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La nostalgia delle cose mai amate
La nostalgia delle cose mai amate
La nostalgia delle cose mai amate
E-book266 pagine3 ore

La nostalgia delle cose mai amate

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Info su questo ebook

Da quanto tempo è necessario conoscere una persona perché essa diventi parte irrinunciabile della propria vita? Tra Lea e Ludo non esistono silenzi, non ci sono cose non dette. È un'amicizia esplosa di botto attraverso i testi delle canzoni, completamente sincera, del tutto incondizionata.Lei è incinta, ma non di lui, nel disperato tentativo di provare emozioni che la società vorrebbe imporle ma che a lei sono estranee. Lui ha mollato la sua vita comoda a Roma, ma non per lei, nella speranza di ritrovare un se stesso che non è nemmeno sicuro di aver perso davvero. Insieme capiranno che non esistono una maniera giusta e una sbagliata di condurre la propria vita, fintanto che si rimane fedeli a se stessi.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2023
ISBN9791221401677
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    Anteprima del libro

    La nostalgia delle cose mai amate - Elsa Frigeni

    converse rosse

    Lea ruotava meccanicamente il cucchiaino nella tazza del caffè appoggiata sul davanzale, anche se non ci aveva messo dentro lo zucchero. Ultimamente lo prendeva amaro, da quando portava in grembo la creatura lo preferiva così, le alleviava le emicranie. Il suo corpo aveva però conservato la memoria di quel gesto automatico, quindi spesso si ritrovava col cucchiaino in mano senza rendersene conto. L’orologio segnava le sette e trenta e alla finestra opposta alla sua, dall’altro lato della strada, comparve Massi. Aveva in mano una tazza enorme dalla quale, anche se da quella distanza non si vedeva, Lea sapeva che stava penzolando il filo di una bustina di tè. Massi a colazione beveva solo e soltanto Yorkshire Tea, di cui faceva scorta semestrale ogni volta che gli capitava di andare in Inghilterra. Se non gli capitava, se lo faceva inviare dagli amici che si era fatto a Manchester. Era proprio lì che aveva preso questa abitudine, ed era sempre lì che i due si erano conosciuti. Adesso abitavano da tutt’altra parte, ai lati opposti della strada: lui con la sua ragazza e lei con il suo gatto e la creatura che aveva in grembo, e si davano il buongiorno ogni mattina dalla finestra.

    «Siete ancora amici?» sbuffò Alfredo avvicinandosi. Teneva in braccio Acciuga, un gatto completamente nero con due occhi giallo neon. Massi, dall’altro lato della strada, alzò la tazza a mo’ di saluto. Alfredo alzò il dito medio della mano sinistra e si appoggiò al davanzale di schiena, dandogli le spalle.

    «A che ora hai l’aereo?» gli chiese lei, evitando di commentare il siparietto a cui aveva appena assistito.

    «A mezzogiorno e venti. Mi saluta pure, razza di coglione.»

    «Sono abbastanza sicura che stesse dando il buongiorno ad Acciuga.»

    Massi era andato in Erasmus a Manchester il secondo semestre del secondo anno di università e si era trovato così bene che non era più voluto tornare a Roma, da cui veniva. Lea aveva diviso per un periodo l’appartamento con lui e altre persone, poi era tornata a Bergamo. Massi era rimasto in Inghilterra fino a dieci mesi prima, quando Lea era andata a trovarlo insieme a Martina, la ragazza di suo fratello, Alfredo.

    La fidanzata, per essere più precisi.

    Due settimane dopo Alfredo era single, senza più fidanzata e con un matrimonio intero da disdire.

    Meno di un mese dopo, Massi era tornato in Italia e si era insediato nell’appartamento dall’altra parte della strada insieme a Martina.

    L’ironia della sorte voleva che Alfredo dovesse il proprio nome a Colpa di Alfredo di Vasco Rossi, perché i loro genitori non avevano saputo inventarsi di meglio. Alla fine lui aveva mollato il lavoro e si era trasferito a Londra, quasi scambiandosi il posto con Massi e lasciando a lei l’ingrato compito di pensare al matrimonio annullato insieme a Martina.

    Lea finì il caffè e si allontanò dalla finestra, andando a riempire la ciotola di Acciuga che svicolò immediatamente dalle braccia di Alfredo per raggiungere il cibo.

