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Codice a bare
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E-book211 pagine2 ore

Codice a bare

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Info su questo ebook

Un serial killer che sviene alla vista del sangue e una poliziotta psicopatica sono i protagonisti di Codice a bare, un romanzo che fa scontrare un futuro e un futuro remoto. Mondi aspri, ruvidi, distopici, dove per gli assassini i Comuni dispongono cassonetti per differenziare i rifiuti umani, dove esistono scuole per formare i mendicanti di domani, dove i morti sono deviventi coscienti della propria decomposizione, dove la prima causa di morte sono i serial killer, dove la bellezza è stata classificata e brevettata da un chirurgo plastico venerato quale divinità, dove i cortei di protesta si fanno in solitudine e dove coniugi e figli vengono scambiati via internet, tramite le periferiche di TeletrasPorco.
LinguaItaliano
Data di uscita16 lug 2018
ISBN9788827840306
Codice a bare

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    Anteprima del libro

    Codice a bare - Andros

    Bara 1: prologo e miagolo

    Dalla bara di Eugenio Incompreso

    Eh sì, è proprio così che è iniziato tutto, ci crederesti?

    No? Ah, scusa, pensavo tu avessi sbirciato le pagine successive, io lo facevo sempre prima di iniziare a leggere un libro. Va beh, allora ti racconto dall’inizio: io sono Eugenio Incompreso, o meglio, lo ero da vivo; ormai non mi serve avere un nome, come non mi servono tante altre cose. Ora che sono nel mondo dei più, ho bisogno di meno. Sai com’è, come tutti i vivi mi circondavo di cose inutili: non solo oggetti, anzi, soprattutto desideri, aspirazioni, sogni, paure, emozioni rubate a un immaginario collettivo che scalza ogni immaginazione. Ero come una fotografia che voleva farsi video. Da vivo tutto sembrava così terribilmente importante, così incombente; adesso so che la teoria dell’antigravità è giusta: non c’è niente di serio, niente di grave in questo universo, solo un cosmo di sciocchezze spaziali.

    In quel periodo ero vivo: in quel principio di giorno, che sembrava come tanti altri, ero poco più che un ragazzino.

    È da così tanto non-tempo che sono morto che non sono sicuro di ricordare tutto con precisione: sai, quello che stai leggendo nel tuo presente per te è futuro, ma quello che sto raccontando dal mio presente per me è passato da un pezzo.

    Ricordo l'alba, ovattata d'inquinamento omnipolitano, asfaltarsi sul suo manto maculato da specchi d’acqua del lavaggio stradale: Amantui si stava svegliando.

    Una solitaria city car diarrea metallizzata si muoveva stancamente sulle pattine lungo viale Fanta, angolo corso Pepsi; timide finestrate di sole ridavano giorno alla città tumida di notte.

    La purgativa quattroruote seguitava a pattinare seguita da quattr’occhi: quelli miei e quelli di Sirena; le cateratte dell'amore la facevano sembrare bella, addirittura astringente.

    Solo da un anno eravamo riusciti a confessarci l’amore che pensavamo di provare da sempre e solo da tre giorni condividevamo tutto sotto lo stesso tetto. Dopo due notti d'amore fatto di sesso, avevamo speso la terza nelle strade di Amantui a respirarne i piemmedieci. Ci pensi, che bello? Due ragazzi in giro tutta notte per festeggiare i primi giorni di convivenza, mentre l’omnipoli fremeva di scambisti online intenti a peertopeerare mariti, mogli e figli grazie alle neonate periferiche di TeletrasPorco.

    Una fragile pioggia cominciava a battezzarci, facendo da madrina alla nostra unione.

    Incassato in un segnale di rimozione forzata di passanti, un televisore dallo schermo coperto di sputi, sperma e parolacce piene di errori, diffondeva la replica di un chiacchiericcio mal sintonizzato.

