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Fuggevole turchese
Fuggevole turchese
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E-book303 pagine4 ore

Fuggevole turchese

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Info su questo ebook

Chi è quella ragazza che non abbiamo mai visto in volto, la cui immagine ci ossessiona da quando eravamo bambini, che sale su un tram proprio quando stiamo per raggiungerla? Di lei ci resta soltanto la visione di un sedere ben tornito, inguainato in pantaloni turchesi. Che non sia per caso la morte, questo qualcosa di fuggevole turchese che cerchiamo di raggiungere per tutta la vita? 

Lazzaro Santandrea, antieroe metropolitano, col suo nome di battesimo può permettersi di guardare la morte in faccia, oltre che apprezzarne le natiche. Una morte estiva (non autunnale) e turchese (non nera) che, abbandonata Milano, fissa la propria residenza tra Alassio e Laigueglia. È qui che operano i Riformati, una confraternita di ex criminali riabilitati da un ambiguo guru. È qui che una pioggia d’agosto si può trasformare in un diluvio universale. È qui che lo stesso Lazzaro, senza aver mai lavorato in vita sua, si ritrova assunto come reclutatore di Principi Azzurri. Ma è un’esca per fanciulle in fiore o una serra di fiori del male?

Fuggevole Turchese è un romanzo – vitalissimo – sulla morte. In appendice i contenuti speciali di Andrea G. Pinketts: Hanno ucciso il principe di Galles, Tracce di trench, L’avventuriero, Cara Mary Quant, meritavi il Nobel.

"Un libro contro le convenzioni e l'apatia"Alberto Bevilacqua

LinguaItaliano
Data di uscita26 apr 2024
ISBN9788830593794
Fuggevole turchese

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    Anteprima del libro

    Fuggevole turchese - Andrea G. Pinketts

    1

    Come esci dall’utero te lo mettono nel sedere: è la prassi.

    Non so se sia giusto, ma poco conta. Sarebbe utile saperlo in anticipo: l’adattamento sarebbe meno traumatico durante l’allattamento.

    Peccato che nessun neonato, nemmeno il feto prodigio che sono stato, sia in grado di leggere queste righe e quindi capirle.

    Il neonato è un futuro morto non ancora alfabetizzato. Non lo salva neanche l’intuito. È un bell’ignorantone in formato mignon che non conosce ancora le lettere ma avverte la musica della vita, come un cane fiuta un terremoto prima dei terremotati.

    La nascita è un dono non sempre gradito, specie se ti ritrovi in un cassonetto zeppo di fogli di giornale, e di residui organici e non, su cui è meglio non indagare. Pomodoro e sangue, acciughe e sangue, fragole e sangue. Più qualche preservativo, le autoreggenti del pene.

    Il regalo, comunque, apparentemente consiste nelle note con cui costruire un musical. Do Re Mi Fa Sol La Si Do. Crescendo resiste solo il Do. Ma se aggiungi al Do un Ut e all’Ut un Des, si evince un do ut des, che sono le uniche note intonate per un’esistenza canonica.

    Io do perché mi sia dato. Un opportunista civile e integrato.

    Io esco affinché qualcuno, penetrandomi, mi anticipi l’entrata che regalerò al prossimo non necessariamente consenziente. A ogni uscita un regalo, un bel fiocco: azzurro per i maschietti, rosa per le femminucce. Nessun nastro trasparente per i gay che ancora non sanno di esserlo.

    Rosa e azzurro. Il fiocco è quello che resta al neonato del cordone ombelicale. Un bel nodo aggrovigliato, da far invidia a qualsiasi intestino, che si scioglierà solo dopo la morte. Nera. In segno di lutto.

    Convenzioni. Il colore della morte non è nero, proprio come quello della nascita non è azzurro né rosa. Tanto meno trasparente.

    La morte è Turchese, forse. Fa fine, ma non impegna. Come turchese è il colore del cielo, un paradiso perduto e ritrovabile, e dell’inferno, sempre a portata di mano.

    Il Turchese è fuggevole. La morte corre piano, per essere raggiunta.

    Per accedere al Turchese, qualsiasi cosa sia, ci vuole tempo.

    Io non ne avevo.

    * * *

    Aspettava l’otto (nel senso del tram), erano le nove (nel senso post-meridiano).

