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Una finestra nella tua casa. Cure palliative e conforto nella malattia
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E-book267 pagine1 ora

Una finestra nella tua casa. Cure palliative e conforto nella malattia

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Info su questo ebook

Le cure palliative sono cure attive e globali di un paziente la cui malattia non risponde ai trattamenti che mirano alla guarigione.

Il controllo del dolore, degli altri sintomi e dei problemi psicologici, sociali e spirituali è prioritario.
“Il traguardo delle cure palliative è lo sviluppo della migliore qualità di vita possibile per i pazienti e le loro famiglie.”
Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)

Il termine “palliativo” deriva da pallium, che nella Roma antica designava il telo di lana che si poggiava su una spalla e si drappeggiava intorno al corpo, per proteggerlo.
Nella medicina moderna questo termine ha purtroppo assunto un significato vagamente negativo, di rimedio sostitutivo, di facciata, inadatto a risolvere del tutto un problema di salute. Il marito di una paziente ci ha detto: «Non vogliamo cure palliative. Vogliamo medicina, non carità!»
Si dimentica invece che con esso si designa tutto un complesso di cure, che sarebbe più appropriato definire “di supporto”, utilizzate in situazioni anche molto diverse fra loro.
Le cure palliative non sono rimedi inefficaci, al contrario. Studi clinici testimoniano la loro validità anche in termini di sopravvivenza e di miglioramento della qualità di vita.
Nonostante molti medici siano convinti che le cure palliative aiutino molto, e sotto numerosi punti di vista, essi le prescrivono generalmente troppo tardi. Questo ritardo causa sofferenze inutili perché, concentrandosi su esami di laboratorio e di radiologia, ci si dimentica del malessere fisico, psicologico e spirituale del paziente.
Le cure palliative si prefiggono di mantenere la qualità della vita e il diritto alla vita del paziente sino alla morte, di alleviarne le sofferenze, nel rispetto dei suoi desideri e delle necessità fisiche, psicologiche, morali, sociali, esistenziali e culturali.
Oggi, grazie a un processo di ricerca incessante, che coinvolge gli istituti più avanzati ed è promossa con ingenti mezzi finanziari, la medicina è riuscita a elaborare un apparato di conoscenze in uno spettro amplissimo di patologie e a predisporre contro di esse un gran numero di terapie efficaci. Un’evoluzione stupefacente, alla quale, però, non è seguita una crescita altrettanto sorprendente nella comprensione dei problemi esistenziali delle persone, presi come siamo stati a curare la malattia piuttosto che l’ammalato.

LinguaItaliano
Data di uscita10 set 2014
ISBN9788897308324
Una finestra nella tua casa. Cure palliative e conforto nella malattia
Autore

Giorgio Noseda

Giorgio NosedaMedico cardiologo, professore emerito all’Università di Berna.Per anni primario di medicina interna all’Ospedale della Beata Vergine di Mendrisio e all’Ospedale regionale di Lugano.Membro del Gran Consiglio ticinese dal 1975 al 1989, è stato Presidente e relatore della Commissione per la Legge ospedaliera, che ha istituito l’Ente ospedaliero cantonale nel 1982.Ha presieduto la Lega svizzera contro il cancro, la Fondazione Ricerca Svizzera contro il Cancro e Oncosuisse.Ha contribuito alla fondazione dell’Istituto di Ricerca in Biomedicina di Bellinzona, che ha presieduto per quindici anni, ed è attualmente presidente dell’Istituto nazionale per l’Epidemiologia e la Registrazione del Cancro (NICER) presso l’Università di Zurigo.È membro onorario dell’Accademia svizzera di scienze mediche.Presiede la Fondazione “Child to Child for Africa”, attiva in Kenya in campo scolastico.È membro di comitato dell’Associazione ticinese di Cure palliative.

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    Una finestra nella tua casa. Cure palliative e conforto nella malattia - Giorgio Noseda

    Era venerdì. Al pianterreno del reparto di medicina stavo terminando il giro di visite con il primario. Mezzogiorno era già passato da un pezzo e la caposala suor Margherita lasciava chiaramente intendere che era ora di concludere per non scombussolare tutto il programma della giornata. Il mio primario colse quel pensiero e davanti alla camera ventisei abbassò la voce dicendo: «Terapia Hämmerli, vero?». Lo sguardo dei presenti, anche se abbassato, non lasciava dubbi.

    Era il 1976, ed io ero al secondo anno come assistente all’Ospedale Beata Vergine di Mendrisio. Il mio primario era un medico preparato ed esperto, oltre che una persona molto umana. Con il suo esempio mi insegnò gran parte della medicina e in particolare a essere uomo e non solo medico. Era un professionista con una vasta formazione, entusiasta di curare, insegnare e promuovere il progresso attraverso la partecipazione alle attività di ricerca di punta, nonostante si operasse in un ospedale piccolo e periferico. In quegli anni riuscì, assieme al suo co-primario, il dottor Michele Reiner, a creare un ambiente molto stimolante per i giovani medici, che facevano a gara per avere un posto di formazione all’OBV.

