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La sorte
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E-book201 pagine2 ore

La sorte

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Letteratura - racconti (155 pagine) - Non c’è spazio per una Sicilia da cartolina, tutta monumenti e natura incontaminata, in questi otto racconti crudi, graffianti e di sorprendente modernità in cui De Roberto mette tutto il suo impegno per rappresentare la società come un coacervo di rivalità, invidie, sopraffazioni e cattivi sentimenti.


Se esistesse uno strumento simile al metaldetector, ma capace di rilevare la bontà d’animo e l’ottimismo resterebbe di certo muto scandagliando questi otto spietati racconti, dove nemmeno un personaggio può dirsi davvero puro fino al midollo. De Roberto rovescia in questa raccolta tutto il suo pessimismo e la sua scarsa fiducia verso il prossimo. Come impongono le regole veriste, nessun commento accompagna la narrazione, ma per il lettore non è arduo desumere dalle trame e dai folgoranti dialoghi una prospettiva smaccatamente sfiduciata e a tratti quasi funerea, anche nell’ironia di sottofondo. Nelle pagine si dipana una specie di campionario delle nevrosi che colpiscono indiscriminatamente giovani e vecchi, ricchi e poveri, maschi e femmine, perché il male sa pervadere ogni cosa e insinuarsi anche negli anfratti più occultati. Lo stile è vigoroso, salace, privo di orpelli e alcune descrizioni fanno chiudere istintivamente il libro, in modo da avere le mani libere per applaudire l’autore. Qualcuno suggerirebbe come luogo ideale per leggere questi racconti un vagone poco affollato di un treno o una comoda poltrona affacciata su di un bel panorama, io penso invece che siano adatti anche alla spiaggia… chi ha stabilito che sotto l’ombrellone si debbano leggere sono sciocchezzuole e rotocalchi scandalistici?


Federico De Roberto (Napoli, 1861 – Catania, 1927), nato nella città partenopea da genitori siciliani, dopo la morte del padre tornò a Catania con il fratello e la madre, alla quale fu legato da un rapporto morboso che lo condizionò per l’intera esistenza. Lasciati gli studi scientifici ai quali era stato avviato dalla famiglia, si appassionò alla letteratura, cominciando a collaborare con riviste ed editori catanesi. La vera svolta avvenne però quando si traferì a Milano verso la fine degli anni Ottanta: nella città meneghina strinse forti legami con i suoi conterranei Verga e Capuana (“convertendosi” così al verismo) e con autori scapigliati e collaborò con prestigiose testate come il Corriere della Sera. Cedendo alle pressioni della madre, rientrò a Catania, dove rimase per tutto il resto della vita, se si esclude qualche viaggio e un soggiorno di circa un anno a Roma. Scrisse articoli letterari, poesie, opere teatrali, raccolte di racconti (La sorte, 1887 e 1891; Documenti umani, 1888; Processi verbali, 1890) e romanzi (L’illusione, 1891; Ermanno Reali, 1889; L’Imperio, 1929), tra i quali spicca I Viceré (1894), il suo indiscusso capolavoro, bistrattato dalla critica alla sua uscita e rivalutato decenni dopo.

LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2021
ISBN9788825416930
La sorte
Autore