    Passò un ventuno, poi un quattordici. Successivamente un altro ventuno e, guarda un po’, una serie alternata di ventuno e quattordici.

    Non aveva fretta, specie dopo sei mesi e vent’anni di galera.

    Si ricordava solo dei sei mesi, privilegiandoli ai vent’anni, perché li aveva assaporati minuto per minuto, secondo per secondo, nell’attesa di uscire da San Vittore per andare a Saint Tropez. Però si era trattenuto a Milano. Una volta tanto aveva l’enorme potere di trattenersi da solo, senza che gli altri lo costringessero a rimanere.

    Aveva girovagato in un giro vago come i suoi occhi tra quelle strade che pugnalavano via Giambellino, diventandone il succo. Qualcosa tra il vino rosso, l’aranciata amara e il bianco spruzzato di sangue.

    Niente da fare. I ricordi, le macerie dei ricordi che avevano seppellito vittime, lo insultavano, continuavano a insultarlo. Erano pesci morti nella grande piscina di case signorili che negli ultimi vent’anni e sei mesi avevano trasformato il Giambellino, quartiere periferico e malfamato, in una sorta di dépendance del centro arterioso di Milano.

    Quanto a lui, era irsuto fuori e sporco dentro. Sporco di sporcizia inarrivabile perché protetta, custodita in un corpo umano.

    Cercava con gli occhi convalescenti qualcosa che li rendesse di nuovo febbrili. Violava con lo sguardo la risibile protezione delle vetrine. Niente da fare.

    Aveva visto in quella serata ottobrina e depressa un solo taxi abusivo. C’era sciopero dei taxi e nell’aria qualcosa di freddo e bollente quanto lui.

    Aveva spiato, spiava, spiò. Dopo aver espiato, pronto a ricominciare.

    Ma il guaio di un quartiere residenziale consiste nel fatto che ognuno resta nella propria residenza. Protetto dagli sguardi convalescenti prima che diventino febbrili. Niente da fare.

    Solo un bar (Da Gegè. Poi Da Gegi, adesso era rimasto solo Da G.) in cui gli ultimi balordi giocavano a carte in attesa di essere comprati dall’immobiliare Fujimoto. Di sparire, quindi.

    Nel dimenticatoio delle leggende in disuso aveva visto, vide, visse, volò impercettibilmente al di là delle vetrate.

    Ascoltò, ascoltava, aspettava quelle ultime inutili ordinazioni di amaro Montenegro e di Gazzosa corretta anice, prego. Il tempo non aveva più senso, né tantomeno i tempi dei verbi. Ma non ce n’era bisogno. Anche chi non sa coniugare può coniugarsi, anche chi non sa usare a tempo perso un congiuntivo può essere afflitto da congiuntivite.

    Aspettava l’otto. Da troppo tempo i ventuno e i quattordici si moltiplicavano, si inseguivano, ma niente fottutissimi otto. Il grande mistero di una giostra a cui mancava un pezzo.

    In sostituzione di un vagone, una ragazzina si affacciò alla sua attenzione. Era atletica senza aver rinunciato alla meritata porzione di grasso infantile. Vestiva strano per chi non avesse mai visto una girl scout. Pantaloni marroni al ginocchio, camicia simil militare azzurra. Un fiocco, una specie di fazzolettone marrone e azzurro, le impiccava il collo. In testa un cappello da donna delle praterie. Un po’ Desdemona, un po’ Calamity Jane. Ai piedi un ibrido tra stivaletti e scarponcini.

    Jan Saudek, grande maestro della fotografia del ventesimo secolo, specializzato in perversione grottesca e abilissimo nel realizzare i suoi lavori in bianco e nero per poi ridipingerli a mano con una tecnica estremamente raffinata, come se fossero delle vecchie fotografie di fine Ottocento scattate nei bordelli, ne sarebbe andato pazzo. Mai che fosse presente quando ce n’era bisogno.

    L’uomo fu abbordato dalla vergine in divisa, ansiosa di rendersi utile. «Mi scusi. La vedo, posso dirlo, un po’ stranito. Posso aiutarla?»

    «Sto aspettando l’otto ma è da un po’ che non passa. È sempre così in ritardo?»

    Lei ridacchiò: «Saranno tre anni. È stato sostituito dal quattordici».

