STEEL
Di AA. VV.
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Può essere appuntito come un coltello o arrotondato come una mazza pesante. Grezzo, rifinito, duro o malleabile. Può essere anche un cucchiaino nelle mani innocue di un mago.
L’acciaio può avere mille forme e utilizzi. Può essere un’arma che ferisce, un oggetto d’arredamento, qualcosa che mai avremmo pensato potesse diventare protagonista di un racconto.
Ma noi abbiamo chiesto ai nostri autori proprio questo: l’acciaio come protagonista. Che sia il materiale che compone un’arma o che sia un comportamento freddo e austero. Che sia un ago, un coltello, un martello. Che sia un modo di pensare, di agire, una sensazione. Che sia una temperatura o un colore, l’acciaio può assumere cento e cento significati.
Questo però non vuol dire che tutto ciò che è protagonista si debba per forza “vedere”. Gli autori hanno usato la fantasia, trasformando le banalità e ribaltando i cliché, lavorando con le emozioni e comunicando anche ciò che non si può toccare.
In Psycho, di Hitchcock, la scena della doccia è la più famosa e una tra le più note della storia del cinema: dura 45 secondi ma occorsero sette giorni di lavorazione, 72 posizioni della macchina da presa e una controfigura per Janet Leigh. La cosa più curiosa, però, è che l’accoltellamento dura 22 secondi per un totale di 35 inquadrature, ma mai una volta si vede la lama affondare nel corpo di Marion: è il montaggio serrato che fa supporre allo spettatore ciò che non si vede.
Perciò i nostri autori hanno “montato” il loro racconto presentando le proprie emozioni. David Grossman dice, nel suo Che tu sia per me il coltello: “Amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso”.
Gli autori di questa raccolta hanno frugato dentro loro stessi. Per scrivere il loro racconto d’acciaio.
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Anteprima del libro
STEEL - AA. VV.
© 2013 Rosso China
Direttore editoriale Valeria Ferracuti
Collana: Materials 1° volume
Immagine di copertina © Geb Photography
Tutti i diritti riservati
Presentazione
di Valeria Ferracuti
Può essere freddo come ghiaccio o ustionante come ferro da marchiatura. Può essere sottile come un ago o spesso e massiccio come una sbarra lucente.
Può essere appuntito come un coltello o arrotondato come una mazza pesante. Grezzo, rifinito, duro o malleabile. Può essere anche un cucchiaino nelle mani innocue di un mago.
L’acciaio può avere mille forme e utilizzi.
Può essere un’arma che ferisce, un oggetto d’arredamento, qualcosa che mai avremmo pensato potesse diventare protagonista di un racconto.
Ma noi abbiamo chiesto ai nostri autori proprio questo: l’acciaio come protagonista.
Che sia il materiale che compone un’arma o che sia un comportamento freddo e austero.
Che sia un ago, un coltello, un martello. Che sia un modo di pensare, di agire, una sensazione.
Che sia una temperatura o un colore, l’acciaio può assumere cento e cento significati.
Questo però non vuol dire che tutto ciò che è protagonista si debba per forza vedere
. Gli autori hanno usato la fantasia, trasformando le banalità e ribaltando i cliché, lavorando con le emozioni e comunicando anche ciò che non si può toccare.
In Psycho, di Hitchcock, la scena della doccia è la più famosa e una tra le più note della storia del cinema: dura 45 secondi ma occorsero sette giorni di lavorazione, 72 posizioni della macchina da presa e una controfigura per Janet Leigh. La cosa più curiosa, però, è che l’accoltellamento dura 22 secondi per un totale di 35 inquadrature, ma mai una volta si vede la lama affondare nel corpo di Marion: è il montaggio serrato che fa supporre allo spettatore ciò che non si vede.
Perciò i nostri autori hanno montato
il loro racconto presentando le proprie emozioni. David Grossman dice, nel suo Che tu sia per me il coltello: Amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso
.
Gli autori di questa raccolta hanno frugato dentro loro stessi. Per scrivere il loro racconto d’acciaio.
Cosplay
di Andrea Carlo Cappi & Ermione
Fuori città. Una mezz’ora di auto verso la campagna.
Distolgo gli occhi dalla strada e la guardo, accanto a me, sul sedile del passeggero.