Federico De Roberto

Italian writer, 1861-1927

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    Anteprima del libro

    La sorte - Federico De Roberto

    Introduzione

    Milena Contini

    L’edizione de La sorte che ho deciso di riproporre (1891), integrata e ampliata rispetto alla precedente pubblicazione del 1887, vede la sua comparsa a Milano, dove De Roberto si era trasferito da qualche tempo e dove rimarrà fino al 1897, ma nessuno si aspetti il profumo del risotto allo zafferano e la nebbia sui Navigli, perché in questi otto racconti si respira un’autentica aria di Sicilia dalla prima sillaba all’ultima. Federico De Roberto (Napoli, 1861 – Catania, 1927), elemento più giovane della triade verista insieme a Verga e Capuana, in questa raccolta applica alla lettera il principio dell’impersonalità teorizzato dai suoi due compaesani, restituendoci un’atmosfera in cui lo splendore della natura e dei borghi è immancabilmente contaminato dalle miserie umane. Nemmeno uno spiraglio di ottimismo riesce a farsi strada in queste novelle dure e sincere, dove non c’è spazio per la minima edulcorazione e dove l’eufemismo è sempre fuorilegge. Qualcuno potrebbe pensare al pessimismo cosmico dell’ultimo Leopardi (morto a Napoli, pur essendo marchigiano, ventiquattro anni prima che vi nascesse De Roberto, anch’egli non autoctono, perché discendente da una famiglia con pedigree siciliano), ma forse è un’esagerazione: lo sguardo fosco e al contempo tagliente dell’autore, infatti, non ha ancora raggiunto le vette di nichilismo delle opere successive, prima fra tutte I Viceré (1894), romanzo malamente accolto alla sua uscita (e riscoperto quando ormai il suo creatore riposava, ci auguriamo in pace, da alcuni decenni), gettando De Roberto nello sconforto più nero.

    Pur non trovandoci tra le mani racconti leggiadri e rassicuranti, l’ironia sottile dello scrittore, vero fuoriclasse dell’introspezione psicologica dei protagonisti come dei comprimari, riesce a rendere ugualmente piacevole e appassionante la lettura di quest’opera. Una pagina dietro l’altra sembra che i buoni sentimenti siano solo un’allucinazione nel deserto dell’esistenza: tutti, dal pezzente al marchese, appaiono corrosi dall’avidità, dall’invidia, dall’insoddisfazione, dalla noia che conduce inevitabilmente alla perdizione, alla bottiglia e ad altre dipendenze. Gli unici a salvarsi (non sempre, a dire il vero) sono i bambini che però vengono rappresentati come piccoli apprendisti del male: i più precoci riescono a insozzare subito le loro anime pure con il vizio, gli altri necessitano di qualche allenamento supplementare per scivolare tra le braccia del peccato, ma alla fine riescono tutti a giungere all’età adulta con un nutrito bagaglio di magagne e malcostumi.

    Del resto lo stesso De Roberto non poteva certo definirsi un uomo sano e in pace con se stesso: per tutta la vita aveva combattuto con seri disturbi nervosi, acuitisi a causa dell’inanellarsi di insuccessi letterari e del rapporto morboso con la madre, dalla quale era tornato nel 1897 (cedendo alle insistenze reiterate della donna, patologicamente ipercontrollante nei confronti di figlio ormai adulto che cercava di ricondurre a sé usando, mi si perdoni l’immagine al limite dello splatter, il cordone ombelicale mai reciso come lazzo), rinunciando alla vita brillante e stimolante condotta a Milano insieme a intellettuali suoi conterranei e indigeni, come gli scapigliati. L’attaccamento maniacale alla madre non era scemato negli anni, anzi era cresciuto di pari passo con l’autoisolamento che De Roberto si era imposto per sottrarsi a un ambiente letterario foriero di scottanti delusioni: prova di questa abnorme dipendenza dalle gonne di mammà è il fatto che dopo la scomparsa della donna, il figlio, devastato dalla perdita (nonostante Marianna Asmundo fosse parecchio anziana e malata da tempo) non le sopravvisse che qualche mese. Elargisco queste informazioni biografiche non tanto per raffigurare il nostro autore come un mammone complessato, ma per evidenziare come l’esperienza diretta dei disturbi psicologici abbia giocato un ruolo fondamentale sia nella scelta di prediligere come soggetto d’analisi letteraria la faccia guasta della società sia nella formidabile capacità introspettiva dell’autore (che 'ntender no la può chi no la prova, direbbe Dante).