    «Papà sperava che saresti rimasto più a lungo, viste le circostanze.»

    «Papà deve ringraziare che sono tornato almeno per il funerale, se tu non avessi insistito così tanto me ne sarei rimasto dov’ero. Sicuramente avrei risparmiato un bel po’ di soldi.»

    Il pomeriggio prima c’era stato il funerale della nonna. Era successo tutto all’improvviso, un giorno c’era e stava bene, il giorno dopo non c’era più. Lea comprendeva il punto di vista del fratello, perché a tutti gli effetti loro non potevano dire di aver mai avuto una nonna. La vedevano più o meno due volte l’anno, e poi c’era la telefonata di rito per i rispettivi compleanni. Era stata una figura completamente assente nelle loro vite, eppure quando era passata dallo stato di viva a quello di morta, Lea il vuoto l’aveva avvertito. Era stato come se qualcuno avesse schiacciato il pulsante che regola la gravità aumentandola esponenzialmente, perché lei all’improvviso si era sentita pesante e affannata. Solo mentre litigava al telefono con Alfredo cercando di convincerlo a tornare per papà, si era accorta che non stava avvertendo una perdita personale ma stava soffrendo per quella del padre. Fenomeno strano, le ramificazioni del dolore.

    «Papà era anche convinto che avresti alloggiato da loro.»

    «Solo mamma era convinta di una cosa del genere, lui fa solo da portavoce,» così dicendo si staccò a sua volta dal davanzale e andò alla macchinetta del caffè. «E comunque tu non dovresti stare sola, nel tuo stato,» aggiunse, inserendo la cialda e facendola partire.

    «Io sto benissimo.»

    «Magari dovresti trasferirti momentaneamente dai signori che ci hanno messo al mondo.»

    «Sei impazzito?»

    «Sarebbe divertente.»

    Divertentissimo, pensò Lea.

    I loro genitori avevano salutato la gravidanza con immensa gioia, prima di realizzare che Lea non aveva uno straccio di ragazzo. A dirla tutta, lei inizialmente aveva pensato di tenere segreta l’esistenza della creatura, ma Bergamo non era una città così grande da poter essere certi di riuscire a evitare qualcuno per nove mesi interi. Per giunta, la pancia aveva iniziato a lievitare fin da subito.

    Era incinta e non c’era un padre. O meglio, ovviamente un padre c’era anzi, ce n’erano addirittura due. Luca e Davide. Lea si era offerta di aiutarli a raggirare un sistema che impediva loro di coronare il sogno di essere genitori. Quindi, le cose da digerire erano state molteplici per i genitori: era una madre surrogata, avrebbe rinunciato a ogni diritto sulla creatura, non avrebbe fatto parte della sua vita, loro non stavano per diventare nonni, loro non avrebbero fatto parte della sua vita e non l’avrebbero vista crescere. In più avevano il veto di chiamare il feto in qualunque altro modo che non fosse la creatura. Quando aveva deciso di farlo, Lea sapeva che loro non avrebbero capito. Era stata anche la prima cosa che le aveva detto Alfredo quando gli aveva comunicato la decisione, non dirlo ai signori, nove mesi non ti basteranno per farglielo capire. Alla fine del quinto mese erano ancora convinti di essere in procinto di diventare nonni.

    «La mia offerta di venire a stare un po’ da me è sempre valida,» le disse Alfredo, mentre spalmava della Nutella su un biscotto e poi intingeva il tutto nel caffè. A Lea sarebbe piaciuto davvero tanto portare a termine la gravidanza a Londra, lontana da tutto lo stress che le persone che le stavano intorno le buttavano addosso quotidianamente. Avrebbe voluto poter dire che solo i genitori non avevano compreso quella gravidanza, ma la verità era che non faceva che ricevere giudizi da chiunque. Alfredo era l’unico che non si era permesso di dire una nulla. Il trasferimento era però infattibile, perché Davide e Luca giustamente volevano essere partecipi di quei nove mesi e lei non poteva certo privarli di quella gioia solo per non dover sentire i commenti della gente. Aveva però sperato che Alfredo si fermasse un po’ di più.

    La prima cosa che aveva colpito Lea quando aveva aperto la porta, era l’aria da scappato di casa che si portava addosso quello che evidentemente non era il ragazzo della pizza a domicilio, che aveva ordinato mentre rientrava dall’aeroporto dopo aver accompagnato Alfredo.

