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Umanità e natura tra dilemmi e speranze. Vivere in armonia con l'ecosistema
Umanità e natura tra dilemmi e speranze. Vivere in armonia con l'ecosistema
Umanità e natura tra dilemmi e speranze. Vivere in armonia con l'ecosistema
E-book263 pagine3 ore

Umanità e natura tra dilemmi e speranze. Vivere in armonia con l'ecosistema

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Il volume ci accompagna, dapprima, in un viaggio, ricco di approfondimenti interdisciplinari, alla ricerca della nostra reale e controversa natura umana e delle cause che ci impediscono di percepire il bene comune e gli interessi collettivi; in seguito, esamina la visione scientifica e culturale, nota come "visione sistemica della vita e della natura" con le sue implicazioni culturali ed etiche. Il volume, dà spazio, altresì, alla domanda fondamentale,: come posso sentirmi in comunione con la Natura, la vita collettiva, e vincere il senso di separazione e antagonismo, se mi percepisco come un «io» isolato e disconnesso dalle altrui vite e dal "Tutto"? A questo impegnativo interrogativo che riguarda tutti noi, il nostro intimo benessere, l'autore dedica un'approfondita riflessione finale, corredata di suggerimenti metodologici tratti da autorevoli insegnamenti contemporanei. Per affrontare le sfide attuali, abbiamo bisogno di un sapere che ci aiuti ad autoeducarci e a vivere secondo bontà il vivente, in coerenza con i valori di sostenibilità. Comportarsi in armonia con l'ecosistema globale è ormai, da tempo, un'emergenza civica. Se non addestriamo la nostra natura umana più evoluta non potremo confidare in un cambiamento della vita collettiva.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2024
ISBN9791222726496
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    Anteprima del libro

    Umanità e natura tra dilemmi e speranze. Vivere in armonia con l'ecosistema - Bruno Enrico Giuliano Fuoco

    Introduzione

    1. Dall’esame della nostra vita individuale e collettiva, emergono con chiarezza antichi e nuovi dilemmi di importanza fondamentale per la nostra contemporaneità:

    abbiamo bisogno di vivere insieme in collettività ma non riusciamo a volerci bene (capitolo I);

    sappiamo da secoli di avere una sorta di ambivalenza etica e, tuttora, l’animalità umana sembra prevalere sulla parte migliore dell’essere umano (capitolo II);

    abbiamo una spinta notevole ad autoaffermarci e non riusciamo ancora a cooperare a sufficienza per trovare soluzioni condivise per la sopravvivenza dell’ecosistema globale (capitolo III);

    la cultura, prevalentemente, si occupa di trasmettere un sapere orientato all’affermazione sul piano sociale ed economico, astenendosi dall’elaborare e trasmettere conoscenze orientate a formare un’umanità che sappia vivere armonicamente ed eticamente (capitolo IV);

    la tecnica offre notevoli vantaggi ma nel contempo tende a disegnare, silenziosamente, un modello di uomo digitalizzato, abitante in una realtà sempre più virtuale nella quale poter esprimere la propria identità e soddisfare i propri bisogni. Quest’uomo che tende a sostituire la vita interiore con la vita virtuale, è l’homo novus che stiamo attendendo? Oppure, riusciremo a indossare gli abiti di un uomo capace, con l’intelligenza del cuore, di coniugare lo sviluppo della scienza e della tecnica con il progresso etico dell’homo sapiens? (capitolo V)

    Tra i dilemmi indicati, quello concernente l’identità della natura umana appare denso delle maggiori conseguenze in quanto se vogliamo curare le problematiche sociali che affliggono noi e l’ecosistema globale nel quale viviamo, siamo obbligati a porre mano all’educazione della natura umana. L’animalità presente nell’essere umano proviene dal nostro passato, ma non identifica l’essenza dell’essere umano che è spirituale. Ed è con quest’ultima natura che occorrerebbe identificarsi al fine di educare e orientare le tendenze primitive da cui originano i comportamenti antisociali (violenze, guerre, miserie, violazioni dell’ordine della natura, inquinamento degli elementi naturali).