    Negli otto racconti De Roberto dà il meglio di sé dal punto vista dello stile, dimostrandosi eccezionale tanto nella descrizione degli stati d’animo (i personaggi che si avvicendano sono vittime di nevrosi assortite: ipocondria, rabbia morbifera, megalomania, narcisismo, ecc.) quanto nelle raffigurazioni corali. Indimenticabili alcuni passaggi nei quali lo sciame umano sembra proiettarsi fuori dal libro: La folla continuava a gironzare; la gente stanca si buttava per terra, sugli scalini della chiesa, sbadigliando; i bambini dormivano con le teste dondolanti sulle spalle delle mamme, e un ragazzo smarrito piangeva fra le gambe della gente. E De Roberto si conferma grande penna anche in descrizioni più crude e quasi poliziesche che non ci aspetteremmo in una raccolta paesano-rusticane: Fra la soglia e il letto, di traverso, giaceva il corpo esangue, con la camicia aperta, il collo tagliato da due ferite larghe come bocche spalancate, e un rasoio accanto alla destra, sul pavimento insanguinato (l’immagine delle lesioni paragonate a fauci allargate conferma che il futurismo ha pescato a piene mani dal verismo, come Marinetti ha per altro sempre urlato). Nelle novelle, indipendenti tra loro ma allo stesso tempo collegate attraverso personaggi che ritornano, De Roberto insiste su alcuni temi come la misoginia (tante, troppe sono le donnacce, chiamate dal narratore impersonale ciabatte e male femmine, proprio come nel celeberrimo film di Totò, che rovinano emotivamente ed economicamente poveri maschi sprovveduti), l’attaccamento alla roba (e qui si vede palesemente l’impronta di Verga, vero maestro di De Roberto), la religiosità superficiale e superstiziosa, i tradimenti incrociati, il pettegolezzo maligno come unica forma di comunicazione, le sentenze popolari che sembrano funzionare solo nella declinazione negativa (un personaggio commenta: Il matrimonio della fame coll'appetito!, strizzando così l’occhio al malesuada fames dell’Eneide virgiliana).

    Un racconto che colpisce in modo particolare il pubblico moderno è sicuramente quello d’esordio, La disdetta, nel quale De Roberto scandaglia l’abisso della piaga sociale che oggi chiameremmo ludopatia: protagonista della narrazione è una nobildonna sull’orlo della bancarotta a causa della febbre del gioco. La sua dimora è un porto di mare pieno di imbucati e profittatori che cercano invano di colmare un vuoto esistenziale di proporzioni siderali. La principessa di Roccasciano è infatti irrimediabilmente sola, nonostante sia sempre attorniata da persone, e si comporta come una tossica in crisi d’astinenza non appena le sue mani si allontanano dalle carte, oggetti per il quali prova una sorta di attrazione feticistica (anche quando è sola, infatti, le accarezza come fossero un talismano o uno strumento di piacere). Essa riassume in sé tutta la decadenza della propria classe sociale che sembra quasi decomporsi sotto gli occhi degli spettatori come una pietanza luculliana lasciata all’insulto delle intemperie: Alla luce del giorno, i guasti prodotti nella casa della principessa apparivano da ogni parte. Sui divani, sulle poltrone, il grasso delle capellature aveva messo delle macchie nerastre nel rosso cupo, nel giallo, nell'azzurro delle stoffe, i cui piccoli strappi andavano allargandosi, scoprendo qua e là la ruvida tela; i tappeti erano costellati di sputacchiature, cosparsi di mozziconi di sigari calpestati, di fiammiferi spenti, di ogni sorta di residui; le dorature delle porte si discrostavano; le tende cadevano a lembi; le seggiole zoppicavano; nell'anticamera i mattoni rotti, distaccati, risuonavano sotto i passi: una rovina lenta e continua. Dopo un brano così magistrale sarebbe sadico scrivere altro sottraendo al lettore il piacere di immergersi subito nel testo, quindi non mi resta che tacere. Come diceva Plinius Maior Non minus interdum oratorium esse tacere quam dicere.