    *… Così, dieci anni fa, sua madre muore, ed è da allora che Savio non l'ha più vista… ma stasera, sua madre è QUIIIII!*

    *Che emozione incredibile: ecco Savio che va incontro alle spoglie della madre, da noi riesumata proprio stamattina, e, dimentico di vermi e terriccio, la stringe in un abbraccio amoroso.*

    *Sono momenti indimenticabili: quasi mi vengono le lacrime all'audience e un groppo allo share…*

    *Questo programma è stato offerto da nonsochilifamaioliaccoppio.com, il più grande sito d’incontri caduto nella rete. Da noi c’è la risposta alla tua solitudine: abbiamo sadici per masochisti, cannibali per obesi, assassini per aspiranti suicidi, statue per pigmalioni e anoressiche per stilisti…*

    Doppiammo il corpo senza speranza di un mendicante morto di inedia da qualche settimana, neanche il suo rancido fetore riuscì a sciogliere i sorrisi congelati sui nostri volti. Ci dirigemmo verso il Taj Mahal.

    I piemmedieci si mozzarono nei nostri alveoli alla vista del panorama, proprio lì, tra il Colosseo e la Sfinge con il complesso delle tre piramidi; proprio lì, Sirena sentì un lamento.

    «È il mio stomaco che brontola» le dissi.

    «Stupido!» rispose Sirena ridendo. «Dev’essere un animale.»

    «Appunto, sono io.»

    «Smettila! Da dove viene?»

    «Ma soprattutto: chi è? Dove va? Arrenditi: sono domande rimaste inevase per millenni…»

    «Sei proprio un pagliaccio!» e mi baciò, abbracciandomi con una forza che non avrei mai sospettato. «Lo senti? Di nuovo.»

    «Sembrerebbe un miagolio.»

    «Ma sì… eccolo Eugenio, è un micetto. Com'è piccolino.»

    «È solo sporco, oppure è tutto nero?»

    «Guarda, è ferito, perde sangue.»

    Non feci in tempo a ritrarre la testa: ne avevo già visto il rosso. Quel nanosecondo bastò a causarmi conati di vomito.

    Ah già, non ti ho ancora detto che ero emofobo; ebbene sì, lo ero sin da piccolo: la vista di una sola goccia di sangue poteva causarmi bradicardia, capogiri, tremori, nausea e portarmi allo svenimento. Anche mio padre aveva sofferto di emofobia e, sai come si dice: buon sangue non mente.

    «Scusa amore, dimenticavo…» disse Sirena prendendo il cucciolo con delicatezza. «Sono solo poche gocce. Ecco, l'ho ripulito. Ma è femminuccia! Guardala, che tenera, sta tremando di paura, o forse di fame.»

    Sirena mi fissò, mentre continuavo a combattere con la nausea; una precisa richiesta le volteggiava negli occhi: capii al volo.

    Esitai un attimo, sospirai e dissi: «Va bene, la porteremo con noi. Se nei nostri venti metri quadri riusciamo a vivere in due, possiamo starci anche in due e un quarto.»

    Fin qui niente di strano, dirai; in effetti, hai ragione.

    Ma senti un po’ cosa successe un anno dopo, mentre mi dopavo di tele.

    *Superspino! Il nuovissimo robot falciaerba che risolverà tutti i problemi del vostro prato… e anche i vostri! Superspino è l'unico falciaerba robotizzato che non si limita a tagliare l'erba: la rolla e ve la porge in eleganti canne pronte per l'uso! Ricordate: con Superspino, l'erba più verde sarà la vostra, non quella del vicino!

    Cosa aspettate, amici? Chiamate subito per avere a un prezzo speciale il vostro Superspino, nella versione normale oppure in quella deluxe, che oltre l'erba taglia anche l'eroina…*

    «Stai buona, Gattabuia… cos'hai stasera? Sei così agitata.»

    Sprofondato nel divanolettoacastello, trasandato e intontito dallo Xemex da almeno una settimana, la contropelavo a suon di carezze.

    Gattabuia scese scarmigliata dal mio stomaco e si fermò a due zampate dal televisore, proprio sul telecomando, che cambiò canale.

    *Violento blitz della polizia a casa di un nostro collega, inviato del TG-rano; nei suoi armadi gli inquirenti hanno scoperto i resti di alcune donne non ancora identificate, mentre in cucina giaceva il corpo senza vita di Sirena Benvari, la famosa cantante della quale da otto giorni si erano perse le tracce.*

    Scattai in piedi nonostante l'ebbrezza; le labbra frementi, come sul punto di dire qualcosa. Improvvisamente il mondo, il mio mondo, quello che io rappresentavo e di cui ero l’indiscusso dio, aveva perso ogni colore. Una semplice notizia, sparata tra un jingle ossessivo e una nullafacente scosciata, aveva sancito la morte della donna che amavo e di quella parte di me che lei occupava, lasciandola vuota come un palinsesto.