    La crisi della nostra contemporaneità, a ben vedere, non è la crisi dell’Uomo e della sua natura superiore, ma è la crisi dell’ego umano, del suo approccio verso la vita, l’umanità e la natura.

    In merito all’individuazione della nostra identità umana, il linguaggio della natura è molto istruttivo e può aiutarci a compiere un’azione di bonifica dei vari concetti innaturali che si sono accumulati nel corso della storia su questo tema. Infatti, se osserviamo la vita dell’albero, constatiamo che i frutti e i fiori, esposti all’aria e al sole, apprezzati da noi tutti per i colori, le forme, i profumi... sono distinti nettamente dalle radici scure che operano nel sottosuolo. Ma tra essi, cioè tra le radici, i fiori e i frutti non vi è contrapposizione, non vi è combattimento alcuno. Infatti, nessuno ha mai visto un albero presso lo studio di uno psicoterapeuta per dolersi delle sue scure radici! Al contrario, abbiamo visto tante persone recarsi presso gli alberi per abbracciarli e per carpire il segreto della loro pace e della loro forza. Essi sono un tutt’uno... e anche noi dovremmo esserlo. Il nostro problema deriva dal fatto che, a differenza dell’albero, noi proviamo grande difficoltà a lavorare correttamente con le energie che provengono dalle nostre radici e a causa di ciò non orientiamo le nostre pulsioni in opere o comportamenti socialmente costruttivi.

    Infatti, molti amano sostenere frasi del tipo: «abbiamo un’inguaribile natura malvagia», «abbiamo una natura ambigua immodificabile», «siamo un insieme di neuroni», «siamo una tabula rasa», «siamo animali a tutti gli effetti» ecc.

    Se chiedessimo, invece, a un albero di specificare la sua natura, non ci risponderebbe: «purtroppo sono afflitto da un grande nemico, le mie radici».

    Identificare la natura umana con l’ego, vuole dire, sul piano delle analogie, identificare un albero con le sue radici e omettere di considerare che esse, le radici, non sono fini a stesse ma aiutano l’albero a sviluppare tronco, foglie, fiori e frutti.

    2. Dall’esame della nostra vita collettiva emergono con chiarezza anche alcuni punti di forza sui quali è possibile riporre ragionevoli speranze per il futuro al fine di rispondere, affermativamente, alle domande: «esiste un possibile modello di vita collettiva supportato da nuove prospettive scientifiche e culturali in grado di salvarci dal pericoloso percorso autodistruttivo che stiamo compiendo? È possibile immaginare, come auspica Edgar Morin, che le nostre patrie - familiari, regionali, nazionali – s’integrino in modo armonico e fraterno nell’universo concreto della Patria terrestre e diano vita a umanesimo planetario?».

    Questi punti di forza sono i seguenti:

    la concezione culturale e scientifica, nota come «visione sistemica della vita e della natura» (capitolo VI);

    la consapevolezza crescente di voler esser parte di una famiglia planetaria, di un ecosistema globale, di un «Tutto» (capitolo VII);

    il bisogno di spiritualità, di un sapere unitivo e non dogmatico orientato, concretamente, a migliorare il modo di vivere quotidiano e a autoeducare la propria natura umana (capitolo VIII);

    il bisogno di un’etica dell’unità per vivere in armonia con l’ecosistema globale (capitolo IX).

    La «visione sistemica della vita e della natura» è molto importante in quanto ci spiega che tutto è collegato e vivo: i corpi fisici, i popoli, le società e la Natura sono tutti sistemi viventi. Per questa ragione, se siamo tutti interdipendenti, i problemi fondamentali della nostra epoca possono essere studiati e capiti solo se sono considerati come manifestazioni di un «Tutto». E se i problemi sono sistemici, conseguentemente, anche le soluzioni, per essere efficaci, devono essere sistemiche. Questa visione promuove, a ben vedere, le tendenze più evolute della nostra natura umana sul piano civico in quanto favorisce la percezione culturale e psichica del «Tutto», cioè dell’immensa comunità planetaria della quale facciamo parte. E ciò non può che agevolare il senso di responsabilità e i comportamenti socialmente costruttivi.

