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Sognare la Terra - Il troll nell'Antropocene
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Sognare la Terra - Il troll nell'Antropocene
E-book184 pagine2 ore

Sognare la Terra - Il troll nell'Antropocene

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Info su questo ebook

L’immagine più persistente nel nostro orizzonte è senza dubbio quella rappresentata dalla parola “crisi”. È un tempo, questo, sottoposto a una specie di “anestesia ai misfatti indotta dal sovrappiù emotivo amplificato dai media”; la povertà d’esperienza e l’ipertrofia della paura disseccano la capacità di desiderare e immaginare il cambiamento. Non un solo aspetto ne è al riparo: lo Stato, l’Europa, le istituzioni, la giustizia, la scuola, il sistema sanitario, l’educazione, le famiglie. In economia poi l’impiego del dispositivo-crisi è diventato storicamente ricorsivo.
In piena emergenza sanitaria, economica e sociale, oltre che ambientale, Dubosc entra nel vivo della crisi aperta dalla pandemia del Covid-19 affrontando l’evidenza dei sintomi psicosociali, la paura del contagio e l’epidemia psichica, la deriva del controllo securitario, la medicalizzazione radicale della vita e della morte.
La pandemia sembra diventare il catalizzatore di trasformazioni in tutti gli ambiti della vita. Non sarà possibile tornare allo status quo dell’indifferenza, dobbiamo ritrovare la chiave immaginativa che ci connetta diversamente col mondo.
La riflessione dell’autore parte dal considerare ciò che è bloccato nella psiche e lo mette in relazione con l’emergenza ambientale generata dall’uomo. Entra così in gioco l’elemento pietrificato e pietrificante: il troll. Dove si nasconde il troll nell’Antropocene? Che aspetto assume oggi questo essere mitologico a un tempo umano e non umano? Cosa produce? Rappresentato nel XIX secolo come abitante demoniaco di luoghi solitari, propenso a divorare gli umani e a non rivelare niente della sua natura, il troll/hater ricompare ora sotto mentite spoglie a cominciare dalle comunità virtuali, nella rete, per boicottare e paralizzare i processi comunicativi.
Questo primo sguardo su come si manifesta e se sia il simbolo della nostra “natura cieca, muta e insensibile” è solo l’inizio per provare a rispondere alle domande che tutti ci poniamo sul nostro presente. Dubosc ragiona sulla crisi manifesta, quella di un modello di sviluppo sul quale incombe la svolta climatica, attraverso il prisma della clinica, della psicologia, dell’antropologia, della filosofia, ma da prospettive originali: chiama in causa lo sciamanesimo, la letteratura e il folklore, la psicopolitica e la cosmoecologia per mappare le radici del sovranismo, l’intolleranza e le politiche dell’inimicizia.
Più che mai, da qui in avanti, “sognare la terra” sembra indispensabile.
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2020
ISBN9788831461139
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    Anteprima del libro

    Sognare la Terra - Il troll nell'Antropocene - Fabrice Olivier Dubosc

    Fabrice Olivier Dubosc

    Sognare la Terra

    Il troll nell’Antropocene

    Introduzione di Gianluca Solla

    Sognare la terra. Il troll nell’Antropocene

    di Fabrice Olivier Dubosc

    © 2020 - Edizioni Exòrma

    Via Fabrizio Luscino 86 - Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Foto di copertina Sara Ricci

    Impaginazione omgrafica, roma

    epub isbn 978-88-31461-13-9

    Penso che dovreste sognare la Terra perché ha un cuore e respira.

    Davi Kopenawa

    di guerrieri indifesi / ha bisogno il mondo, / di sacra ira / di occhi spalancati.

    Chandra Livia Candiani

    INTRODUZIONE

    Per una clinica del presente

    di Gianluca Solla

    L’immagine più persistente della nostra epoca è indubbiamente quella rappresentata dalla parola ‘crisi’. Non un solo aspetto ne è al riparo: lo Stato, l’Europa, le istituzioni, la giustizia, la scuola, il sistema sanitario, l’educazione, le famiglie, per tacere dell’economia, in cui l’impiego del dispositivo-crisi è diventato storicamente ricorsivo.

    Non più confinata in un solo ambito, la crisi si espande fino a riguardare la vita stessa in tutte le forme a noi note, nella consapevolezza emergente di quanto essa minacci il vivente dell’intero pianeta.