    In quello stesso anno, a Zurigo, il Professor Urs Peter Hämmerli del Triemlispital era appena stato sospeso dalla sua carica, anche se solo per un periodo limitato, soltanto perché l’anno prima aveva pubblicamente detto quello che si faceva già allora abitualmente in tutti gli ospedali, come una sorta di best practice. Di fronte a un paziente senza possibilità di guarigione, si rinunciava all’accanimento terapeutico, per esempio alla nutrizione artificiale, limitandosi alla sola idratazione. Il clinico zurighese era diventato così una figura faro nell’aiuto passivo alla morte.

    Giorgio Noseda, davanti alla camera ventisei, aveva aderito al pensiero di Hämmerli, e cioè che davanti all’evidenza della morte imminente era sensato tirare i remi in barca e non accanirsi con misure superflue. Allora, purtroppo, se un malato non era interessante dal lato medico scientifico, il tempo speso davanti al suo letto si accorciava sempre di più, non solo per il calo dell’interesse scientifico, ma anche per la fatica che il medico faceva nel confrontarsi con il morire, vissuto come un fallimento professionale. Sarebbe bastato guardare indietro alla storia della filosofia per capire che il credere incondizionato nella scienza ci aveva fatto perdere la bussola o, per dirla con le parole di Michel Foucault: Gli esseri umani non muoiono perché si ammalano, non muoiono perché hanno incidenti, muoiono perché sono mortali. E ancora: La filosofia antica ci ha insegnato ad accettare la nostra morte. La filosofia moderna ci ha insegnato ad accettare la morte degli altri.

    La paziente, anzi, la persona della camera ventisei stava per morire. Niente aveva potuto la medicina scientifica nel tentativo di invertire la parabola della vita. Evidentemente, davanti a quella camera, l’entusiasmo del primario per il progresso si era scontrato con una potenziale sconfitta professionale. Quindi, un po’ per la fretta che in quel momento ci metteva suor Margherita, un po’ per la frustrazione del fallimento, un po’ il fatto che morire non era previsto, né per malati, né tanto meno per sani o presunti tali, la visita alla paziente di quella camera fu corta, molto più corta che nelle camere precedenti.

    Sapevamo che, dal lato della medicina allora considerata di punta, non avevamo carte da giocare. E al contempo sentivamo nel nostro profondo che c’era sicuramente più di un validissimo motivo per dedicare qualcosa a questa ammalata. Magari un po’ meno scienza, ma di certo più tempo. Tuttavia ci mancava la capacità di riempire questo tempo con contenuti che ci avrebbero dato la certezza che non si trattasse di tempo perso, né per la paziente, né per noi.

    Sono passati quarant’anni. Abbiamo imparato che quando non c’è più niente da fare in realtà c’è ancora tantissimo da fare, e anche che solo essere presente e non scappare diventa fare.

    Sono molto grato al mio maestro Giorgio Noseda per tutto quello che mi ha insegnato. Con questo libro egli dimostra la sua umiltà nella capacità di rivedere il suo operato professionale in modo riflessivo. Non dice che abbiamo sbagliato tutto, no di certo. Dice che quello che abbiamo fatto l’abbiamo fatto bene, ma che non abbiamo fatto tutto quello che dovevamo. Abbiamo negletto una parte importante di ciò che ora, attraverso la medicina palliativa, sta per fortuna rientrando a far parte della professione e dell’arte medica. Lui, con lo stesso entusiasmo che negli anni Settanta e Ottanta aveva portato tanto progresso nel Ticino, ora si applica nella promozione delle cure palliative, avendole identificate come una medicina di punta per (quasi) tutti.

    Che cosa ci sta insegnando la medicina palliativa? Anzi che cosa ci sta insegnando il confronto con i malati senza possibilità di guarigione?

    Prima dell’era industriale, l’incertezza faceva parte della nostra cultura. Avevamo mille modi per gestirla. Uno era delegare la nostra sorte nelle mani di chissà chi o cosa, alla cosiddetta Provvidenza. A partire dal pensiero cartesiano, la ragione è entrata a fare parte del nostro modo di considerare il mondo. Le scienze sono diventate sempre più esatte e la medicina ne costituisce forse l’esempio più lampante. Ciò ha portato sicuramente a una miriade di progressi importanti. Ha però dato anche la falsa impressione che tutto sia diventato preciso, sicuro, misurabile e prevedibile. L’incertezza, siccome sempre più difficile da sopportare, è stata eliminata, con lo svantaggio che abbiamo disimparato a gestirla. Siamo tutti figli del modo di pensare binario, organizzato come un sistema di multiple choice: per una domanda, tre possibili risposte, delle quali una sola è quella giusta. La vita però, e alcune scienze, come la medicina umana o esistenziale, non sono esatte, e le incertezze rimangono. Ce ne accorgiamo dolorosamente quando qualche problema di salute, piccolo o grande che sia, va in una direzione non desiderata da curati e curanti. In quella situazione siamo costretti a riconsiderare la convivenza con l’incertezza. E scopriamo forse che anche l’incertezza è una medaglia a due facce: comporta ansia, paura (cosa succede in me?), ma dà anche spazio alla speranza (cosa sarà di me?).