    La prima cosa che invece aveva colpito Ludo, era stato il pancione di Lea.

    Così erano rimasti lì, separati da quella sottile linea tra le piastrelle di casa e quelle del pianerottolo. Lei a piedi nudi in quello che era il dentro, lui con le Converse rosse ben piantate sullo zerbino fuori.

    «Non sei il pony pizza,» aveva detto lei, sporgendosi leggermente per controllare se lo scappato di casa magari avesse appoggiato il cartone contenente il suo pranzo sulle scale.

    «Sei incinta,» aveva replicato lui, con lo stesso sconvolgimento che potrebbe aver avuto un ex fidanzato nel constatare che lei era andata avanti con la sua vita a dispetto suo.

    «Quindi?»

    «Quindi cosa?»

    «Sono incinta, quindi?»

    «Quindi niente, era una constatazione. Ti manca tanto?»

    «Quattro mesi.»

    «Wow, e sei già così grossa?»

    «Prego?!»

    «No, cioè… volevo dire… ovvio che sei grossa. Hai un… insomma… quello in pancia.»

    «Descrizione molto accurata, sei uno scienziato? Un medico? Un ginecologo?»

    Lea non sapeva bene perché il suo braccio non si stesse muovendo per sbattere la porta in faccia allo sconosciuto, che per giunta le aveva detto che era così grossa.

    Ludo invece non capiva perché la condizione di Lea lo avesse preso così in contropiede.

    «No, faccio magie con i computer.»

    Okay, ora forse la situazione iniziava a diventare inquietante, più che stravagante.

    «Il mio computer è rotto.»

    «Lo so.»

    «Lo sai?»

    «Cioè, non sono uno stalker, se è questo che stai pensando! Però lo so.»

    «Lo sai?» Forse doveva realmente sbattergli la porta in faccia. E chiamare i carabinieri.

    «Lo so,» aveva ripetuto lui, rendendosi conto che probabilmente lei ora stava ponderando l’idea di sbattergli la porta in faccia e magari chiamare i carabinieri. Il pensiero l’aveva fatto ridere, lei aveva allungato il braccio verso la porta.

    «Aspetta, ho una cosa per te, non sono uno stalker, te lo giuro!» Così dicendo, Ludo si era sfilato lo zaino da una spalla, aveva armeggiato per un po’ con la cerniera e poi ne aveva tirato fuori un computer portatile, rivestito da una cover nera leggermente ammaccata su cui c’erano raffigurati Capitan American e Bucky Barnes nell’atto di sfidarsi a colpi di sguardi. Una scena tratta da Winter Soldier.

    Il braccio di Lea aveva mollato la porta, e i suoi piedi avevano varcato la linea di confine che c’era tra dentro e fuori andando a urtare le Converse rosse piantate sullo zerbino.

    «Quello è mio!»

    «Sì, te l’ho sistemato. Sono riuscito a salvarti tutti i dati prima di formattare, poi te li ho ricaricati.»

    «Grazie» gli aveva detto Lea, così sollevata dal sentire che i dati erano salvi da non chiedersi nemmeno perché lo scappato di casa avesse il suo computer. «C’è tutta la mia vita qua dentro.»

    Ludo le aveva dato il prezioso oggetto e in quel momento era arrivato anche il pony pizza.

    «Hai già pranzato? Ti va un trancio di pizza?» gli aveva chiesto Lea, improvvisamente ben disposta verso lo scappato di casa.

    «Non mi dispiacerebbe,» aveva risposto Ludo, e le sue Converse rosse avevano varcato la linea di confine entrando nel dentro. «Comunque io sono Ludovico. Ludo.»

    «Azalea. Lea.» aveva replicato lei chiudendosi la porta alle spalle.

    «Lo so.»

    lentiggini

    Quindi l’hai lasciato lì così? A credere che non ci sia un padre certo per la tua creatura?» Giulia non riusciva a smettere di ridere.

    «Credo che lui abbia capito che sono andata a letto con tutta una serie di persone in una specie di orgia, sì» spiegò Lea, cercando di trattenere uno sbadiglio. «Ma sono passati due giorni, sono sicura che ormai Massi gli abbia raccontato come sono andate davvero le cose.»