    Per questo motivo la nostra è un’epoca di emergenze continue che, come tali, paiono sfuggire al nostro controllo. Ma è al tempo stesso anche quella delle grandi sfide che dipendono – se non esclusivamente, almeno in gran parte – dalla nostra stessa responsabilità. Occorre rispondere a queste sfide, ma la mancanza di risposte ci rivela cosa sia effettivamente la responsabilità, ovvero l’urgenza di rispondere proprio in assenza di risposte date. D’altronde, il tratto paradossale dell’etica è di non risolversi mai in un ‘fare’ che sappia in anticipo ‘cosa’ e ‘come’ fare. Pur considerando la mole di conoscenze che l’umanità ha accumulato con velocità esponenziale anche solo nell’ultimo secolo, dobbiamo però ammettere che un gesto di responsabilità implica come molto di quel sapere – per essenziale e irrinunciabile che sia – non sia sufficiente tuttavia a immaginare nuove forme di convivenza e di superamento dei conflitti, né di risoluzione delle persistenti forme di dominio.

    A differenza dell’Illuminismo, noi non crediamo più che l’incremento del sapere produca un più o meno automatico progresso dell’umanità né un miglioramento della vita sulla Terra, e vediamo invece come abbia coinciso anche con la distruzione, il sopruso sistematico, l’oppressione. Per trovare le risposte che la nostra situazione esige, scopriamo la necessità di un più-di-sapere che inventi quei gesti da cui sentiamo – seppure in modo spesso indefinito e oscuro – che dipenderà l’avvenire.

    Naturalmente la crisi genera difese psichiche importanti. E quando qualcosa di inaspettato effettivamente accade – come l’emergenza del coronavirus ha mostrato in tutta la sua ampiezza – molti nodi, individuali e collettivi, vengono al pettine. C’è chi ha detto giustamente che l’attuale crisi è una crisi di avvenire: non siamo più in grado di pensare e, ancora peggio, d’immaginare un futuro. Così molta della nostra azione si limita a un presente senza orizzonte. Si può ancora parlare di azione politica in un contesto asfittico di questo tipo?

    Per trovare le risposte a queste domande – o almeno delle approssimazioni alle risposte – molti dei nostri lessici tradizionali risultano inutilizzabili perché vengono spesso impiegati, in maniera più o meno consapevole, come altrettanti feticci. Invece che rendere possibile l’ascolto e farci cogliere le domande, ci rendono sordi, agiscono come forme di immunizzazione. Per lungo tempo un certo lessico marxista ha funzionato – o è stato fatto funzionare – esattamente in questo senso, come spiegazione totalizzante.

    Qualcosa del gesto stesso della critica – per quanto resti necessario e insostituibile – appare oggi insufficiente. Per questo occorre pensare (più che a una critica della crisi) a una clinica come a un’altra possibile articolazione del tema stesso della ‘crisi’.

    Occorre osare altre imprese. In un piccolo gruppo transdisciplinare, di cui questo libro è uno dei frutti, abbiamo provato a immaginare un passaggio dalla critica alla clinica, ovvero a una ‘clinica della crisi’. In estrema sintesi, si potrebbe dire che si tratta di una clinica di ciò che è rimasto bloccato nelle configurazioni irrigidite della nostra epoca, che si presentano come un rifugio ma che costituiscono invece la trappola che maggiormente irretisce il nostro bisogno di verità e di libertà.

    Abitualmente associamo la parola ‘clinica’ alla dimensione medica, al punto che per noi la parola indica uno dei luoghi preposti all’accoglienza e alla guarigione dei malati, oltre che allo studio della medicina. Da qui la parola è passata a indicare come aggettivo molti altri elementi del sistema di cura: quadroclinico, caso clinico, analisi cliniche, occhio clinico, sino a significare la figura stessa del medico o del docente di medicina. Tuttavia la storia delle parole ci dice che in greco antico klinè indicava il letto su cui il malato si appoggiava per essere visitato. Clinico è innanzitutto il gesto di chi si piega su chi soffre, in una forma concentrata di attenzione.

    Il gesto della clinica non è dunque un gesto di separazione, ma di prossimità. E quanto più da vicino guardiamo, tanto più lontano questo gesto può condurci. È un gesto che nasce dall’impossibile separazione tra noi e il mondo, tra quelli che la nostra tradizione moderna avrebbe chiamato i soggetti e gli oggetti di cui è costituito quel mondo che chiamiamo nostro e che è inseparabile dalle nostre vite. In questo senso la clinica rappresenta un lascito fondamentale che ereditiamo dalla nostra cultura. Essa implica un discorso sulla vicinanza, ma in che senso? Nel senso di ciò che ci riguarda. E che ci riguarda quanto più ce ne occupiamo. Non è la postura della separatezza ma della prossimità con le cose del mondo, anzi dei mondi, in quanto costituiscono il linguaggio stesso con cui guardiamo e pensiamo.

    Non si tratta più di una critica rivolta al mondo presente, come se si trattasse di un oggetto a noi esterno. Abbiamo bisogno di praticare il mondo in quanto intrecciato dai nostri atti e dalle nostre relazioni. Praticarlo significa anche immaginarlo, sognarlo, costruirlo nella proliferazione delle forme. Alla povertà di risposte che abitualmente vengono date a ciò che ci interpella occorre opporre il potere di parole che curano, perché non sono parole d’ordine, né luoghi comuni, ma esplorano le domande non ancora articolate che ciascun vivente porta rispetto a ciò che gli accade.

