Io vagabondo
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Narrativa - racconto lungo (30 pagine) - Un racconto che omaggia la canzone "Io vagabondo (che non sono altro)" dei Nomadi.
Augusto, ingegnere disoccupato alla soglia dei cinquanta, non è affatto soddisfatto della piega che ha preso la sua vita. Matura l’idea che la colpa di un certo fallimento esistenziale sia da ascrivere alle idee e alle azioni dei suoi genitori, quand’erano dei giovani hippy giramondo. Si mette così in testa di costruire una macchina del tempo che lo riporti indietro, nel luogo e nel giorno esatti in cui si svolse l'edizione di "Un disco per l'estate" in cui i Nomadi cantarono Io Vagabondo. E, lì, poter incontrare i suoi genitori, per cambiare tutto. Ce la farà davvero o resterà solo la fantasia di una mente profondamente provata dalla frustrazione?
Napoletana, Lidia Del Gaudio è laureata in Lettere e filosofia e ha lavorato per molti anni nell’ambito della direzione risorse umane in una grande azienda di servizi prima di dedicarsi alla scrittura. Ama la musica e la letteratura, soprattutto il genere noir e il mistery/horror, ma la sua più grande passione è il cinema. Hitchcock il suo regista preferito. Nel 2015 ha vinto il Garfagnana in Giallo e nel 2017 il Gran Giallo di Cattolica. Ha pubblicato numerosi racconti e romanzi, fino all’esordio nella collana Nero Italiano di Fanucci, con Il delitto di via Crispi n. 21 (proposto al premio Strega 2020, vincitore del premio Garfagnana in Giallo/Barga Noir nel 2019 e del premio Letterario Toscana nel 2020) e con il seguito Il delitto di vico San Domenico Maggiore. Per Delos Digital è presente nell’antologia Dieci Piccole Indagini con il racconto Metropolitana.
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Anteprima del libro
Io vagabondo - Lidia Del Gaudio
A mio fratello Luca
I
(Tre mesi prima)
È ormai accertato che lo scorrere del tempo non è universale: varia per osservatori in differente stato di moto l’uno rispetto all’altro, come previsto dalla relatività ristretta…
Augusto pensava. Al volante dell’Opel Corsa grigio-metallizzato, colore che aveva sempre detestato considerandolo ordinario e triste, ma che aveva scelto in opposizione all’ipotesi del rosso corallo che attraeva sua moglie Marta, i pensieri parevano turbinargli nella testa senza soluzione di continuità. Tra questi, il desiderio di incontrare, per dirgliene quattro, tutti coloro che sostenevano la tesi secondo cui un ingegnere non sarebbe rimasto mai disoccupato.
In realtà, più che pensare, Augusto parlava da solo a voce alta, al riparo da orecchie indiscrete nell’abitacolo dell’autovettura, animando il dibattito tra sé e sé con tesi e antitesi, domande scomode alle quali dava risposte più o meno convincenti, obiezioni che richiedevano a loro volta nuove elaborazioni intellettuali.
Era dunque concentrato nella discussione e forse per questo non si accorse del semaforo che all’incrocio era diventato rosso e neppure del ragazzo in jeans e felpa grigia che, sceso dal marciapiede, aveva mosso già due passi sulle strisce pedonali.
Frenò appena in tempo per evitare di investirlo, ma il ragazzo preso alla sprovvista, perse comunque l’equilibrio: finì mezzo coricato sul cofano dell’auto, il pomodoro del trancio di pizza che stringeva tra le mani spiaccicato sul parabrezza.
Ad Augusto si fermò il fiato e, forse ancora soprappensiero, gli servì qualche secondo per capire che quello sul vetro non era sangue. Soprattutto lo rincuorò la vista del giovane all’apparenza sano e salvo che cercava di ricomporsi alla meglio, sul volto un’espressione incredula, il gesto rivolto al suo indirizzo che equivaleva a dire ma sei fuori? Non hai visto che c’era il verde per i pedoni?
Si decise così a calare il finestrino.
– Scusa tanto, poverino, devo essermi distratto. Ti sei fatto male? – chiese, pensando al contempo che quel ragazzo avrebbe potuto essere uno dei suoi figli, uno dei due adolescenti magri e brufolosi che aveva procreato e che forse allo stesso modo se ne andavano in giro mangiando tranci di pizza al pomodoro, mentre qualche astruso ingegnere sulla soglia dei cinquanta come lui, frustrato e distratto, per non dire fallito, rischiava di metterli sotto, perso nei suoi problemi esistenziali.
– E che ti devo dire? Ringrazio che sono ancora vivo – fece il ragazzo con l’aria rassegnata, mostrando il cartoccio unto e vuoto che gli era rimasto in mano.
Augusto ebbe un nuovo attimo di smarrimento, seguito dalla considerazione che un danno comunque c’era stato, aprì il portaoggetti sul cruscotto e racimolò tutte le monete che conservava lì per far fronte ai pagamenti in tangenziale.
Le contò, cinque euro, e gliele porse.
– Sono contento che stai bene e ti chiedo ancora scusa. Ho perso il lavoro, sai, ed è un periodo difficile. Posso almeno rimborsarti la colazione? – implorò, lo sguardo afflitto