    Lui l’avrebbe uccisa.

    La uccise.

    * * *

    L’avevo visto molte volte, ma né lo avevo riconosciuto né avevo saputo dargli un nome. Anzi, ero convinto che fosse di sesso femminile. E forse lo era ma non solo, ogni volta sembrava diverso. L’unica cosa che aveva in comune ogni sua epifania era il lasciarmi in bocca il sapore dolciastro di un’arancia amarognola, un gusto impossibile proprio come un’occasione perduta.

    Lo incrociavo sin dall’infanzia. E l’infanzia, per un trentasettenne immaturo, risale al giorno prima.

    Da piccolo non potevo fermarlo per motivi tecnici. Mia nonna – che mi portava ai giardini pubblici per sorvegliare la tata tedesca e il suo fidanzato, un barbiere di Siviglia – mi avrebbe impedito di raggiungerlo. Così in quei lontani lunedì, il giorno di chiusura dei parrucchieri e di apertura delle camicette delle tate tedesche, la nonna sorvegliava Ute che avrebbe dovuto sorvegliare me che sorvegliavo lui, mentre si dava da fare da quel figaro figliolo che era.

    La nonna è morta da due anni. Non è andata in paradiso, è andata in Trentino. Per lei le due cose erano equivalenti.

    La sua terra d’origine è il cielo. Pur fingendosi cattolica non le era mai andato giù il concetto della polvere alla polvere.

    Che alla polvere ci pensassero le donne di servizio, i trentini arrivano dal cielo. Come gli extraterrestri.

    Ma perché sto parlando di mia nonna? Non c’entra niente con questa storia.

    Probabilmente è per mantenerla ancora un po’ in vita facendole fare una comparsata di lusso, un cammeo nella vostra lettura.

    I giardini pubblici sono ancora lì. Io no. Se fossi lì da trentun anni, ne avevo sei ai tempi, mi starei annoiando a morte.

    Invece no. Specialmente ogni volta che ero stato lì lì per raggiungerlo, agguantarlo e mi era sfuggito lasciandomi un vago senso di angoscia, un’ansia languorosa come un liquore bevuto a stomaco pieno. Di altri liquori.

    Non so se vale la pena di raccontare che ogni volta è sgusciato via prima che avessi il tempo di rivolgergli la parola, anche per educazione nei vostri confronti.

    Non sapete ancora di chi, di cosa io stia parlando. E allora facciamola finita: iniziamo.

    Quando qualcosa inizia comincia a finire.

    Diciamo che era il primo agosto. Quindi agosto, secondo la mia succitata teoria, era agli sgoccioli. Luglio era appena terminato, sgocciolato via tra le gocce di sudore.

    Io detesto sudare. Dubito che a qualcuno faccia piacere, tranne che in una sauna. E poi sudare fa bene. Ma io esagero.

    Esagero in tutto se è per questo. Con le ragazze, con le birre, coi pani e coi pesci che pretendo di moltiplicare senza far uso di calcolatrici.

    Esagero nel corteggiare la morte, col risultato che poi devo vedermela coi suoi fratelli maggiori: i guai.

    Esagero nel protrarre le serate in compagnia dei miei fantasmi. Ma la cosa in cui esagero maggiormente, a vista d’occhio, è il sudore.

    Sudo per tutti i gusti. Sudori caldi, sudori freddi. Ruscello sudore, piovo, governo ladro, annego. Titanico come un Titanic di sudore.

    Se pensate che sia un mortorio alle sei del pomeriggio di un sabato primo agosto è perché non siete stati a Mestre alle tre dello stesso pomeriggio.

    Io ne ero appena tornato.

    Non capisco perché ci si accanisca nel denigrare Mestre come se fosse una specie di portineria, entrata di servizio per fattorini del fiorista e garzoni di salumeria, della sontuosa e decadente Venezia. Certo, l’interminabile viale Piave, quello che conduce alla stazione, non ti invoglia a ballare la samba. Ma Mestre ha almeno due vantaggi rispetto all’aureolata vicina (San Marco, uno per tutti). Quali? Mestre è, come dire… più salda, più solida… se vuoi persino più terra terra. Questo è il primo.