    La valorizzazione dell’idea di un «Tutto» ha risvolti etici ed educativi molto rilevanti in quanto può aiutarci a superare l’atavica insensibilità all’idea di un «Bene comune».

    Ma, occorre anche chiedersi: queste nuove sensibilità intellettuali trasmesse dalla visione sistemica come possono farsi strada nella vita quotidiana? Come può risuonare, dentro di noi, l’idea di «Bene comune»? Come possono queste idee diventare concreto parametro di riferimento, mentale ed emotivo, nelle scelte quotidiane? Come posso acquisire la coscienza di far parte di un’unica «famiglia planetaria», se mi percepisco come un «io» isolato? Un mondo interiore permeato da emozioni, desideri e pensieri insostenibili può generare attitudini di vita sostenibili?

    Quali saperi, quali conoscenze possono supportare questo processo di cambiamento?

    La spiritualità, ed è questa la tesi sostenuta nel volume, ha quel sapere, corredato di pratiche e metodi (cfr. ad esempio, cap. VIII, paragrafo 8), suscettibile di orientarci verso le manifestazioni sociali evolute, giacché può aiutarci:

    - ad ampliare la nostra coscienza verso la comunità vivente;

    - a rivedere il nostro modo di vivere, scegliendo pensieri e sentimenti più evoluti nei nostri comportamenti concreti;

    - a diminuire la quantità dei nostri bisogni, cioè a ridurre la nostra impronta ecologica;

    - a progettare una socialità in sintonia con le esigenze di cooperazione e il senso di appartenenza a una famiglia universale, cioè a favorire una nuova razionalità sociale dove la crescita del singolo deve avvenire in armonia con lo sviluppo del bene comune;

    - a responsabilizzare la nostra condotta di vita nella prospettiva dell’ideale di fraternità universale;

    - ad acquisire le qualità, bussole fondamentali nel pensare e nell’agire, dell’impersonalità e dell’imparzialità, per invertire il processo che ci ha indotto a subordinare gli interessi collettivi agli interessi egoistici di singoli soggetti: persone fisiche, imprese e stati.

    Sono tutti, quelli appena indicati, obiettivi fondamentali, particolarmente importanti in un’epoca come la nostra, definita, com’è noto, «Antropocene», in cui l’essere umano per la prima volta è in grado di modificare gli equilibri climatici, geologici, biologici e chimici del sistema, tramite le sue attività perturbatrici.

    La spiritualità può dare un grande contributo a patto di non appiattirsi sui dogmatismi delle singole fedi religiose, ma di lavorare in sinergia con tutte le conoscenze umanistiche e scientifiche al fine di vincere la nostra vera sfida: riuscire a educare l’animalità umana, sviluppando la nostra natura evoluta grazie alla quale poter convivere armonicamente e pacificamente nella società umana, e finalmente, vivere, secondo bontà, nell’ecosistema globale.

    Parte Prima

    Antichi e nuovi dilemmi

    CAPITOLO I

    Il dilemma della vita collettiva: vivere insieme, ma senza volersi bene?

    1. L’essere umano ha cercato fin dagli albori di vivere in gruppi o in collettivit๠sempre più estese per garantirsi, tra l'altro, la migliore sopravvivenza possibile sulla terra. Osserva De Wall che «non c'è mai stato un momento in cui siamo diventati sociali: in quanto viviamo da sempre in gruppo. Individui liberi e pari tra loro non sono mai esistiti. Gli esseri umani hanno mosso i loro primi passi - sempre che si possa individuare un primo passo - già da individui interdipendenti, reciprocamente vincolati e diseguali tra loro. Siamo il risultato di una lunga genealogia di animali gerarchici per i quali la vita di gruppo non è un'opzione, ma una strategia di sopravvivenza [...] i nostri corpi e le nostre menti non sono stati progettati per vivere una vita da cui gli altri siano assenti».²