    Capisci? Non si trattava di uno dei tanti cadaveri smerciati un tanto a scaletta, da guardare con morboso disinteresse tra un antipasto e un rutto digestivo: stavolta era toccata a Sirena la parte della povera vittima. Stavolta toccava a me piangere della morte che andava in scena; il mondo esterno, fatto di tanti altri mondi come il mio, mi stava strattonando, costringendomi a prendere atto della sua esistenza.

    *Massimo Ardore, sospettato senza motivo degli omicidi e maltrattato dalla polizia, aveva intervistato Sirena, l'ultima vittima, proprio pochi giorni prima della sparizione. Le impronte digitali e dei denti rinvenute sui cadaveri sarebbero compatibili con quelle del nostro collega, che si dichiara innocente…*

    Franai sulle ginocchia e abbracciai il televisore, biascicando tra silenziose lacrime: «Avevi ragione, avevi ragione tu. Perché? Perché? Avevi ragione…»

    Gattabuia, con la testa inclinata, osservava, forse la tv, forse il mio dolore; il suo muso sembrava esprimere comprensione.

    *… Sirena è stata quindi violentata a più riprese, anche con vari oggetti ritrovati sulla scena del crimine, e seviziata a lungo con un saldatore, un ferro da stiro, una levigatrice, un trinciapolli e una limetta per le unghie. La sua agonia è durata almeno tre giorni, prima che la morte la preservasse da ulteriori ingiurie. Vi ricordiamo che questa notizia è sponsorizzata da: Manson, il coltello per chi sbudella.*

    Bara 2: nell'orbita del critico

    Dalla bara di Franca Dinome

    Uff, che fastidio… questa bara è di uno scomodo… mi cade proprio male…

    Oh, è già qui? Mi scusi, stavo cercando una posizione più agevole alla protervia delle mie ossa. Dov’era rimasto Eugenio? Ah sì, al coltello per sventratori, non è vero?

    Beh, lei non può neanche immaginare tutto quello che è successo in seguito.

    In realtà non posso immaginarlo neanche io, visto che ho conosciuto Eugenio solo diciannove anni dopo; permette che mi presenti? Ero Franca Dinome, uno dei maggiori critici d’arte di tutti i tempi, una vera artista nel mio campo, in grado di rompere gli schemi dell’arte ponendomi come avanguardia concettuale della grammatica artistica, non è vero?

    Basta, non perdiamoci in chiacchiere, facciamo un bel salto in avanti, altrimenti questo romanzo finiranno di leggerlo i suoi nipoti.

    Dunque, diciannove anni dopo, io scappavo; al collo la cintura che Eugenio mi aveva messo nel maldestro tentativo di strangolarmi.

    Eugenio mi inseguiva; al callo del piede destro lancinanti fitte: avevo provato a perforarglielo con un tacco a spillo da tappa model.

    Giravamo a rotta di callo per tutta la casa già da qualche minuto, quando inciampai in Graffidia, il mio splendido gatto, e caddi. Il pomello dell'armadio andò a impigliarsi nella cintura, che si strinse con un colpo secco. Il mio collo si spezzò, l'occhio sinistro schizzò fuori dall'orbita e rotolò sul pavimento della camera da letto imbrattandolo di sangue.

    Questa sintomaticità topica non mi diede granché fastidio, ormai ero morta e quindi scarsamente interessata al destino del mio bulbo oculare, ma causò a Eugenio un violento conato; corse a svuotarsi nel bagno preso da forti capogiri.

    Purtroppo non fece in tempo: si rovesciò addosso quello che restava del cauto pranzo consumato poco prima.

    Eugenio era diventato un uomo del quale, dopo la tragedia, si sarebbe detto: Ma come: una così brava persona!

    Eugenio era diventato un serial killer.

    Com’è potuto succedere? Eh, un attimo, che fretta c’è? Ha tutto il libro davanti; e poi, non dovrebbe chiederlo a me, ma a Eugenio, non è vero? In fondo, io ho avuto il dispiacere di avere a che fare con lui solo il giorno in cui l’ho trovato in casa con l’intenzione di uccidermi. Chissà poi perché: non gli avevo fatto proprio nulla di male, non è vero?

