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Lascia che le cose accadano
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Lascia che le cose accadano
E-book315 pagine4 ore

Lascia che le cose accadano

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Info su questo ebook

Tin è un bambino che vive in un paese di frontiera. Un rapporto particolare lo lega al nonno e a un segreto terribile che quest’ultimo custodisce. Diventato adulto si appropria del suo nome intero, Martin, e cerca di comprendere meglio la sua identità vagando per le piovose Fiandre e disegnando ciò che lo colpisce. 
Il bambino prima e l’uomo poi sono i protagonisti di questi due racconti che l’autore lega sapientemente in questo libro che evidenzia il contrasto tra normalità e anomalia, salute e malattia, bellezza e squallore, giustizia e immoralità.

Luka Stojnić, artista e docente di arte figurativa, vive e lavora a Essen, in Belgio. 
Scenografo e musicista, ha realizzato numerose mostre personali ᵉ partecipato a molteplici collettive in Italia e all’estero.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2020
ISBN9788830620780
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    Anteprima del libro

    Lascia che le cose accadano - Luka Stojnić

    Ksenija Stojic

    Lascia che le cose accadano

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-2078-0

    I edizione elettronica aprile 2020

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Nota dell’autore

    Nella nota conclusiva al suo ultimo libro Non luogo a procedere (ed. Garzanti), Claudio Magris evidenzia l’importanza dell’invenzione - sottolineando l’inequivocabile funzione che essa ha nel relazionare il vero col falso, il reale con la finzione - al fine di conseguire, trovare, soluzioni per una diversa percezione dei fenomeni che si manifestano nelle loro forme apparenti e tangibili sostanze: avvenimenti e personaggi che la vita, con la nostra storia, fa inesorabilmente scaturire. L’inventare è forse un rimescolamento delle carte in gioco, un riassestamento dei molteplici tasselli di un’immagine complessa, articolata; un interminabile puzzle che invigorisce e pone il senso alla pratica dello scrivere: alla letteratura in genere. Il vero e il falso, dunque: due opposti che si sovrappongono, s’intrecciano, alle volte alimentano l’un l’altro in una convulsa alternanza; un movimento questo, provocato da una forza, dal quale può scaturire un frammento, di diverso spessore, dell’immenso specchio del mondo. Lo scrivere non implica di certo una soluzione ai quesiti che quei fenomeni provocano, e si svincola volentieri dai perché per soffermarsi di più sul come: un presupposto questo che fa nettamente scindere l’arte dalla scienza; la poesia dalla filosofia. L’approssimativo oppure l’esatto? Nascondere o svelare? Esprimere o dimostrare? Le lettere, e quindi le parole, sono dei segni riassettabili; le frasi che esse formano sono ricomponibili, riciclabili: parti di un marchingegno che nella sua complessità nasconde l’esasperata necessità arcaica e così elementare del narrare: quell’istinto primordiale del voler stare comunque insieme (società) e di tramandare qualche cosa (civiltà), lasciare quindi delle tracce o impronte. Da queste riflessioni nasce l’idea di Cronaca, come la forma più remota del racconto, secondo il Treccani. Un riassetto delle facoltà cognitive e un assemblamento di svariati fenomeni nelle loro plurime manifestazioni e probabilità, fecero invece scaturire l’idea dell’aggettivo fenomenali. Inizialmente esisteva pure l’idea di intitolare il libro Fenomeni da cronaca, ma non si addiceva alle premesse che mi ero posto: rapportare il fantastico con il reale. Fenomenale in quanto eccezionale o fantastico; fenomeno in quanto mostrarsi o apparire. Ne scaturirono delle fantasmagorie: una carrellata di immagini che si susseguivano relazionando ciò che si vede a ciò che si immagina.

    I due racconti nascono separatamente, o meglio, Dove vorresti essere viene modificato e quindi annesso al primo racconto-fiaba La miracolosa storia di Tin.

    Come per molte altre cose, il puro caso volle - oppure l’inconscio - che alcuni punti del secondo racconto, nella loro stesura, si andavano a connettere a quello precedentemente già scritto. Intravvidi poi che Martin poteva facilmente risultare come il vero nome di Tin, quest’ultimo ne risulterebbe poi un diminutivo o abbreviazione. Quello era un segno ben preciso, non esitai quindi a proseguire con la stesura di Dove vorresti essere, trasfigurando il personaggio per portarlo quindi, dalla sua infanzia, alla maturità: due condizioni ben diverse in cui una persona si trova.