    È forse per questo che in uno delle sue formule profetiche Walter Benjamin ha legato all’esperienza dello shock e alla cifra del ‘risveglio’ la possibilità di un diverso modo di abitare il mondo. L’esigenza è quella di un cambiamento che risiede innanzitutto nella postura o, meglio, nella dis-posizione con cui si attraversa il proprio tempo. All’epoca della povertà d’esperienza Benjamin oppone la possibilità di una forma fulminea del rammemorare che – arrivando dal passato, con le sue ingiustizie, i suoi lutti, le sue eredità storiche non elaborate – illumina in modo sorprendente il presente, attivando nello stesso istante quel sovrappiù di vita che in ogni momento può attraversare le singole situazioni. Le parole che da qui nascono possono allora curare. Possono tessere relazioni, immaginare mondi. Possono praticare il desiderio nella misura in cui questo innerva la realtà e la costituisce.

    All’epoca delle psicosi collettive, dell’impoverimento del senso di appartenenza non a un’identità ma a un immenso tessuto vivente che riguarda tutti, umani e non umani, animali e piante, elementi vegetali e minerali, in un tutto-mondo (secondo l’espressione di Edouard Glissant), occorre rispondere facendo valere altre risonanze.

    All’epoca della povertà d’esperienza, all’anestesia o all’ipertrofia della paura – sganciata dal suo riferimento biologico che serviva a garantire la vita, quella paura diventa una pura formazione immaginaria da rinuncia all’emancipazione, che mortifica la vita –, occorre opporre l’esistenza di un ‘appuntamento segreto tra le generazioni’ che permetta di cogliere il sovrappiù di vita che in ogni momento attraversa le situazioni date. Che non sono appunto tali, ma viventi.

    Sognare la Terra osa questa sfida immaginativa partendo da una fenomenologia di ciò che è bloccato nella psiche e lo mette in relazione con l’emergenza ambientale generata dall’uomo, a cominciare da quelle scissioni così incistate dentro il mondo occidentale: tra natura e cultura, soggetto e oggetto, psiche e società.Attingendo alle ecologie degli altri, offre spunti di riflessione su modi differenti di pensare e di praticare la relazione con la Terra e con il mondo, nel senso di un’esigenza di giustizia che non si risolve nell’applicazione del diritto. Ispira così a ridefinire la questione dell’appartenenza non nei termini di un’identità difensiva, ma nel riconoscimento di una connessione costitutiva con quell’immenso tessuto vivente che riguarda umani e non umani, animali e piante, elementi vegetali e minerali, in una pluralità di mondi, dove il troll non abbia più ragione di pietrificarsi e pietrificare ma torni a essere una figura che anima il possibile.

    In questa ricerca immaginativa insiste una forza che, per quanto fragile e inapparente possa sembrare, è la nostra risorsa più preziosa, a cui non possiamo rinunciare per niente al mondo perché ci rende capaci di pensare e di generare l’avvenire.

    PREMESSA

    Distopie e Utopie

    Distopie

    Può accadere in qualunque momento. La percezione improvvisa che qualcosa non vada, che il tempo sia fuori fase. Come nel romanzo Assurdo universo dove l’eroe si trova improvvisamente sbalzato in un universo parallelo, uguale in tutto e per tutto al nostro, ma dove i terrestri sono in guerra contro gli arturiani e sottoposti a un rigidissimo regime totalitario.

    Nell’utopia negativa – o distopia – antichi mitemi di distruzione tornano, compiono il loro giro di giostra: Babilonia in fiamme, i mercanti del mondo in lacrime. A volte il confine con le intuizioni fantascientifiche si fa tenue. Dall’era atomica in poi – e oggi con l’emergenza climatica – ciò che pareva appartenere alla

    sfera del delirio emerge come possibilità.

    Come quando il gruppo rap The Coup immaginò – chissà come – una copertina per un album in uscita nel settembre del 2001 con le torri gemelle del World Trade Center in fiamme. Naturalmente dopo l’11 settembre decisero di cambiare copertina.

    Così, in qualunque città del Nord del mondo chiunque potrebbe avere per un istante una visione simile a quella che ha un indigeno yanomami proveniente dalla foresta amazzonica alla vista di questo Triste Occidente.

    Un mondo fuori fase, coperto di cemento dove i bianchi mangiaterra, innamorati delle merci, chiusi nelle loro case di pietra non sanno più sognare. Dove tutto sempre accelera, mentre il cielo si ammala di calore e di fumi e rischia di cadere e schiacciare un mondo dove gli spiriti non ballano più.¹

    Del resto la dicotomia natura/cultura informa da tempo la griglia interpretativa con cui l’uomo occidentale legge il

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