Lei è truccatissima: un disegno di occhi allungati che forse vorrebbero sembrare orientali e invece fanno pensare a Cleopatra, illuminato per un istante dall’insegna di un agriturismo.
Non ho idea di che personaggio voglia interpretare: devo confessare che non so un cazzo di manga. E neanche me ne frega di saperlo. Quello che mi interessa è la ragazza.
Per qualche minuto fisso la strada scura, fradicia di pioggia. È troppo buio adesso per vederla bene, la mia bambola di stanotte, ma me la sono studiata a dovere prima al padiglione. Minigonna, cosce al vento, camiciola aperta sul push-up che rigonfia le deliziose tettine da adolescente.
Sempre così, tutti gli anni. Tutte queste ragazze in costume che arrivano a Lucca per fare il cosplay, travestite da personaggi più o meno noti dei fumetti. Tutte senza prenotazione in albergo, che non sanno dove andare a dormire. Lucca Comics — che a quanto ne so dovrebbe essere tuttora la più grande fiera del fumetto in Italia e una delle più grandi d’Europa — le attira come mosche al miele.
La maggior parte di loro ha le sembianze di personaggi che proprio ignoro chi siano.
Sarà che — oltre che autore di fumetti — sono un lettore di fumetti, cresciuto però ai tempi di Bonelli & Galleppini, Angela & Luciana Giussani, Guido Nolitta, Hugo Pratt, Alfredo Castelli, Bonvi, Gomboli & Mattioli, Magnus & Bunker… e poi ancora la Marvel e la DC Comics (che nulla aveva a che fare con la DC al potere se non, ironia della sorte, l’acronimo). Per non parlare delle ristampe dell’Uomo Mascherato o di Mandrake… che però, avendo io studiato l’inglese, mi è sempre venuto da chiamare mendréik quando tutti lo pronunciavano ancora mandràche. In un modo o nell’altro si finisce sempre per essere diversi da chi è arrivato prima e da chi arriva dopo.
Tipo questa qui. Me la sono guardata bene, oh sì, al padiglione. Un culo che me lo mangerei a morsi. Curioso che mi vengano in mente idee del genere: certe pratiche mi sono aliene, eppure a volte mi sorprendo a pensare cose che non mi sognerei mai di mettere in pratica.
Dato il suo costume manga, nemmeno la piccola cosplayer non deve avere la minima idea di chi io sia veramente. Certo, dallo stand si capiva che io sono il creatore, sceneggiatore e illustratore di Gunslinger, ma quando la serie è uscita in edicola lei non era ancora nata. E anche se ora le raccolte in volume sono opere di culto in libreria e fumetteria, è poco probabile che questa ragazza se le vada a comprare. Non saprà nulla della mia lunga carriera di fumettista in Italia e di illustratore anche all’estero; l’unica cosa che avrà capito è che conto qualcosa nell’ambiente dei comics. A modo mio, sono una star. C’è gente che si mette in coda allo stand della casa editrice per chiedermi uno schizzo autografato di Gunslinger o di uno dei suoi comprimari. Passano ore in attesa e si presentano con la lingua penzoloni e gli occhi da hovistolamadonna.
Deve averli notati anche lei. Ha capito che sono uno importante. Dev’essere per questo che poi, quando ho lasciato lo stand liberandomi finalmente dei questuanti, mi si è avvicinata. Non ho neanche avuto bisogno di farlo io. Scambiate due chiacchiere, ho saputo che non sapeva dove passare la notte e mi sono offerto di ospitarla. Poverina. Non potrebbe essere più perfetta di così, con il suo zainetto e il suo vestitino manga da costume player. E con quella minigonna che lascia trasparire mutandine bianche e sottili.
So già come andrà. Gliele farò scivolare tra le grandi labbra perché si impregnino a dovere dei suoi umori; poi le metterò in una scatola sigillata che ne conservi il profumo.
L’aprirò solo di tanto in tanto, per respirarlo e ricordarla. Lo faccio con tutte. Certe scatole sono lì da anni, ma se le riapro sento ancora lo stesso aroma, come se loro fossero ancora lì, come se non se ne fossero mai andate.
Riesco a riconoscerle perfettamente all’olfatto, non ho neppure bisogno di etichettare i contenitori: ognuna ha il suo odore caratteristico. E ogni odore porta con sé i ricordi della notte che abbiamo passato insieme.
