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Un mistero in via Cardano e altri racconti
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Un mistero in via Cardano e altri racconti
E-book104 pagine1 ora

Un mistero in via Cardano e altri racconti

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Info su questo ebook

Sedici racconti, usciti in brossura nel 2004 per le Edizioni Cardano e andati esauriti nel giro di pochi mesi, tornano ora in formato digitale.

«Il lettore, oltre ai bellissimi "Un mistero in via Cardano", "Stadt Pavia", "Prostitute" e "Santina Carena", potrà qui apprezzare tutta l’inventiva di Romano Augusto Fiocchi e conoscere il suo fantasioso e ricco repertorio narrativo fatto di singolari personaggi, esperimenti letterari, trame spesso giocate sull’ironia e la metafora, singolari visioni, leggende, vicende senza tempo, storie per certi versi noir ed anche qualche piacevole sorpresa».
(Tino Cobianchi, dal risvolto di copertina dell'edizione in brossura del 2004)

«Sedici racconti che si aprono con "Un mistero in via Cardano" - e dunque ammiccano al lettore pavese - per poi spostarsi un po' verso Oriente, in Cappadocia, un po' in uno spazio-tempo tutto dell'immaginazione».
(La Provincia Pavese)
LinguaItaliano
Data di uscita11 ago 2014
ISBN9786050317077
Un mistero in via Cardano e altri racconti

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    Anteprima del libro

    Un mistero in via Cardano e altri racconti - Romano Augusto Fiocchi

    Carena

    Premessa

    In queste pagine si susseguono alcune tipologie di racconti tra loro differenti. Ci sono racconti d’ambientazione locale, che chiamerei di genere e che continuano la tradizione delle tre raccolte da me pubblicate a partire dal 1986. Intercalati a questi ho introdotto alcuni racconti più sprovincializzanti, come ad esempio La donna di Niğde oppure La sedia. Il primo è ambientato in un borgo dell’odierna Cappadocia, il secondo è invece assolutamente privo di collocazione cronotopografica (il velato richiamo al teorizzatore del Nouveau Roman, Alain Robbe-Grillet, ha ispirato questo tipo di scelta). C’è infine una terza forma di narrazione: la leggenda. Non sono leggende vere e proprie ma racconti che sfiorano il mito, un genere già anticipato con Ciuffi di alghe (PazzaPavia e altri racconti, 1989) e Paesaggio fluviale con barcé (Dipinto a testa in giù, 1994).

    Al di là di questo tentativo di porre ordine nel materiale affastellato sulla mia scrivania e qui reso pubblico, mi sono accorto che in realtà sono i personaggi in sé a determinare la fisionomia del racconto. E ancora più dei personaggi, il loro nome in sé. Il professor Palandrini, Gino Galloni, il cenobita Barionas, Pierino Villani, Santina Carena, ’Gidio Migliavaccca, ma anche i Bùrbero e Mandorlinfiore della leggenda, Gerberto d’Aurillac e Ottone III, Vincent e Rosemarie. E che dire di Zazì la mosca? Insomma, è proprio così. Il personaggio scrive il suo nome in testa al foglio e tu non puoi fare altro che continuare la sua storia. È il nome che la evoca. Quando hai il nome giusto, la storia è già nella penna. Devi soltanto lasciarla scorrere insieme all’inchiostro. «Che è lo scrivere? È il pensiero che si sgomitola dolce e, senza rompere il filo, tesse la sua tela immaginosa», scriveva Cesare Angelini. Non so fino a che punto sia immaginosa la mia tela, né se il filo che ho usato sia così robusto. Il lettore giudicherà.

    R.A.F.

    Un mistero in via Cardano

    Non erano le scale a scricchiolare. Del resto come potevano, se erano di marmo? Era piuttosto lo scricchiolio di un pennino sulla carta, la buona carta a mano dei tempi passati. O sulla pergamena. O su qualcosa di simile. Salii ancora qualche gradino e il fioco lume di una candela illuminò la scena. Ma devo tornare indietro, e raccontare come e per quali assurde circostanze mi ero trovato in quella situazione.

    Da anni mi tormentava l’idea di possedere un manoscritto d’epoca, uno di quelli che chiamano codici, per lo più miniati. Cercavo un codice nostro, di quelli pavesi. Mutilo, autografo o anepigrafo che fosse. Lo desideravo senza un motivo particolare, solo per il gusto di tastare un avanzo di tempo e provare il brivido dei secoli sotto i polpastrelli. Avrei voluto accarezzare l’incavo leggero scavato dal pennino e seguire le sue curve, accompagnarle con la mano dello scrivano che le aveva tracciate.

