta.

    Questa macchina è una bomba. Sono andato a centocinquanta per quasi tutta la strada con un occhio ai poliziotti, ma le interstatali sono deserte.

    È strano, sembra un’Apocalisse o qualcosa del genere. È perfetto per quello che mi serve.

    Allungo la mano e accendo la radio. Ha il servizio satellitare e qualcuno l’ha lasciata su una stazione degli anni Sessanta. Non sono esigente, quindi lascio perdere. La mia mente è lontana un milione di miglia, anzi duemilaseicento chilometri, per la precisione.

    Ieri sera ho tracciato il nostro percorso da Los Angeles a Charleston. È una linea retta che attraversa sette stati, dalla costa orientale a quella occidentale.

    In condizioni normali sarebbe un viaggio di trentasei ore. Certo, dovremo fare delle soste, ma senza traffico, senza costruzioni, senza polizia il tempo dovrebbe essere quello.

    Guardo l’alba che tinge d’oro il paesaggio desertico. I finestrini sono abbassati e l’aria calda e secca mi avvolge. Cazzo, quanto sono contento di essere fuori da San Francisco e dalla sua nebbia fredda e umida.

    Mentre mi accarezzo la barba sulle guance, penso all’altra motivazione che mi spinge ad attraversare il continente. Il mio piccolo Jesse aveva da poco compiuto tre anni quando sono partito quella mattina. Era sulle mie spalle con un pallone da football in mano, e ridevamo, fingendo che avesse appena segnato il touchdown vincente.

    Vedo ancora la sua magliettina di cotone, gli occhi azzurri e il pigiamino di Iron Man. Era abbastanza grande da capire il concetto di torno presto.

    Solo che non sono tornato presto.

    Avrei voluto vederlo, ma il procuratore mi ha definito a rischio di fuga. Hanno fissato una cauzione così alta che non potevo andare da nessuna parte. Non ho idea di come la mia ex moglie Becky gli abbia spiegato la mia assenza. Non mi ha mai nemmeno mandato delle foto. Ora avrà cinque anni, sta per cominciare l’asilo.

    Mi fa male la gola e mi schiarisco le idee.

    Tutto ciò che mi ha mandato Becky è stata una cazzo di lettera d’addio, tre mesi dopo la mia condanna. Mi ha scritto che le era cambiato il mondo, che lei non aveva firmato per essere la moglie di un criminale.

    Non ha nemmeno messo in dubbio la decisione del giudice.

    I documenti per il divorzio erano belli e pronti nella mia cella con tutte le nostre cose minuziosamente divise, come se avesse iniziato la spartizione nel momento in cui il giudice aveva battuto il martelletto.

    Stringo i pugni con lo stomaco contratto da quel senso di tradimento. Spingo più forte sull’acceleratore, quando una vocina dietro la spalla mi fa trasalire.

    «Dove sono?» Una biondina con i capelli arruffati, pallida come un fantasma, si alza dal sedile posteriore. Do un tale strattone al volante che l’auto sbanda, quasi rischio di ribaltarci.

    Raddrizzo il volante per tornare sulla corsia di destra e la ragazza viene sbatacchiata sul sedile posteriore.

    «Ma che cazzo?» impreco, ma lei si tuffa verso il finestrino aperto e si sporge all’esterno.

    A giudicare dai sussulti sono quasi certo che stia vomitando.

    Questo è quanto. Schiaccio il freno e accosto. Qualunque cosa stia succedendo, finirà in fretta.

    Ho avuto abbastanza casini che mi bastano per una vita.

    5

    HOPE

    6

    C’è un’aria diversa.

    Sferza tutta la macchina, calda e pungente, e io sono sdraiata sul sedile posteriore, dondolando da una parte all’altra come se fossi su un motoscafo in mare aperto. Sbatto le palpebre alla luce del sole, cerco di orientarmi, ma è come essere immersi nella nebbia.

    Una cosa è certa: non sono a San Francisco.

    E sto male.

    Mi pulsa la testa e indosso ancora il mio prendisole a fiori di ieri sotto il cappotto beige di peluche. Sono scalza. Ho la sabbia tra le dita dei piedi e la bocca asciutta…

    Devo essermi addormentata dentro Metallicar e ora mi ritrovo a sfrecciare in autostrada con gli Eagles in sottofondo, Doolin Dalton, e un tipo strano alla guida.

    Sbatto forte le palpebre e cerco di concentrarmi su di lui. Chi è questo tizio?

    Ha un profilo cesellato. Un naso dritto e perfetto e una mascella squadrata coperta da una corta barba scura. Anche i capelli sono scuri, ma lucidi con riflessi caramello. Trascurati, come se non li tagliasse da un po’, ma chi lo fa di questi tempi?

    Sembra arrabbiato. Ha le sopracciglia abbassate e il muscolo al lato della mascella si muove avanti e indietro come se fosse immerso nei suoi pensieri. La sua pesante camicia azzurra mi ricorda una divisa, con le maniche lunghe arrotolate fino ai gomiti. Afferra la parte superiore del volante con una mano, flettendo un avambraccio potente. Dell’inchiostro scuro disegna dei tratti sulla sua pelle, ma non riesco a distinguere il tatuaggio.

    È concentratissimo e sexy in modo assurdo. Anche nel mio stato post-sbronza, mentre lo guardo sento un formicolio nel basso ventre. È

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