    La miracolosa storia di Tin, invece, nasce come una fiaba per bambini, scritta in olandese (o meglio neerlandese), come un semplice esercizio linguistico svolto presso l’istituto dove ho studiato la lingua. Iniziando poi a tradurlo in italiano, il racconto si ampliava e cresceva trasformandosi man mano in una storia appropriata più per una lettura da adulti. Non volli però accantonare del tutto l’idea iniziale, perseverai così una scrittura schietta, semplice, scarna, idonea a una fiaba. Il nome di Tin discende da due fonti: da Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, per l’evidente assomiglianza al nome del personaggio principale Pin; nonché dal poeta bohemien croato Tin Ujević.

    Sostanzialmente, Cronache fenomenali matura i suoi presupposti attingendo a due sorgenti: le Fiabe italiane di Italo Calvino – autore già impiegato nel concepimento del nome del personaggio principale; nonché la saga del dottor Faust, dalle letture dei primi Volksbüch tedeschi (basso medioevo), attraverso l’ Historia del 1587 di Spies (menzionato pure nel testo del secondo racconto) fino al Faust di Marlowe, Goethe e Mann: la questione del demoniaco, quindi. Data la condizione attuale di una società asservita a una comunicazione mediatica - quindi tecnologica - nel bene e nel male, ho voluto mettere in risalto l’ordinarietà, quasi la banalità del personaggio principale in questione, facendo di Martin non più un eccelso studioso che vende la propria anima al diavolo per la sua avidità di conoscenza, quanto un uomo comune (l’homunculus di Goethe) che si ritrova a essere banalmente una delle persone più ricche al mondo. Questa sua ricchezza, ahimè, lo condurrà a presentare dei forti sintomi di paramnesia che progredirà, forse, in una forma di schizofrenia. Quindi, nelle Cronache, il demonio viene esorcizzato da una sua rilettura laica e contemporanea, e portato a un livello di malattia, mentale e – o?- sociale: non a caso Martin è soggetto a una forma di dipendenza sessuale e alcolica (il dionisiaco).

    Luka Stojnić

    Prima parte - La miracolosa storia di Tin

    «È con un perpetuo e immenso sforzo che tentiamo disperatamente di eludere il cinghiale, la lepre, la tigre o il cerbiatto che c’è in noi; per renderci alla fine solamente consapevoli di non essere né cinghiali, né lepri, né tigri e tanto meno dei cerbiatti …»

    J.B.

    Una brezza di vento scosta con gentilezza una foglia del gelso che da forse ormai troppi anni fa ombra nel cortile di fronte a questa casa di transito. Al di là di quella foglia, dietro quella piccola parte dell’imponente fronda di albero, si protrae uno spazio collinoso e dolce; gradevole e soave come lo sono pure queste voci: racconti provenienti dall’interno le mura dell’accogliente casa qua di fronte: solamente delle chiacchiere, ciacole forse. L’aria apre sinuosamente il sipario di una scena in parte nascosta da questo tronco nodoso, solcato ormai dal tempo. Quel minuto perimetro di un’area vuota permette all’occhio di guardare oltre, di vedere e sentire il profumo dell’atmosfera che assorbe gli odori tutt’intorno e s’insinua quindi tra le colline di quel luogo là; là oltre. Non muovi l’occhio nemmeno di un millimetro e t’accorgi improvvisamente di essere in un altro posto, lontano, rimanendo pur stranamente consapevole di trovarti in questo luogo qua, ben presente: sei un viaggiatore sedentario dei mondi nascosti, impregnati di un vorace desiderio di venire scoperti; di essere svelati. Volgendo poi un’ulteriore accortezza verso angoli ancora più minuti di questo spazio già di per sé limitato, s’intuisce che c’è pur sempre un qualche cosa al di là di questa minuziosità e limitatezza: un’entità vi levita e con diffidenza permette di venir compresa, lasciando quindi aperto l’eterno quesito sui misteri e le apparizioni. Ed è tutto così semplice: è la fragilità di quella minuscola foglia a consentire alla maestosa luce di irradiare le primordiali cose tutt’intorno. Essa concede loro di raggiungere i tuoi occhi; che li apri, li chiudi, li riapri per poi farli ruotare tutt’intorno alla ricerca di ulteriori dettagli ancora, ai quali conferirai in seguito un determinato rilievo e un loro significato. E sei quindi consapevole dove realmente ti trovi.

    J.B.