    «Conoscendo Massi, l’avrà lasciato lì esattamente come hai fatto tu, a credere che la paternità della creatura sia incerta e nebulosa.» Dal baby monitor posizionato sulla scrivania di fianco al divanetto sul quale erano sedute, giunse forte e chiaro il lamento di una bambina che si era appena svegliata agguerrita. «Torno subito,» sbuffò Giulia, che sperava che il sonno della figlia durasse un po’ di più.

    Lea si stiracchiò ripensando a Ludovico. Ludo. Quando il computer le si era spento di botto rifiutandosi poi di dare ulteriori cenni di vita, il suo primo istinto era stato di buttarsi dalla finestra per la disperazione. In quel disco rigido c’erano due articoli pronti che doveva consegnare e, ancora peggio, c’era il romanzo che aveva appena finito di scrivere e di cui nessuno aveva una copia. Nessuno, significava che non l’aveva salvato nemmeno su iCloud o su una qualche chiavetta e quindi se avesse perso quel file poteva salutare allegramente sette mesi di lavoro. Massi, dall’altra parte della strada, l’aveva vista con la testa appoggiata al vetro, che fissava le macchine che passavano di sotto chiedendosi se c’era la minima possibilità di sopravvivere al volo con lesioni di poco conto. Il suo agente non avrebbe potuto dirle assolutamente nulla se avesse consegnato in ritardo perché si era rotta un braccio o qualcosa del genere, ma avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco se avesse raccontato del file perduto perché si ostinava a non tenere mai un backup da qualche parte? L’amico le aveva sequestrato il computer dicendole che magari qualcuno sul lavoro poteva dargli un’occhiata, e qui era entrato in gioco Ludo a quanto pareva. Non era un collega, ma il suo più caro amico da ancora prima che andassero all’asilo, e il caso aveva voluto che si fosse presentato a casa di Massi proprio quella sera, senza alcun preavviso. A quanto pareva era una sorta di genio informatico.

    «Non gli ho nemmeno chiesto se gli dovevo qualcosa,» disse a Giulia, che era ricomparsa con la piccola Giada in braccio. «Oltre a pensare che sono una donnina di malaffare penserà anche che sono una cafona.»

    «Quello gliel’hai lasciato intendere tu,» le fece notare l’altra, ricominciando a ridere.

    Non era andata proprio così. Ludo, dopo essere andato in bagno e aver notato che nel piccolo appartamento non c’era traccia di presenza maschile, le aveva chiesto dove fosse il padre della creatura. Lei gli aveva risposto che non vivevano lì, plurale, ma passavano spesso a trovarla. Lui aveva replicato, ah, bene.

    «Tu faresti una domanda del genere a una persona che non conosci?»

    «Io no, tu hai fatto di peggio, quindi non dare del ficcanaso a quel poveretto.»

    «Io non sono ficcanaso, la mia è curiosità professionale.»

    A Lea capitava spesso di intromettersi nei discorsi degli sconosciuti. Al bar, al ristorante, sull’autobus. Per vivere scriveva storie e le storie non si scrivevano esattamente da sole, da qualche parte doveva pur raccogliere spunti.

    «E ora questo Ludo sta da Massi? Chissà cosa porta uno che vive a Roma a trasferirsi in un posto come Bergamo.»

    «Si sarà lasciato con la ragazza,» fece spallucce Lea.

    «Te l’ha raccontato lui?»

    «No, ma è un classico comportamento maschile, una storia finisce male e loro prendono un aereo e se ne vanno. Guarda Alfredo… Oppure ha conosciuto una ragazza, come Massi quando è venuto a vivere qui.»

    «Già, guarda Michele…» le fece eco Giulia, mettendole Giada in braccio. «Tienila un po’ tu, fai pratica.»

    «Torna a lavorare, va’,» la rimbeccò Lea, indicando la scrivania.

    «Hai visto su Facebook? Si è ufficialmente fidanzato. E sorride nelle foto. Sorride. Sorride.»