    Il secondo si chiamava Raffaella. Il motivo che mi aveva spinto, il giorno prima, per Mestre, convinto di passeggiare per viale Piave come se fosse il cuore dei Campi Elisi.

    Raffaella Tedesco da Mestre. Non aveva i colori del Veneto. Capelli neri, al sedere, occhi scolpiti nell’ebano, seno da locandiera, accento di Goldoni. L’unico inconveniente era che i capelli al sedere le occultavano il sedere come una cascata nasconde una grotta.

    L’avevo incontrata un anno prima al Festival del Cinema. Lavorava a un computer nel salone al centro dell’hotel al Lido, qualcosa che aveva a che fare con la posta elettronica spettacolarizzata. Non so. Non me ne intendo.

    Gli attori e i giornalisti e il caravanserraglio di giulivi accreditati le ronzavano intorno.

    Michele Trucido, un attore italiano specializzato in ruoli brizzolati di poliziotto o mafioso, le aveva appena offerto una parte nel suo prossimo serial L’impepata di cozze, o qualcosa del genere.

    Avevo osservato divertito la scena e il garbato rifiuto della ragazza al fascinoso stagionato buzzicoso tentatore. L’istrione, con la coda tra le gambe, se n’era andato per altri lidi.

    Un mio piccolo applauso, un po’ loffio a causa delle mani umide, e Raffaella aveva alzato lo sguardo. «Non ti senti bene? Sei tutto sudato.»

    «No, grazie. Sto benissimo. È che sono un sensitivo. Non prevedo gli eventi, li influenzo. È stato lo sforzo mentale per allontanare da qui Michele Trucido.»

    «Credevo di essere stata io. Senza il minimo sforzo.»

    «Vedi? Doppia fatica. Mi hai anche costretto a ipnotizzarti. A proposito. Guardami negli occhi. Vieni al bar a bere qualcosa?»

    Mi aveva seguito in trance, facendosi sostituire da una collega i cui occhi cerulei la sapevano lunga. E quindi la sapevano già.

    Un quarto d’ora di pausa con una birra per me e un Bellini per la mia bella.

    Gli altri clienti del bar ostentavano le tessere che li qualificavano. Osservavano lei, ammirati e invidiose, e me, ammirate e invidiosi. Probabilmente pensavano che fossi un attore di qualche nuovo capolavoro di una coproduzione franco-colombiana. Era nata una stella. Che sudava freddo all’idea del declino.

    L’aiuto barman, un ragazzino più sudato di me, mi aveva chiesto un autografo.

    Invece, Raffaella: «Cosa fai a Venezia?».

    «Vuoi la verità?»

    «Sì.»

    «Peccato. Mento benissimo.»

    «Anch’io, ma per ora non abbiamo nulla da nasconderci.»

    «Io farei… ho fatto… faccio tante cose. Sono qui per una nuova trasmissione di Canale 5. Si chiama Lo Scherzetto. Siamo in quattro tutti vestiti di nero. Sono abiti invernali perché la trasmissione andrà in onda da fine settembre a giugno e non deve sembrare databile e datata. Figurati che dobbiamo fingere di non essere a Venezia né alla mostra del cinema. Se manderanno in onda questa puntata a Natale, la critica televisiva la riterrà una trasmissione geniale. Tutti si chiederanno come mai io riesca a sudare in dicembre e soprattutto come sia riuscito a convincere tutte queste comparse a esibirsi in maniche corte.»

    «Con l’ipnosi no? Di che tratta il programma?»

    «Non l’abbiamo ancora capito. L’autore dice: il programma dovete farlo voi. Improvvisate. Fate scherzetti ai VIP e ai PIP.»

    «PIP?»

    «Possibili Idioti Plagiabili. In sintesi l’idea è che noi quattro, vestiti da becchini, prendiamo per il culo chi sta allo scherzo, evitando accuratamente le guardie del corpo e gli amici di famiglia della grande famiglia di Canale 5. L’autore, ci vuole un bel coraggio a farsi chiamare così, mi ha dato una sorta di canovaccio-esempio da applicare tanto per cominciare. Devo beccare Bernardo Bertolucci e costringerlo a ballare una mazurca senza musica, chiedendogli se rimpiange l’ultimo tango.»

    «Non ci credo.»