    Prologo

    In un piccolo paese di confine, sulle colline che si estendono esattamente tra due diversi Stati, laddove gli idiomi s’impastano, i dialetti si trasformano mentre i volti sembrano rimanere sempre i medesimi, abitava Tin. Come la maggior parte dei bambini di villaggio, Tin viveva in una famiglia relativamente comune: con la madre, il padre e il vecchio nonno, del quale poco si sapeva sennonché avesse all’incirca un’ottantina di anni. Di lui non si conosceva molto poiché, appena ritornato dalla guerra e in seguito alla prematura morte di sua moglie, la nonna di Tin, il nonno si era asserragliato in un ostentato silenzio dal quale scaturivano, casomai, solo alcune sintetiche parole che di rado articolava in un sistema di suoni corretto e appropriato per costruire una frase comprensibile e sensata. Da quella sua profonda voce rauca, baritonale, prendevano forma insomma soltanto frasi sbalestrate, scarne e secche; oppure qualche integra bestemmia tirata giù ogni qual tanto si sentiva contestato da qualcuno o infastidito da qualche cosa. Il nonno era ben consapevole di quel suo difetto, scandiva di conseguenza ogni singola sillaba per ottenere ciò di cui in quel determinato istante aveva bisogno: le sue precise intenzioni venivano meticolosamente parafrasate senza alcuna indulgenza. Nel paesino circolavano molte voci sul suo conto. Si diceva che, in una notte di ira profonda, sotto un tremendo acquazzone e abbagli di lampi sparpagliati per il cielo tenebroso, avesse sotterrato i documenti personali in uno dei fitti boschi che si estendevano tutt’intorno il villaggio; per l’elementare desiderio di scomparire, di non esistere più. Lasciò così sua figlia e il resto dei paesani in un profondo dubbio, dal quale potevano conseguire null’altro che futili insinuazioni sulla sua reale età e veritiero passato. Di lui si conoscevano con certezza solamente il nome e il cognome (che in questa storia non verranno svelati).

    Da bambino, Tin veniva prevalentemente accudito dal nonno; i genitori dovevano lavorare duramente per tutto il giorno e molto spesso pure durante i fine settimana. Il profondo affetto del vecchio nei confronti del nipote era ulteriormente intensificato da un’incredibile assomiglianza sia fisica che caratteriale del bambino con la nonna defunta: amava Tin più di ogni altra cosa al mondo, e questo suo amore veniva meritatamente corrisposto non solamente con l’affetto, ma con dei veri e propri favori. La loro relazione era, insomma, cimentata su dei baratti: il nonno cucinava mentre Tin gli faceva compagnia; raccontava quindi le sue favelle e Tin faceva in modo che quei racconti rimanessero custoditi tra le mura della vecchia casa, tutelandoli così da orecchie indiscrete. Quei racconti erano un loro vero e proprio vincolo segreto. È da considerare bene il fatto che, nel narrare le sue storie a Tin, il nonno costruiva le frasi alla perfezione: soggetto, predicato e complemento oggetto. Le loro giornate trascorrevano così in una vera simbiosi che durava fino a sera inoltrata, quando i genitori di Tin rientravano a casa, e durante i loro fine settimana liberi: quelle sere e quei fine settimana erano frivoli e noiosi.

    Il gallo

    Le stradine che si articolavano per il paese erano ricoperte da una ghiaia bianca molto fine e negl’aridi pomeriggi d’estate rimanevano quasi sempre desolate. Vi scorrazzavano qua e là qualche cane bastardo o gallina che, calpestando frettolosamente con le loro zampette il suolo, facevano elevare i minuti granelli di polvere; così, al loro passare, lasciavano dietro sé delle nuvolette bianche che venivano in un istante spazzate via dalla brezza di collina. Le case intorno erano prevalentemente intonacate; con le loro facciate azzurro-crema, gialle, verdi, ocra - e ce n’erano due pure rosa - fiancheggiavano assolate o a schiera il ciglio impolverato della strada maestra. Camminando lungo quella stradina dal bianco quasi accecante, si poteva scorgere qualche edificio rimasto ancora in pietra a vista: erano di solito stalle o piccoli ripostigli, la maggior parte dei quali divenuti ormai solamente delle insignificanti proprietà abbandonate dalle famiglie esiliate dopo la guerra e in seguito ripristinate ad uso di quelle poche rimaste. All’interno di quei quasi ruderi, si trovavano innumerevoli cianfrusaglie arrugginite, lasciate là, trascurate dai contadini poco pedanti: stavano immobili, in silenzio, sparpagliate, sozze, impolverate; spesso in parte nascoste da cespi di paglia gialla intrufolatisi dentro, trascinati per mano di un prevedibile vento che non di rado si divertiva a scorrazzare per le stradine poco transitate, spazzando spensierato tutt’intorno le cose piccole e lievi trovatesi nel suo tragitto. Al termine del paese, collocata sopra un leggero innalzamento del terreno dietro il quale si apriva uno spettacolare paesaggio collinoso, la solitaria chiesetta bianca a vela, con le sue due piccole campane bronzee appesevi sopra, attendeva le domeniche per accogliere i suoi fedeli e quelli meno. L’edificio quadrangolare era là appartato, interamente circondato da una fila di cipressi e, un paio di passi oltre, veniva racchiuso da un piccolo muricciolo la cui funzione non si capiva bene quale in realtà fosse: data la sua estrema bassezza, con un solo piccolo sbalzo si accedeva tranquillamente dentro il cortile. Onde entrare nel cortile, per rispetto e buona educazione, veniva comunque usata sempre l’entrata principale da tutti. Nello pseudo nartece si accedeva attraverso il cancello in ferro battuto finemente lavorato e sostenuto dai due pilastri di pietra posti ai suoi lati. Sull’apice della vela, esattamente sopra le due campane bronzee, si ergeva fiera la sagoma di un gallo in ferro ormai da tempo arrugginito, il cui perno di giunzione veniva però puntualmente oleato alla base una volta al mese per indicare sempre con precisione la direzione del vento.