    Lea non avrebbe voluto vederlo, ma l’aveva visto. Michele era il suo ex storico, un caso umano quando forse anche lei lo era un bel po’, una storia fatta di disagi ma, nonostante questo, dell’incapacità di allontanarsi o di dimenticare. Era finita male una sera che avevano tirato le tre per le strade di Milano: lui e i suoi amici avevano bevuto così tanto ed erano talmente fatti da non capire nemmeno più di stare al mondo. Avevano mollato lei e Giulia ed erano andati chissà dove a proseguire la baldoria. Era stato Alfredo a raccattarle dal ciglio della strada all’alba delle quattro, dopo che l’avevano buttato giù dal letto non sapendo cos’altro fare. Dopo averle caricate in macchina si era messo a vagare per le strade deserte alla ricerca di Michele e soci, con il preciso intento di spaccar loro la faccia o di investirli ripetutamente. Non li avevano trovati, ma il pomeriggio seguente, quando Michele l’aveva chiamata chiedendole che cazzo di fine avesse fatto la notte prima, lei era scoppiata. Un mese dopo lui saliva su un aereo per la California, dopo essere stato estratto e aver vinto una Green Card. Ripensandoci ora, la Green Card doveva averla richiesta ben prima della loro rottura, quindi cosa pensava di fare se non fosse accaduto? Trascinarla con lui negli Stati Uniti e sposarla per legalizzare la sua permanenza su suolo americano? Mollarla con un sms inviato dall’aeroporto con sopra scritto, ciao, io parto?

    Erano passati cinque anni, nei quali Giulia aveva fatto a tempo a trovarsi un uomo, fidanzarsi, sposarsi, rimanere incinta, partorire. Nello stesso tempo Lea aveva rimuginato incessantemente su quello che avrebbero potuto essere lei e Michele se non fossero stati lei e Michele, ovvero un ragazzetto troppo preso da se stesso e troppo impegnato a tenere alta la bandiera del bello e dannato, e una ragazzetta troppo stupida e presumibilmente innamorata per staccarsene. Da lì in poi, aveva rifiutato di uscire in maniera seria con chiunque altro, rigettato l’idea dell’amore e sfornato romanzi in cui invece c’era sempre il lieto fine a riguardo. Alquanto ipocrita da parte sua, ne conveniva lei per prima.

    Giada si agitò tra le sue braccia e iniziò a piangere.

    «Vuole il biberon. Preparale il biberon,» le disse Giulia che si era già ributtata a capofitto nel lavoro.

    «E dove la metto mentre le preparo il biberon?»

    «La tieni in braccio. Fai pratica.»

    Perfino Giulia, la sua migliore amica dal quarto giorno del loro primo anno delle medie, faceva parte della categoria di persone che non aveva ben capito che lei non doveva fare per nulla pratica. La creatura sarebbe nata e sarebbe uscita dalla sua vita nello stesso istante. Un taglio al cordone ombelicale e via, avrebbe conosciuto quelli che sarebbero stati i suoi veri genitori, tanti saluti e pochi baci per quel che la riguardava.

    Si massaggiò distrattamente il pancione prima di alzarsi dal divano con Giada sempre in braccio, pensando che era rimasta incinta al secondo tentativo, ed era stato facilissimo. Giulia e suo marito avevano impiegato quasi un anno e mezzo prima di riuscire a concepire Giada, diciotto lunghissimi mesi fatti di test di gravidanza negativi, ciclo puntuale come un becchino a un funerale, lacrime, litigate, sesso fatto seguendo solo il calendario. Forse era per questo che Giulia si era presa così tanto a cuore la situazione della creatura, per questo che tentava a tutti i costi di darle un’identità agli occhi di Lea portandola a fare pratica. La difficoltà a rimanere incinta aveva minato una relazione che fino a quel momento era stata perfetta, e dopo esserci finalmente riusciti, avevano impiegato mesi a tornare a una parvenza di normalità. Avevano perfino fatto qualche seduta di coppia. Lei invece era rimasta incinta al secondo tentativo.

    Prima che potesse uscire dalla stanza che fungeva da studio a Giulia, le vibrò il telefono.

    «Mi dispiace, devi pensare tu al biberon. È arrivato Massi.»

    «Da quando Massi ti fa da autista?»

    «Da quando sono incinta di cinque mesi, siamo a fine agosto, ho la pressione ai minimi storici, e tu abiti dalla parte opposta della città. È stato carino a offrirsi.»

    Giulia si alzò di malavoglia e riprese possesso della bimba.

    Lea si infilò le scarpe, la salutò e scese in strada.

    Nella macchina di Massi però, al posto di Massi c’era Ludo, fermo sul ciglio della strada con il motore e le quattro frecce accesi.

    «Cosa ci

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