    «Io non ci posso credere. Mi sa che li mollo qui. Ho ancora una dignità. Non so dove sia. Probabilmente l’ho lasciata a casa. Ma ce l’ho.»

    Raffaella si era offerta. Avevamo ballato una mazurca senza musica, sotto gli occhi ammirati e invidiosi di uomini e donne tesseromuniti.

    PAUSA

    (Per tirare il fiato)

    Lo Scherzetto non aveva conquistato né pubblico né critica. Io avevo conquistato Raffaella.

    Bertolucci si era convinto che fossi un coglione però, dopo aver firmato Io ballo da sola, mi aveva concesso una mazurca.

    Parigi val bene una messa. La tivù vale benissimo una danza.

    Lo Scherzetto, da striscia quotidiana, era stato retrocesso o promosso, difficile capirlo, in seconda, quasi terza serata settimanalmente. A Natale, più o meno, avevo mollato il colpo. Senza troppi danni. Ci guardavano solo gli sponsor e i focomelici (sono più di quanti pensiate) per la barriera architettonica del telecomando.

    Nel corso dell’anno il flirt telefonico tra me e Raffaella Tedesco non si era esaurito, non essendo stato un amore estivo.

    «Lazzaro. Sono Raffi. Sudi anche in marzo?»

    «No. Peccato tu non mi possa vedere.»

    Aprile.

    «Sudi?»

    «Vieni a trovarmi.»

    «Vieni tu.»

    «Non posso devo lavorare.»

    «Ma non fai più Lo Scherzetto

    «No. Mi è stata fatta una proposta interessante. Poi sai da maggio torna Lo Scherzetto. Io non ci sarò. Si chiamerà I Becchini. Per il resto è identico. Hanno solo cambiato titolo e fascia oraria.»

    Giugno.

    «Mi sono laureata. Ho visto che è uscito un libro con la tua prefazione. Quando vieni?»

    «Dammi il tempo che diventi un bestseller.»

    Luglio.

    «Allora ti decidi o no? Vieni?»

    «Vieni tu.»

    «No. Vieni tu. Il trentun luglio è il mio compleanno.»

    «Vabbe’, vengo.»

    «Davvero?»

    «No. È uno scherzetto.»

    PAUSA

    (Per non avere più fiato)

    Ci amammo, ci schiavizzammo, ci liberammo dal giogo senza rinunciare al gioco, ci sfiancammo al punto che i nostri fianchi si ridussero all’osso. Diventammo gli scheletri che saremmo diventati prima che i vermi facessero man bassa.

    Noi morivamo senza morire e senza vivere, corteggiandoci senza conoscerci. Ma chi conosce chi?

    L’imprevedibile relazione telefonica aveva già tutto previsto a nostra insaputa.

    Non si muore per amore, men che meno per l’abbozzo di un amore. È l’amore che da sempre si suicida, consapevole di lasciare due cadaveri vivi, per poi passare ad altro. Lasciando libere le proprie vittime di passare ad altri.

    * * *

    Mi chiamo Lazzaro Santandrea. Sono alto un metro e ottantatré e cerco di pesare ottantatré chili per dare una parvenza d’ordine a una vita, non solo la mia, disordinata.

    Vorrei morire a ottantatré anni. Giusto per la forma.

    Ma lo dico adesso. A ottantadue anni la penserò diversamente.

    * * *

    Ma non succede niente protestano i lettori assetati di sangue. Come no. Nell’intervallo a-storico in cui io e Raffaella ci siamo amati senza toccarci sono successe un sacco di cose. Ma sono tutte finite in un sacco. Da abbandonare in un prato di periferia, lontano da questo racconto.

    È morto uno stilista audacemente rinascimentale, un certo Versace. È schiattata una principessa, una tale Lady D, D come Death, Morte. E sono morte molte persone che avranno a che fare con questa storia. Ma noi non lo sapevamo ancora, ancorati alla grande certezza di un piccolo amore, talmente piccolo che il suo fidanzato non ci aveva fatto caso.

    Un anno buttato via, di quelli che puoi omettere dall’autobiografia senza che il pubblico ci perda qualcosa. Un anno opaco durante il quale gli accadimenti che mi avrebbero rinfacciato di sottovalutarli sotto forma di conseguenze erano passati senza spassarsela in un tripudio tinta pastello.