    Il paesino era un luogo idilliaco, per modo di dire quasi «essenziale»; là sembrava tutto talmente semplice da farlo apparire come un posto dove il tempo si fosse veramente fermato: solamente i trattori, i televisori e le automobili tradivano quella sua apparenza testimoniando quindi di vivere nel tempo in cui allora in realtà si viveva. Le giornate nel paese erano lente, trascorrevano lontane dai volti curiosi di persone d’altri mondi, chiamate abitualmente «turisti»; si stava bene pure lontano dai grossi investimenti infrastrutturali e da quelli culturali: il primo teatro o cinema si trovava a una buona trentina di chilometri. Nonostante la sua relativa lontananza da un centro più abitato, sia la cultura che l’informazione erano comunque ben presenti nel paese. Quella quarantina dei suoi abitanti si spostava abitualmente in città, e lo facevano quasi tutti i giorni: chi per andare al lavoro, chi per fare svariati acquisti; oppure c’era chi vi si avviava semplicemente per divertimento, riportando indietro al paese notizie del mondo nuovo, di quello esterno; le novità del mondo aperto, progressista: quelle quaranta anime se le tenevano poi gelosamente in casa, vantandosi, per strada e alla messa, di ciò che si aveva visto o sentito, ma appreso certamente ben poco. Erano in effetti loro gli unici turisti fedeli che perpetuamente visitavano il «grande mondo», mentre quel mondo di loro letteralmente se ne infischiava.