    La medicina palliativa riammette incertezza e ambivalenza e promuove i lati di forza di questi due concetti che erano andati un po’ persi nella nostra rapida vita da sani o presunti tali.

    La medicina palliativa si impegna non a curare organi e disturbi metabolici, a fare diagnosi, bensì a curare persone, che in quel momento sono diventate pazienti con delle necessità. Questo concetto si sposa molto bene con i due primi principi dell’etica medica. Formulando i suoi bisogni, il paziente mette le basi per il mantenimento della sua autodeterminazione e della sua autonomia e, rispondendo a tali bisogni, noi medici non daremo a tutti la stessa cosa, ma solo ciò di cui necessitano. Questa, per me, si chiama giustizia.

    Tentiamo però di non cadere nella trappola del buonismo. Non c’è una medicina buona (quella palliativa) e una cattiva (quella moderna e tecnica). La medicina moderna deve imparare di nuovo che la morte non è una sconfitta e che le cure palliative continuano a usare i progressi della prima, tenendo conto del fatto che è sì la qualità di vita a essere focalizzata, ma che da taluni pazienti anche la quantità può essere percepita come qualità. Niente accanimenti o fanatismi né dall’una né dall’altra parte. La medicina palliativa va affiancata, come attitudine, scienza e conoscenza, a quella tecnica. Evidentemente con la progressione di una malattia evolutiva si istaura uno spostamento del focus terapeutico. Ciò non avviene da un momento all’altro, ma come un continuum.

    In tutto questo è ancora il malato a indicarci la traccia. In fondo lui ci pone tre domande, non solo all’inizio, ma continuamente, e ai suoi quesiti siamo tenuti a rispondere. Questo processo non si chiama informazione, ma comunicazione.

    La persona che ci sta di fronte, con un problema di salute serio, in fondo chiede risposte a queste domande:

    Che cosa mi sta capitando, cioè che cosa non funziona in me?

    In altre parole, vuole conoscere la diagnosi. «Cosa non funziona? Come mai non ho più forza? Da dove viene la febbre?» Vuole quindi accertarsi che il suo medico capisca. È un primo passo per rendere l’insicurezza (che allora potrebbe essere paura) sopportabile.

    Che cosa farai per me?

    In altre parole, gli interessa quali possibilità terapeutiche esistono, in senso lato. Non solo per la malattia, ma anche per tutte le conseguenze bio-psico-sociali che subentreranno man mano.

    Che cosa sarà di me?

    In altre parole, vuole sapere la prognosi. Porrà la domanda in modo da evitare una risposta che in quel momento supererebbe il suo grado di sopportazione. Ma di nuovo vuole ridurre l’incertezza totale e sostituirla con un grado di incertezza a lui confacente, forse anche per poter sviluppare delle aspettative realistiche e pianificare il pianificabile.

    Rispondere a queste tre domande non avviene in maniera forzata e in un dato momento, anzi, è un processo che si ripete continuamente. Interpretato così, il medico diventa garante di autenticità e si può instaurare un rapporto di fiducia reciproca. Quando l’autenticità diventa percepibile, le mille incertezze diventano sopportabili.

    Quarant’anni fa, di fronte a un problema di salute ci si chiedeva: cosa si potrebbe fare dal punto di vista diagnostico e terapeutico? Oggi, dopo uno sviluppo vertiginoso della medicina, che inevitabilmente porta anche allo sviluppo sfrenato della specializzazione e al continuo frazionamento, ci dobbiamo chiedere: a che cosa si può rinunciare? È un cambiamento di paradigma che il medico fatica a realizzare e, una volta realizzato, fatica a mettere in pratica. Se ci rivolgiamo a un medico specialista, egli conosce la storia naturale della malattia per cui si è specializzato. Il problema è che quella storia naturale non esiste più perché inquinata dal progresso, spesso verso il meglio, ma non sempre. La sua proposta descriverà il massimo che si possa fare/ottenere. Ed è proprio qui che sta l’errore di fondo. Ragionevolmente sempre più spesso non dobbiamo ambire al massimo (maximum) ma all’ottimale (optimum). Questi due aspetti non sono per forza sovrapponibili e, anzi, rischieranno di essere contraddittori. La medicina palliativa ha un ruolo pionieristico nella messa in atto e nella diffusione di questo approccio nuovo ma ragionevole.