    Questo bisogno di unirsi agli altri ha assunto nel corso della storia varie modalità. Abbiamo assistito a una progressiva estensione dei modelli aggregativi.³ Nel corso degli ultimi 10.000 anni, osserva Diamond, la tendenza di fondo dell’evoluzione sociale è andata dal semplice al complesso, dal piccolo al grande.⁴ Partendo da più lontano, «dagli organismi unicellulari invisibili a occhio nudo alle caverne preistoriche, dalle famiglie via via organizzate in clan e poi tribù ai primi insediamenti stanziali, dai feudi alle piccole patrie, dagli Stati nazionali agli imperi e da questi ai global players quali l'OCSE [...]. Il modello evolutivo di base è quello di un'inarrestabile ascesa dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande [e] oggi la specie umana è in cerca di nuovi pianeti da rendere abitabili in un incessante processo di espansione».⁵

    Le motivazioni specifiche che hanno sostenuto il bisogno di unirsi in collettività sono state molto diverse tra loro: sostentamento della prole, sostegno materiale, alleanze per occupare nuovi territori o per difendersi dalle aggressioni, interessi economici e commerciali, condivisione d’ideali politici, religiosi ecc.

    La suddivisione della società umana in singole collettività aventi obiettivi limitati a gruppi determinati di persone, ha prodotto notevoli acquisizioni ma non ha impedito comportamenti antagonistici e ostili, soprattutto, nei confronti di altri esseri umani facenti parti di altre collettività o di altri gruppi sociali. Tali ostilità sono spesso sfociate in guerre che non hanno, comunque, messo in crisi il raggiungimento del fine primario: la sopravvivenza del genere umano sul pianeta.

    Abbiamo provato anche a dare vita a organismi sovranazionali (pensiamo alla U.E.) e internazionali (pensiamo all’Onu) con funzioni limitate e risultati modesti. Questi organismi, in ogni caso, non costituiscono un’estensione dei singoli stati, cioè non sono contenitori di vita collettiva, non rappresentano tentativi di dare vita a un governo mondiale, a una Pan-terra o a un progetto ideale di cosmopolitismo. In altri termini, tali organismi, essendo il riflesso degli interessi e dei poteri di singoli stati, sono molto lontani dalla prospettiva morale del cosmopolitismo: «Quando gli chiesero di dove fosse, Diogene Laerzio rispose con una sola parola, kosmopolitês, ossia ‘cittadino del mondo’. Questo momento, anche se immaginario, si può dire inauguri nella cultura occidentale una lunga tradizione di pensiero politico cosmopolita. Un maschio greco rifiuta l’invito a definire sé stesso attraverso la stirpe, la città, la classe sociale, e perfino attraverso la libertà per nascita o il genere. Pretende di definirsi attraverso una caratteristica che lo accomuna a qualsiasi altro essere umano, uomo o donna, greco o forestiero, schiavo o libero. E qualificandosi come cittadino - anziché semplice abitante - del mondo, evoca la possibilità di una politica, o di un approccio morale alla politica, che si fondi sull’umanità che abbiamo in comune, anziché su caratteristiche come il luogo di origine, lo status, la classe o il genere, che invece ci dividono».

    2. La novità nella nostra contemporaneità è costituita dal fatto che i modelli aggregativi, fino a oggi maturati, sono in profonda crisi perché, a differenza del passato, non garantiscono più:

    - la sopravvivenza dell’essere umano sulla terra a causa delle sopraggiunte minacce globali derivanti da possibili guerre nucleari;

    - la sostenibilità della vita sulla terra a causa dei nostri stili di vita e dei cambiamenti climatici provocati dall’uomo.

    La vita in collettività non riesce più a contenere e a mitigare l’ostilità e a favorire alleanze di natura globale tra i popoli, necessarie al fine di poter intervenire congiuntamente sulle patologie della vita collettiva. Fortissima è la percezione, suffragata dai fatti, di violenze e conflitti non governabili da stati e organismi internazionali.