È stata una grande idea quella di comprarmi questa vecchia casa di campagna fuori Lucca. Tranquilla, solitaria, con tanto di giardino e orticello. Il posto ideale per lavorare in pace. E per portarci le ragazze.
Imbocco il vialetto e lo seguo fin quasi alla porta di casa.
«Siamo arrivati» le annuncio.
Apro la portiera, scendo, lei mi imita.
Sta ancora diluviando. Lei corre al riparo sotto il portico, mettendo i piedi in una pozzanghera che le schizza di acqua marroncina le scarpe da ginnastica e i calzettoni bianchi.
Si stringe le braccia al seno infreddolita. Alla luce della lampadina sopra la porta, mentre mi frugo in tasca in cerca delle chiavi, le guardo le gambe nude, solide, lunghe. Apro la porta, allungo una mano per accendere la luce e la lascio entrare per prima.
«Benvenuta nella mia umile dimora» le dico, sentendomi un po’ il conte Dracula.
«Fa caldo, qui» nota lei con sollievo.
«Ho lasciato acceso il riscaldamento» rispondo mentre la conduco in salotto.
Lei mette lo zaino a terra, si guarda in giro.
«Posso togliermi le scarpe?»
«Certo.»
Si inginocchia dandomi una bella prospettiva delle cosce e scioglie i lacci delle scarpe. Poi ci pensa un attimo e si sfila anche i calzettoni. Si rialza, fa due passi a piedi nudi sul tappeto e guarda gli oggetti in esposizione sui mobili.
«Cosa sono?»
Sorrido.
«La mia collezione di lame orientali.»
Se avesse letto la mia miniserie La pantera di Sarawak le potrebbe riconoscere tutte: kriss, golok, karambit, parang… Inutile che gliele elenchi.
Passo al pezzo forte della collezione. Sollevo la katana dal supporto, la sfilo dal fodero e gliela mostro, facendo scintillare l’acciaio alla luce. Il tempo sembra fermarsi per un istante.
Ma non voglio spaventarla. Rimetto a posto la spada.
«Vieni, ti faccio vedere la casa. E la tua stanza per stanotte.»
Lei raccoglie zaino, scarpe e calzettoni e mi segue.
Le faccio vedere il mio studio, con il tavolo da disegno, la scrivania e la libreria traboccante di volumi, su cui si trovano le riproduzioni in metallo di armi da fuoco dell’Ottocento. Poi la porto al piano di sopra.
Sulla parete della scala sono appesi, incorniciati, gli originali di alcune tavole realizzate per le copertine dell’edizione francese di Gunslinger. Per i collezionisti potrebbero valere centinaia di migliaia di euro. Ma le illustrazioni che preferisco non sono mai state pubblicate, le vedo solo io.
Sono nella mia stanza speciale, quella che stanotte riserverò a lei.
Apro la porta. Qui alle pareti ci sono loro, le mie ragazze, le mie cosplayer che ho ritratto nude e distese proprio su questo letto, dopo la nostra unica notte. Le riguardo ed è come se fossero ancora qui, i miei teneri, piccoli angeli.
Lei ha deposto a terra lo zaino e lasciato cadere scarpe e calzettoni. Si è seduta sul bordo del letto.
Mi inginocchio sul pavimento davanti a lei e le prendo un piede tra le mani. È freddo.
Glielo bacio. Non sono un feticista dei piedi: per me sono solo la porta che conduce ai polpacci, alle cosce e a ciò che vi si trova in mezzo.
La sorgente del profumo.
Le sue dita hanno già preso a muoversi come fossero zampe di ragno. Ho imparato a non crearmi false speranze, a non illudermi, quando un uomo comincia a baciarmi dai piedi: a meno che non abbia qualche inclinazione feticista, prima o poi risale… Può farlo d’impeto o con pigrizia, ma prima o poi arriva là dove si è prefissato di arrivare.
Meglio che lo faccia subito, allora.
Incoraggio i suoi movimenti, non abbiamo bisogno di attese. Trascino la sua mano verso l’alto, verso il ventre, ed ecco le sue dita manifestare un’urgenza lasciva, suggerimento di rapace bramosia.
Voglio essere io a condurre, questa volta come tutte le altre.
Ho