    Avvertenza

    La presente edizione della Sorte non è una semplice ristampa del volume pubblicato con questo titolo nel 1887. Alle prime sette novelle, ritoccate qua e là, se n'è aggiunta una nuova; e per rendere meglio evidente l'unità d'ispirazione con cui furono scritte, sono state ora tutte collegate in modo da formare come un piccolo ciclo e quasi altrettanti capitoli d'un'opera sola.

    Milano, 30 giugno 1891

    La disdetta

    I.

    La principessa di Roccasciano, sprofondata nella grande poltrona di velluto rosso, con uno scialle avvolto sul petto scarno e una coperta sulle gambe, dopo aver rimescolate lentamente le carte, posò sul tavolo dal tappeto verde il mazzo perché il cavaliere Fornari lo tagliasse, e ricominciò la solita piccola partita con un'esclamazione di profonda sfiducia.

    – È inutile, non ho fortuna!

    – Voi siete incontentabile, zia! – rispose il cavaliere, annusando la presa che teneva ancora fra le dita.

    – Se non ne azzecco neppur una!… Se perdo da una settimana!… Che ne dici di questo tabacco?

    Il cavaliere sospirò fortemente, socchiudendo gli occhi, con una contrazione dei muscoli del viso che finì in uno sternuto:

    – Ec…cellente!… In coscienza, però, voi non potete lamentarvi; l'altr'ieri m'avete vuotate le tasche!

    – Una volta non fa legge!

    Come all'orologio scoccarono le due, la principessa parve in preda ad una inquietudine: guardava tutt'intorno, sbagliava il suo giuoco. Alla scampanellata che risuonò a un tratto:

    – Fanny, chi è? – gridò alla cameriera, impaziente.

    E mentre il cavaliere salutava i nuovi venuti, il marchese Sanfilippo e il padre Agatino, che si disponevano in giro, la principessa pareva sulle spine, accumulava sviste su sviste, di sotto le carte faceva segni d'intelligenza al marchese e al monaco, che rispondevano con altri piccoli cenni, come per dire:

    – Pazienza!

    – Che seccatore!

    Il cavaliere continuava a giuocare, non accorgendosi di niente.

    – Che cos'avete a desinare? – gli domandò il marchese, mandandolo via cogli occhi.

    – Io? Nulla! Un filo di spaghetti al sugo, un merluzzo, due cime d'asparagi, una braciuola, mezzo pollo, un pan di Spagna…

    La principessa adesso stava a sentire, estatica, cogli occhi luccicanti e la bocca socchiusa, dimenticando le carte nell'ammirazione di quello stomaco fenomenale.

    – Come t'invidio! Io non digerisco più!

    – Oh, non è che mangi molto! – disse il cavaliere, alzandosi a stento – Mangio come tutti gli altri galantuomini; soltanto pretendo della roba buona. È così difficile, oggi che ogni lavapiatti si dà l'aria d'un cuoco! C'è più del sugo, che è il sugo? Vi fanno invece una risciacquatura da guadagnarci un'indigestione. Voi sapete come si fa, il sugo? Si piglia la conserva di pomidoro…

    E, avviato sul suo tema favorito, il cavaliere non trovava più il verso di smettere.

    – Basta, per carità! – l'interruppe padre Agatino – Ce lo direte quest'altra volta!

    Appena quello fu andato via e la porta gli si richiuse dietro, la conversazione cessò. Intorno al tappeto verde, con un mucchietto di biglietti dinanzi, gli occhi intenti, le faccie infocate, le mani nervose, quei tre rifacevano i loro conti, ripigliavano la partita interrotta la vigilia, non sapevano più staccarsi dai loro posti. Ma l'uscio di casa Roccasciano non stava mai chiuso dieci minuti di seguito, e ad ogni scampanellata i giuocatori sospendevano la partita, guardando la porta, inquieti. Fanny, la cameriera, non annunziava nessuno, badando a pettinarsi, a lisciarsi, o a scherzare col servitore, col cuoco, con Agostino Giarrusso, il contabile; e la gente, certe volte, andava via stanca di suonare, credendo che la casa fosse deserta. Don Ferdinando, duca di Santa Cita, il cugino della principessa che veniva ogni giorno a desinare da lei dopo che il giuoco lo aveva ridotto povero in canna, scampanellava talmente forte ed a lungo, che tutti i servi correvano ad aprirgli; ma i giuocatori non si prendevano soggezione di lui. Lacero, unto, egli si metteva vicino alla cugina, e gli occhietti grigi gli si accendevano nella faccia scarna, covando i denari, seguendoli ardentemente nel loro peregrinare pel tavolo, dimenticando perfino la sua fame.