    Ebbene, lungo le piccole stradine di quell’insignificante paese di collina, quasi ogni pomeriggio dopo il pranzo, il nonno e Tin camminavano tenendosi per mano. Uscivano dalla loro vecchia casa collocata all’entrata del paese, si dirigevano quindi flemmaticamente verso il luogo che il paese ambiva chiamare «piazza», ma null’altro era sennonché un tenue dilatamento della strada principale nel punto dove volgeva in curva. In quel punto, sul lato sinistro arrivando dall’ingresso del paese, la stradina era costeggiata da un muricciolo in pietra dietro il quale, sull’apice di un innalzamento del terreno, un vecchio mandorlo andava a stendere la sua ampia ombra sopra il suolo ghiaioso della carreggiata. Sotto quella fitta fronda d’albero invece, una panchina malconcia, dalle assi in legno di noce in parte allentate e dai braccioli in ghisa, accordava ai passanti un meritato posto di ristoro: quel vecchio fusto d’albero si ergeva esattamente dietro la panchina ed estendeva i suoi lunghi, grinzosi rami fin quasi oltre la strada. Una volta giunti in piazza, o meglio alla curva del paese, il nonno un po’ affaticato posava il suo bastone da passeggio e si metteva a sedere sulla panchina, lasciando Tin a scorrazzare lungo le viuzze e gli orti circostanti. Il bambino s’allontanava in tutta fretta per andare solitamente a stuzzicare il galletto della casa all’angolo. La «casa del gallo» era un edificio colonico a tre piani con l’intonaco delle mura grigio il cui colore, in origine azzurro, s’era ormai da tempo ossidato; i cornicioni delle porte e finestre erano però rimasti intatti, in pietra arenaria grigio plumbea conosciuta in zona comunemente come «Masegno». Esattamente all’angolo di fronte alla trascurata villa costeggiante l’incrocio di due stradine bianche, si estendeva l’aia circondata da una rete di ferro arrugginita, dentro la quale una decina di galline e un piccolo gallo sguazzavano nella loro merda e in pozzanghere di fango. Quella melma sudicia si formava pure nelle giornate secche, dati gli spruzzi d’acqua che schizzavano dai catini di metallo quando andavano a rinfrescarsi le piume sotto il sole rovente. Tin alzava adagio, in silenzio, il gancetto che serrava la porta grossolanamente sostenuta dalle cerniere di uno dei due pali di legno al lato, apriva quindi con cautela il cancelletto e, una volta intrufolatosi dentro, si metteva a fare dei movimenti goffi col corpo come se tentasse di mimare il movimento sinuoso di un gatto in agguato. Il gallo reagiva innanzitutto perplesso alzando il suo gracile scattante collo ma, una volta capito il trucco e incavolandosi giustamente, si metteva a corrergli dietro. Nel fuggire a gambe levate, Tin lasciava dietro sé il cancello sempre aperto per vedere fino a quale altezza della strada il galletto gli sarebbe corso dietro. Dopo essersi reso conto che il fuggitivo era troppo lesto, con le piume impennate e il becco fieramente innalzato, il galletto si girava e se ne ritornava tra le sue galline; gironzolava quindi intorno ad esse col petto in fuori orgoglioso di aver messo in fuga l’intruso. Pure il nonno s’infuriava in seguito e iniziava a fare il gesto di togliersi la cintura dei calzoni come se fosse intento a dargliene di sana pianta. Oppure prendeva il suo bastone da sotto l’albero e si metteva ad agitarlo per l’aria, pur sapendo bene che non avrebbe mai osato muovere un solo dito contro suo nipote. E di ciò Tin ne era ben consapevole, mentre si metteva a scappare ridendogli dietro a squarciagola. Alla fine del subbuglio, dopo aver adagiato il bastone di nuovo a terra oppure essersi riallacciato la cintura attorno alla protuberante pancia, il nonno lo avvertiva che sarebbe arrivato il giorno in cui il gallo gli sarebbe saltato sul capo, il che poteva costargli un occhio.

    Il bastone

    Possono i pensieri scorrere più veloci del tempo? Uno si mette a sedere su una panchina, fissa un punto qualsiasi dell’immagine esterna che casualmente gli appare di fronte, per rendersi alla fine solo consapevole di non aver visto un bel nulla. Gli occhi in quell’istante hanno la funzione primordiale di far entrare la luce all’interno solamente per tenerci svegli, mentre le cose che si muovono tutt’intorno vengono private dei loro significati e funzioni. I pensieri, per conto loro, sfuggono invece da ogni riquadro e focalizzazione; si sparpagliano ed estendono attraverso uno spazio e vanno volentieri ad ancorarsi in uno dei loro minuscoli accoglienti angoli chiamato memoria.

    J.B.

    Giunto alla piazzetta del paese, il nonno andava sempre ad appoggiare il bastone da passeggio contro il tronco del mandorlo, e non si era mai capito bene la ragione per la quale quel bastone veniva appoggiato a quell’albero e non subito lì accanto alla panchina; ma era un gesto ormai talmente consueto e involontario al quale il nonno non prestava più la minima attenzione. Era pure ignoto a che cosa stesse pensando mentre se ne stava seduto là immobile: con i gomiti delle braccia appoggiati sulle ginocchia divaricate, muoveva lentamente il capo per fermarlo all’altezza di un punto indeterminato; trovava un punto qualsiasi senza una particolare bellezza o un determinato significato. Dopo essersi guardato bene intorno, gli occhi a un certo punto semplicemente si arrestavano. Sembrava stesse fissando una cosa ignota: un bullone di qualche pezzo di motore rottamato, abbandonato, arrugginito lì per terra sul ciglio della strada accerchiato dall’erbaccia incolta; oppure un involucro di caramella sgualcito gettato per strada da qualche automobilista di passaggio; una pietra, una zolla di terra, una scarpa persa. Si ridestava in seguito, trascorsi cinque minuti esatti, quasi come rinvenuto da un sogno e si metteva a borbottare in silenzio parole incomprensibili che, e forse fortunatamente per chiunque si trovasse nei prossimi paraggi, erano da sempre rimaste soltanto dei silenziosi brontolii.

    Il bastone lo fece da sé. Andava fiero dicendo per il paese

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