    Ciononostante essa ha fatto fatica a fare breccia, per vari motivi, forse anche perché non promette annunci e scoperte clamorosi e sensazionali, sospetti di premio Nobel. Non ha un posto di rilievo nelle discussioni politiche, orientate piuttosto a occuparsi della medicina altamente specializzata. Non permette di fare una brillante carriera. Curiosamente, quando un medico si presenta come specialista in cure palliative, gli altri colleghi affermano subito di averle praticate da sempre. Il problema è che tuttora resta difficile attribuire alla medicina palliativa una identità specifica e, soprattutto, condivisa.

    Ma i medici palliativisti devono cessare di protestare con tono piagnucoloso per il disamore intrinseco e cronico da parte degli altri colleghi. È ormai tempo che il brutto anatroccolo diventi un cigno. I medici specialisti in cure palliative ne devono essere consapevoli e devono sviluppare una sorta di orgoglio di specialità, non da ultimo perché urge trasformare la loro auto-percezione in una etero-percezione.

    Il gastroenterologo utilizza un gastroscopio e, quando un internista vede un paziente con un sospetto di ulcera gastrica, lo indirizza a un gastroenterologo, perché lui stesso non possiede e non sa usare un endoscopio. Analogamente suggerisce a un uomo di età avanzata con una cataratta di recarsi da un oftalmologo, che possiede e usa una lampada a fessura. Uno specialista viene quindi identificato attraverso una tecnica o uno strumento. E lo specialista di cure palliative? Si dovrebbe forse inventare un palliativoscopio, che altri medici non avrebbero in dotazione o non sarebbero capaci di usare? Se ci fosse un tale strumento, anche il tariffario per le prestazioni mediche sarebbe finalmente in grado di coprire le spese e l’impegno effettivi.

    Dobbiamo offrire a un ammalato terminale ciò che egli non ha e che noi abbiamo: il tempo.

    Purtroppo ciò non è spettacolare, né agli occhi dei medici abituati a diagnosticare e a trattare, né a quelli dei manager ospedalieri e degli economisti della salute. Il tempo è infatti caro e difficilmente fatturabile.

    Tuttavia è anche lo strumento e la risorsa principale del medico specialista in cure palliative. La medicina palliativa è una medicina del tempo e della presenza, il medico palliativista è un medico che ha e offre tempo.

    Con uno sguardo a esperienze del passato, alla biografia del paziente, egli aiuta a ripescare il fil rouge di una vita, che forse, a causa della malattia, era andato perduto. Riannoda questo filo rosso e lo porta nel presente con lo scopo di permettere al paziente di vivere la sua vita autentica anche e proprio in questo istante difficile ma fondamentale.

    Dr. Med. Hans Neuenschwander

    Primario di Cure palliative

    Ente Ospedaliero Cantonale, Bellinzona

    Indice

    Indice

    Premessa

    Sono sempre stato, e sono tuttora, un convinto assertore della medicina scientifica, della quale ho vissuto i grandi successi negli ultimi cinquant’anni e di cui, quando possibile, ho cercato di applicare i risultati straordinari e spesso risolutivi.

    Mi sono battuto, durante la mia lunga attività, per dotare l’ospedale in cui praticavo di apparecchiature tecnologiche all’avanguardia. Ricordo, en passant, che lì furono installate alla fine degli anni Settanta la prima TAC e la prima Gamma camera del Cantone.

    Lunghi anni di polemiche e di lotte nel parlamento cantonale hanno poi consentito di far accettare, e in seguito votare, la costruzione di un ospedale moderno ed efficiente anche nella mia regione, passato a pieno titolo nel novero dei quattro ospedali di riferimento all’interno dell’Ente ospedaliero cantonale, costituito, lo ricordo, nel dicembre 1982, dopo laboriose ed estenuanti discussioni in una interminabile seduta conclusasi a notte inoltrata.

    Ho sempre cercato di stabilire un contatto umano sia con il personale sia, in modo particolare, con gli ammalati, suscitando la riprovazione della capoinfermiera per la mia abitudine di sedermi al bordo del letto dell’ammalato, perché mi sentisse più vicino, atteggiamento contrario, lei diceva, alle basilari regole di igiene di un ospedale.

    Eppure, riflettendoci ora che l’età e l’attività ridotta mi concedono tutto il tempo per l’approfondimento, sento di aver trascurato molti aspetti della cura che, oggi, riconsidero in chiave critica.

    Mi capita talvolta di visitare qualche ammalato a domicilio e dunque sono diventato anch’io una sorta di "medico di

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