    Un anno che alla non più tenera età di undici mesi mi si era palesato in tutta la sua insipienza, costringendomi a salvare l’unico incontro per di più sprecato, quello con Raffaella. Così il trentun luglio ero partito per Mestre.

    Raffaella’s Birthday.

    La mia donna sprecata aveva deciso di festeggiarlo al Festival dell’Unità. L’avevo conosciuta al Festival di Venezia e la incontravo nuovamente al Festival dell’Unità. Qualcosa mi aveva detto di farle la festa, di solennizzare con una bella scopata tutto quel sudore sprecato nei mesi precedenti. Ma vai a spiegare a undici mesi di limbo, in cui persino tutti i miei tentativi di autodistruzione erano stati eccitanti come un uovo alla coque, che li vuoi riscattare con il colpo di mano, col colpo di coda di un colpo di reni.

    La vendetta degli undici: Raffaella aveva le mestruazioni. Mestruata a Mestre. Immagino che ci sia una sorta di giustizia poetica nella circostanza.

    Al Festival dell’Unità era andato tutto storto: la crisi del comunismo.

    Zanzare assassine (volevate un delitto: eccolo servito), Raffaella intrattabile, Lazzaro in un bagno di sudore.

    Al fortino, una specie di deposito bellico inutilizzato dalla Seconda guerra mondiale, tra sterpi e hot dog, tra bancarelle di artigianato locale, tra canti di para-indios, gli Intillimani di Parabiago, qualunque amore avrebbe avuto vita breve. Figuriamoci un non amore estivo di undici mensilità.

    Per dare un po’ di ossigeno alla serata, mi ero ubriacato con un vinaccio imbottigliato direttamente dai fratelli Metanolo di Mirano. A Murano facevano il vetro per le bottiglie, a Mirano il metavino.

    Risultato: una serata passata a vomitare mentre Raffaella flirtava indisposta con un pistola di senegalese. Da non confondersi con un fuciliere senegalese.

    La vita scappa come la pipì. Sbadigliando alle tragedie noiose perché durano undici mesi.

    * * *

    Così, sudato e nauseato dall’odore di treno e da tutto quel pus trattenuto nel ventre della Stazione Centrale, stavo tornando a casa.

    Una giornata grigiastra, di quelle che fanno credere ai turisti che a Milano non ci sia mai il sole. C’è. C’è eccome, ma è tutto come sempre questione di tempi.

    Negli anni Sessanta, quelli del boom, la pubblicistica aveva fatto credere che la città andasse sempre di fretta, in una sorta di ballo di San Vito lavorativo. Il sole la imitava, passava così veloce che nessuno faceva in tempo a rendersi conto del suo passaggio.

    Nei Settanta, fascisti e cinesi – con la non gradita partecipazione straordinaria dei poliziotti – erano talmente impegnati a giocare alla guerra da non degnare il sole di uno sguardo.

    Anni Ottanta, gli anni della lampada. Che bisogno c’era di prendere il sole, quando in un centro abbronzante con un leggero sovrapprezzo potevi persino somigliare a un albino?

    Anni Novanta. Più che al sole pensavano tutti al Duemila. Si erano preparati a festeggiarlo facendo sacrifici umani. Gli orchi erano tornati, altro che le streghe, povere patetiche femministe dei ruggenti Settanta.

    I pedofili erano più frequenti dei raffreddori di stagione. Gli assassini seriali si alternavano alle crisi di governo, lasciando il lettore assuefatto o rimborsato.

    Tutto ciò forse per omaggiare quel grande sole nero, quel misterioso buco nero al fondo del quale solo i più ottimisti, o gli allucinati, intravedevano una sorta di zucchero filato però color turchese.

    Ai piedi della monumentale stazione, vicino al posteggio dei taxi con regolare licenza, il solito esercito di irregolari, talmente irregolari da non potersi permettere i taxi abusivi.

    Ci voleva fiuto a riconoscerli, confusi com’erano tra i vacanzieri di seconda mano e di primo pelo, trasandati come si conviene tra un arrivo e una partenza.

    Erano gli aficionados del sottobanco, gli obliteratori del buco proprio e altrui, i venditori di merce e di marcio, i travestiti da passeggeri. Quelli che non avrebbero mai preso un treno, quelli in attesa che partisse la stazione lasciando al suo posto

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