    «Sacra mentula, non ne posso più» mormorò Eugenio cercando di capire come mai, pur partendo con l'idea di uccidere a secco, finisse sempre col trovarsi in un bagno di sangue.

    Si stava riprendendo, la vista di Graffidia che giocherellava col mio splendido occhio ceruleo gli fece contorcere la bocca, ma nulla più.

    Ora però aveva un problema: non poteva certo uscire dalla mia casa indossando i resti maldigeriti di un’impepata di cozze dal nauseabondo afrore, non è vero? Così, si spogliò e mise i vestiti in una busta di plastica presa in cucina, poi tornò nella camera da letto e curiosò in giro, guardando le informi tele informali appese ai muri e armeggiando con libri e cataloghi d'arte; guardi, si vedeva lontano un miglio che non capiva nulla di arte, bah, stendiamo una tela pietosa…

    Tra i tanti libri mai aperti, c’erano anche i miei splendidi scritti; ah, quanti ricordi, quanti rimpianti, quasi mi commuoverei se avessi gli occhi per piangere. In anni e anni di disonorato lavoro, avevo delirato a caro prezzo imbastendo presentazioni criptiche e fumose per esposizioni schifose, il tutto a spese di artisti mai stimati. Se non è arte questa… non è vero? Eh sì, la mia è stata proprio una vita ben spesa, non cambierei nulla di quello che ho fatto… o forse sì, forse una cosa la cambierei: sorriderei di più. È strano, ma ho riso e sorriso più da morta che da viva; la continua infedeltà nella immobilità cadaverica del mio espressionismo facciale era l’emblema stesso della mia forza sorgiva. Se penso a tutte le mie allieve del corso di storia dell’arte, per le quali ero un esempio vincente da seguire, o forse solo una professoressa da lecchinare; la donna di successo, la femmina con le palle. Le solite idiozie da viventi; una femmina con le palle è un fenomeno da baraccone e una donna è di successo quando lo raggiunge restando donna.

    Quante di loro hanno smesso di sorridere, sperando così di emulare anche la mia ascesa all’Olimpo dell’arte. Non potevano sapere che, per ottenere quello, c’era ben altro da sopprimere che il solo sorriso; si sono spente senza ottenere nulla, povere ingenue.

    Forse non sono stata un buon esempio; ma in fondo non mi è mai interessato esserlo. Però, sì, se tornassi indietro sorriderei di più, i sorrisi sono splendidi, fanno star bene noi e gli altri: e se fai star bene qualcuno, è più facile approfittare di lui, non è vero?

    Bah, è meglio tornare al mio assassinio.

    Eugenio iniziò a frugare negli armadi alla ricerca di abiti maschili; ma non ne trovò.

    «La vita sociale dei critici d'arte lascia molto a desiderare…» disse sconsolato.

    «Beh, in fondo la cosa non mi meraviglia… chi vorrebbe accompagnarsi con uno di loro?»

    Quell’ignorante scostumato non poteva certo sapere che io, Franca Dinome, noto e all’apparenza stimato curatore, ero segretamente omosessuale.

    L'aria raggelò di colpo quando il campanello suonò con violenza. Dopo pochi ma espansi secondi vi fu un altro squillo, che sembrò rimbalzare di crosta in crosta per un tempo infinito; poi, l'inconfondibile rumore di una chiave che entra nella toppa e inizia a girare, scosse Eugenio dai sudori freddi. La trasfigurazione cromatica del suo volto tradiva una decolorazione da ansia terrifica; corse verso il bagno e, slittando sugli schizzi del proprio vomito, vi entrò giusto in tempo per non farsi vedere dall’ignoto intruso.

    «Siniora?» disse una voce femminile. «Siniora Dinomme?» ripeté nell'idioma distorto caratteristico di chi è nato in Vattelapesca ai confini con Chissàdove.

    «Cie nesuno in cassa?»

    Era quella extraterrona della mia donna delle pulizie.

    «Sono finito!» esclamò Eugenio sudando stalattiti. «Chiuso in una toilette piena di vomito, ridotto in mutanga e calzini, con un gatto che gioca con un occhio azzurro, un cadavere in camera da letto e un’extraterrona che tra pochi secondi attaccherà a urlare frasi in una lingua sconosciuta e con ogni probabilità morta anch'essa… Già me la immagino, raccontare alla

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