    Questa crisi deriva dal fatto che le nostre collettività sono unite, soprattutto, da interessi materiali da soddisfare e sono animate da potenziali antagonismi, anche al loro interno, verso coloro che possono minacciare e compromettere il raggiungimento di tali interessi. Per questa ragione nelle nostre società, essendo carente il legame interiore, si ha la sensazione di vivere in una sorta d’isolamento psichico e affettivo, in una sorta di paradossale solitudine. Viviamo in collettività, ma non ci vogliamo bene. Non siamo contenti di tutto ciò, eppure, non riusciamo a cambiare. Perché?

    Le cause di queste attitudini autolesioniste trovano origine, a nostro avviso, nel fatto che ciascuno ritiene normale e logico occuparsi in modo esclusivo dei propri interessi personali e al massimo di quelli del piccolo gruppo d’appartenenza, anche a danno degli altri, perché la vita non è concepita come un’armonica cooperazione tra esseri umani, ma come una lotta degli uni contro gli altri e contro la Natura, suscettibile di essere inquinata, sfruttata e depredata, quale riserva ‘inanimata’ di risorse illimitate.⁹ Gli effetti dannosi e le sofferenze provocate dai nostri comportamenti non sono da noi percepiti e siamo convinti che non possano e non debbano riguardarci. La porzione d’interessi da noi rappresentata deve prevalere sul «Tutto», sugli interessi delle collettività, su tutto l’ecosistema globale.¹⁰ La vita funziona così, affermano in molti.

    Tali attitudini sono espressione di una filosofia di vita che possiamo definire in questi termini generali:

    - egocentrica, in quanto l’egoista «restringe tutti i fini a sé stesso e non vede altro utile al di fuori di ciò che giova a lui»;¹¹

    - antropocentrica, in quanto pone al centro soltanto l’essere umano, disconoscendo le proprie responsabilità verso il diritto di vita delle altre creature viventi e della terra quale organismo anch’essa vivente;¹²

    - meccanicista, in quanto considera la natura come una macchina, il cui funzionamento è soggetto a forze esclusivamente materialistiche;¹³

    - riduzionista, nella misura in cui «tutta la realtà fisica viene ‘ridotta’ (e spiegata) in termini di particelle materiali e dei loro movimenti, i fenomeni vitali vengono ricondotti a fenomeni fisico-chimici»¹⁴ e il conoscibile viene limitato a ciò che è misurabile, quantificabile, formalizzabile;¹⁵

    - separatista, nel senso che considera separata e indipendente la vita dei singoli esseri umani, come appare alla vista fisica, ignorando i legami d’interdipendenza anche sul piano della sicurezza, della sostenibilità della vita sulla terra, sul piano sanitario, sociale ed economico.¹⁶ La filosofia della separatività porta a ritenere che gli interessi del «Tutto», dell’«Insieme» debbano essere subordinati a quelli della singola «parte».

    Questa filosofia di vita, spesso veicolata anche all’interno della famiglia, ha dimostrato oggi tutti i suoi limiti e non può più costituire un paradigma¹⁷ valido per la vita collettiva, in quanto sta conducendo l’umanità verso un baratro, verso una crisi globale di tali proporzioni da mettere a rischio la stessa sopravvivenza dell’essere umano sulla Terra. Le risorse naturali si riducono sempre più, gli antagonismi diventano sempre più esasperati e pericolosi e le intese tra stati appaiono difficilmente raggiungibili.

    Non siamo in grado di intervenire, a causa di veti incrociati, sui temi dell'ambiente e su altre gravi questioni sociali in quanto i paesi sono concentrati sul loro esclusivo interesse, prescindendo dal bene comune. Nessuno accetta di autolimitarsi per il bene comune e ciò risulta evidente anche in relazione alle risorse naturali di uso comune, sfruttate da più paesi per massimizzare interessi propri. In questi casi, si parla di «tragedia dei beni comuni» per evidenziare che senza un autolimite al proprio interesse, il bene stesso degrada, come accade per la pesca sconsiderata, l’utilizzo indiscriminato delle acque e l’abuso dell’atmosfera ecc.¹⁸

    Anche i popoli hanno le loro responsabilità in quanto, spesso, apprezzano un leader se ha la capacità di garantire loro benessere economico e molteplici vantaggi, a prescindere da come sono ottenuti, anche se in danno di altri popoli o dell’ambiente naturale.