    Nessuno diceva una parola, da principio. In capo a un quarto d'ora la principessa perdeva la testa, non distingueva più le carte, vedeva partire l'uno dopo l'altro i biglietti che teneva davanti; padre Agatino diventava livido, convulso; il marchese si abbatteva, accusava un forte dolor di capo, tentava di spegnere a furia di grandi bicchieri d'acqua con anice l'arsura che lo tormentava.

    Poi cominciavano a lamentarsi, tutti allo stesso modo, di perdere, di perder sempre.

    – Questo si chiama spogliar la gente! – esclamava padre Agatino, irritatissimo.

    – Dite a me? Non vi basta di portarmi via ogni cosa? Ancora un poco e dichiaro fallimento.

    – Se fallirete, è colpa della vostra testa bislacca!

    – E la vostra farina il diavolo la fa andare in crusca!

    Gli animi si esasperavano; il marchese accusava padre Agatino di rovinarsi con donna Rosalia, la sua ganza; questi metteva in ridicolo la smania delle speculazioni con le quali il marchese minava la sua fortuna.

    – Quanto avete guadagnato coi famosi agrumi?

    – Gli agrumi sono per terra; ora ho aperta una fabbrica d'agro cotto.

    – E domandate dove sono le vostre vincite? La fabbrica se le mangia, col resto.

    – E donna Rosalia vi ridurrà in camicia!…

    – Ma dunque, son'io che vinco? – chiedeva malinconicamente la principessa. – Da un mese non vedo una carta!

    Nondimeno continuavano, fino a sera, al lume delle candele, senza decidersi a smettere.

    – Gli ultimi tre giri? – proponeva di tanto in tanto la principessa.

    – Gli ultimi.

    Finiti quelli, si guardavano in faccia.

    – Un altro?

    – Un altro.

    Così, ogni giorno la principessa andava a desinare un poco più tardi. La sua tavola era sempre apparecchiata con molti posti; ella aveva spesso dei commensali: ora il cavaliere Fornari, ora il marchese, ora qualche altro.

    – È una cosa disperante, non ho più appetito!

    E si rimpinzava di droghe, di digestivi, mangiava per forza, si levava di tavola più disgustata di prima. Invece il duca di Santa Cita diluviava per due, con un appetito insaziabile; restava a tavola a fare il chilo, allentando le cinghie dei calzoni e del panciotto, pel troppo cibo.

    La principessa andava a buttarsi un istante sul letto, ma non le davano il tempo di pigliar riposo. Appena notte, cominciava a venir gente: una processione continua di persone di ogni genere: vecchi abituati a prendere il caffè da lei e a sonnacchiare sui divani, lunghi sdraiati, con un sigaro spento fra le labbra: intere famiglie che prendevano posto intorno al tavolo del sette e mezzo, o della tombola, o della bassetta, secondo la stagione, o si sparpagliavano per le vaste sale dell'antico palazzo, come in casa propria, disponendo il modo di passar la sera; e poi certe figure enimmatiche, provinciali, forestieri che nessuno sapeva chi fossero, neppure la padrona di casa, la quale intanto stava sulle spine, annoiandosi al giuoco piccolo, andando di tanto in tanto a dare una capatina nella stanza appartata dove il marchese, padre Agatino, il dottor Felicetta e qualche altro facevano la forte partita a primiera.

    – Principessa, non giuocate?

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