    Si trattava di un desiderio così intenso e così bizzarro, che per realizzarlo non potevo se non lasciarmi guidare dal caso. E andò proprio così. Un giorno scorsi il manoscritto nella vetrina di una libreria di via Cardano. Rione antico, quello di porta Calcinara, e antichi anche i suoi negozi. Era il 1984. La libreria era stata aperta di recente ma aveva voluto conservare il fascino del tempo: scaffalature in legno stagionato, resti di decorazioni in cotto, un arco medioevale che sbucava da dietro un armadio. Il libraio, con uno strano sorrisetto nascosto sotto due baffi corvini, aveva un non so che di inquietante, come se il suo nome (che mi pare fosse Fausto) evocasse quel personaggio che aveva venduto l’anima al Maligno. Sì, Faust era un nomignolo che gli suonava bene.

    I suoi modi erano affabili, da vero bibliofilo. Illustrava i volumi e li sfogliava con garbo, mostrandone pregi e difetti, quasi volesse incantare non tanto con ciò che offriva quanto piuttosto con gli stessi gesti, con la voce pacata e sapientemente controllata. Parlai con lui per un po’, chiesi il prezzo del libro e dove l’avesse reperito. La cifra era esorbitante, tanto che desistetti dall’acquisto. Ma la risposta evasiva sulla provenienza mi lasciò insoddisfatto.

    Indugiai qualche giorno. Quando finalmente decisi di comperarlo era troppo tardi perché il manoscritto era stato venduto.

    – Però, – mi disse Faust, lisciandosi i baffi, – non si sa mai.

    Cosa volesse dire con quella frase ambigua, lo so solo adesso. Ma allora mi stupì e la sera stessa, preso da una curiosità morbosa, tornai in via Cardano per controllare la vetrina.

    La nebbia, complice di tanti miraggi padani, si era infilata nella via, intensa come un pensiero fisso. Una di quelle nebbie da tagliare con il coltello. Arrivai alla libreria che tutto era spento, eccetto qualche luce della strada. All’improvviso qualcosa luccicò: un riflesso dorato, un guizzo e – là! Un codice aperto era scivolato nella vetrina. Dapprima pensai ad un effetto del lampione lontano, ma poi osservai meglio. Il codice era nello stesso stile di quello che era stato venduto. Liber de laudibus civitatis ticinensis, recitava il frontespizio. Era chiaro che qualcuno l’aveva messo in vetrina apposta per me e questo qualcuno in quel momento se la stava sgattaiolando dal retrobottega.

    – Sì, – mormorai, – domani questo libro sarà mio.

    Lo comprai davvero. Il libraio mi disse che ero stato fortunato. Sorrise e aggiunse che comunque sarebbe stato meglio se non l’avessi raccontato a nessuno. Tornai a casa dubbioso, con il codice sottobraccio. Passai l’intera giornata a cercare di decifrarlo. Ma il mio latino è pessimo e non riuscii a tradurre che poche righe. Cominciai a fantasticare e a chiedermi se non vi fosse nascosto qualche mistero, se tra le righe non vi fossero insomma disseminati vocaboli strani, appartenenti ad altre lingue ed altre epoche, anelli mancanti tra quel tempo e il nostro tempo. Mi ricordai di codici riscritti dove i testi originari erano stati raschiati ma risultavano leggibili in trasparenza. Oppure di quelli che andavano letti in negativo, interpretando gli spazi bianchi, o legando fra loro frammenti di parole scarabocchiati a margine. Una cosa mi attirava più di ogni altra: in una delle prime pagine, ingiallite dal tempo, c’era una pianta di Pavia trecentesca con il reticolato urbano diviso in ottanta iugeri e sovrapposto ad una carta della zona mediterranea in forma allegorica. L’allegoria rappresentava un nudo di donna la cui gamba destra corrispondeva alla nostra penisola. Di fronte a lei l’Africa, personificata da un uomo in costume d’epoca. Sulla sua manica c’era avvinghiato un serpentello. L’enigma era qui, lo sentivo. Il serpentello, con la sua testa dai tratti così minuziosi, segnalava qualcosa. Fu infatti dopo un attento esame dietro la lente che svelai una scritta minuta nell’angolo della pagina: Serpentis Sardinia, che voleva dire la Sardegna del serpente. Riflettei sul significato possibile di questa locuzione e mi accorsi, guardando la pianta, che uno solo degli iugeri comprendeva la testa del serpente e l’estremo angolo Sud-Est della Sardegna. Rapportando il tutto alla carta di Pavia che si sovrapponeva al disegno allegorico, la posizione indicava un punto preciso: la Torre civica.

    La notte, più limpida della precedente, aveva ormai sostituito la sera. Corsi in strada. Una volata con la bicicletta fino in via Cardano, appena in tempo per scoprire una sagoma che si dileguava furtiva tra i vicoli. Nella vetrina della libreria era apparso un nuovo manoscritto. Cercai di inseguire il fuggitivo ma ne persi le tracce. Corsi allora in piazza Piccola, ai piedi della Torre civica. Una catena chiudeva il cancello che dava accesso ai resti del portale di Santo Stefano e all’ingresso della torre. Tuttavia la porta di questa sembrava socchiusa. Non mi fu difficile scavalcare ma scostato l’uscio la paura mi bloccò. Chi c’era lì dentro? Cosa c’entrava tutto questo con i codici medioevali che

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