    3. Scrive Raimon Panikkar che in occasione delle conferenze di Rio de Janeiro e di Kyoto, una potenza mondiale produttrice in misura considerevole dell’inquinamento mondiale ha affermato: «Il danno causato su scala mondiale non ci riguarda, perché non tocca i nostri interessi nazionali».¹⁹

    Questa espressione è, in effetti, emblematica del paradigma secondo il quale gli interessi della propria «parte» devono prevalere sul «Tutto», come se i danni provocati agli altri non dovessero, nel medio e lungo termine, riverberarsi anche sulla «parte» che li ha provocati. Ed è ciò che sta accadendo a tutti noi, in quanto stiamo constatando gli effetti conseguenti all’aver praticato per secoli il modello dell’homo oeconomicus declinato come soggetto razionale che agisce per il suo esclusivo interesse.

    Peraltro, osserva Goleman che «dal punto di vista delle neuroscienze, il problema è che i nostri cervelli sono progettati per la sopravvivenza nelle ere geologiche precedenti [...] i nostri allarmi cerebrali scattano solo quando percepiscono una minaccia immediata, e le sfide offerte oggi dai sistemi planetari sono o troppo micro o troppo macro per le nostre percezioni. Dato che non realizziamo immediatamente le conseguenze negative delle nostre abitudini quotidiane – come i nostri sistemi di costruzione, energetici, industriali e commerciali danneggino quelli di sostegno alla vita della Terra – è facile ignorarle o pretendere che non accada nulla».²⁰

    Ma come uscire da questa situazione? Eppure, nel corso della storia abbiamo provato numerose volte a introdurre un ordine sociale più equo, più giusto, più pacifico tra gli esseri umani. Abbiamo provato tante strade, pacifiche e violente: rivoluzioni, guerre, riforme istituzionali, programmi di matrice religiosa, programmi politici. Ma tutti questi percorsi hanno sortito nei casi più favorevoli, miglioramenti parziali e provvisori e non hanno prodotto effetti positivi globali e durevoli, tant'è che non sono stati idonei a fermare il nostro declino.

    Verso quale modello di collettività, allora, dovremmo o potremmo transitare? Verso un aggregato più grande, quale uno stato mondiale che unisca tutti i singoli stati, dimodoché non vi siano più concettualmente esseri umani esterni al gruppo, considerato che tutti faremmo parte, a quel punto, di un unico aggregato umano?

    Sicuramente, potremmo compiere un passaggio più graduale e preliminare, cioè introdurre nella vita sociale relazioni più umane, considerato che l’attuale vita sociale è caratterizzata prevalentemente dalla reciproca convenienza materiale: divisione del lavoro, assistenza sanitaria, ordine pubblico, sussidi economici ecc.

    Al momento, soltanto se vi sono interessi materiali da soddisfare, siamo disponibili a superare le differenze e le barriere tra i popoli, le diversità di cultura e di religione: pensiamo alla circolazione delle merci, del denaro e alla diffusione della tecnologia. In presenza d’interessi materiali, i confini dei singoli stati non costituiscono un ostacolo.

    Continueremo, allora, a vivere isolati nelle nostre piccole tane,²¹ alla stregua di un homo timens e digitalis, oppure, riusciremo ad aprirci a una vita sociale pacifica, giusta, gratificante e costruttiva per tutto il vivente?

    Ma qual è la nostra vera natura di essere umani? Questa è la domanda preliminare alla quale occorre dare una risposta al fine di comprendere se abbiamo ancora potenzialità inespresse da valorizzare per progettare un futuro migliore.

    ¹ Un gruppo nel significato più generale è un insieme di individui interrelati sulla base di un progetto comune - o di una comune identità autopercepita - che è riconosciuto in quanto tale o dagli individui in questione o da un osservatore esterno: Ugo Fabietti, Gruppi, in Enciclopedia delle scienze sociali, Treccani.

    ² Frans De Waal, Primati e

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