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Polittico del cinghiale mistico (versione integrale in 13 libri)
Polittico del cinghiale mistico (versione integrale in 13 libri)
Polittico del cinghiale mistico (versione integrale in 13 libri)
E-book1.559 pagine22 ore

Polittico del cinghiale mistico (versione integrale in 13 libri)

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Info su questo ebook

Un polittico labirintico da cui si esce nuovi come da un percorso iniziatico, soltanto seguendo il cinghiale mistico.
LinguaItaliano
Data di uscita4 mar 2021
ISBN9791220325684
Polittico del cinghiale mistico (versione integrale in 13 libri)

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    Anteprima del libro

    Polittico del cinghiale mistico (versione integrale in 13 libri) - Augusto Scano

    633/1941.

    Polittico del cinghiale mistico

    Libro 1-Feticcio 2020

    Feticcio 2020

    Premessa

    Mesi fa, nell’autunno del 2019, fui chiamato da un mio caro amico dei tempi del Liceo. L’unico di quei tanti della giovinezza che ancora mi capitava occasionalmente di frequentare. Lo raggiunsi in casa sua, nel quartiere Appio, in quel grande appartamento all’ultimo piano di un palazzo in fondo a Via Macedonia. Restammo per qualche minuto sulla terrazza a goderci la vista del Parco della Caffarella. Poi Massimo mi disse di aver un po’ freddo e così rientrammo. Una volta comodi nel salotto che aveva messo al centro della sua biblioteca, si decise a dirmi il motivo per cui aveva voluto incontrarmi con una urgenza che non aveva minimamente provato a dissimulare. Aveva un cancro al pancreas, in uno stadio avanzato e, nonostante avesse intrapreso il percorso della chemioterapia, mi disse di non nutrire speranze sulla sua possibilità di uscirne fuori vivo. Voleva che io mi occupassi della sua biblioteca. Duemila cinquecento trentadue volumi nella totalità dedicati alla storia del Novecento. I suoi familiari l’avrebbero smantellata senza riguardo. Si sarebbero disfatti dei volumi gettandoli o svendendoli senza cura alcuna. Ne era sicuro. So che non hai lo spazio per prenderli tutti. Ma mi piacerebbe che ne portassi in salvo qualcuno. Il resto vada pure a cani e porci. Ricordo d’aver provato una leggera fitta di dispiacere nel sentire ancora una volta i cani ed i porci accomunati alla pessima gente. Mi diede le chiavi della sua casa. E di ognuna delle vetrine che proteggevano gli scaffali delle sue librerie. Avrei scelto con calma, in solitudine, durante le ore che settimanalmente lui era costretto a dedicare alla chemio e ai controlli medici, i libri da sottrare ad una fine indegna. Nella terza seduta dedicata al mio particolare censimento mi imbattei in un ritrovamento inaspettato. Tra i dodici volumi in cui la Mondadori aveva organizzato l’edizione tascabile dell’opera che Winston Churchill aveva dedicato alla Seconda Guerra Mondiale, raccolti in un cofanetto di cartone duro ed il libro che il suo connazionale Richard Overy aveva redatto sul perché gli alleati avessero vinto (Why the Allies Won) erano stati infilati un paio di corposi quadernoni colorati, di quelli usati dai bambini per la scuola. Uno aveva sulla copertina Hello Kitty, l’altro riferiva, anch’esso in immagini, l’universo dei Minions. Li aprii e ne trovai le pagine fitte di lettere scritte a mano, con un notturno inchiostro blu. Non mi riuscì subito di indovinare quella lingua. Dopo qualche comparazione fatta a mezzo web fui certo si trattasse di sanscrito. Attesi che Massimo tornasse dal suo trattamento terapeutico. Gli mostrai la mia strana scoperta. E lui, cosa che mi sorprese, non seppe dirmi chi potesse aver messo tra i suoi libri quei quaderni. Restammo a guardarci per qualche secondo in silenzio. Era sconfortante vederlo tanto mal ridotto. E per quanto mi sforzassi di non darglielo a vedere, lui mi sorrise comprendendo il mio imbarazzo. Mi disse che il mese prima aveva ospitato per tre giorni un professore in casa sua. Ma che questo non aveva le chiavi della biblioteca. Né, avendole, avrebbe avuto motivo di lasciarvi dentro qualcosa. E poi questi quadernoni per bimbi mi sembrano così lontani dalla personalità ombrosa di quel tipo aggiunse. Mi spiegò che il suo ospite gli era stato presentato da un alto prelato della curia romana, grande amico dei suoi nonni. Un professore di lingue, credo aggiunse Eugenio ed un cognome impronunciabile, slavo, forse. Mi raccontò poi di un episodio singolare. Dopo qualche giorno che il professore se ne era andato via da casa sua, lui lo aveva rivisto per caso. A Campo de’ Fiori, faceva il cameriere. Serviva ai tavoli del Bar Sette. Io l’ho salutato. Lui ha finto di non riconoscermi. Prima di congedarmi da Massimo gli domandai di poter portare con me quei quaderni. Per farli decifrare e capire cosa mai vi fosse scritto. Sono tuoi Disse e non trattenne la sua risata che ho sempre gradito tanto. Fu l’ultima volta che la sentii. Una mia cara amica, Marcella Donati, docente presso l’università di Padova, ha provveduto alla traduzione. Ho studiato quel testo. Ho rimosso il ridondante e gran parte di quelle considerazioni, pensieri e teorizzazioni che risultano inaccettabili all’attuale sensibilità ed offensivi in genere della dignità umana. Per non deludere coloro che fossero tentati da un qualsiasi approfondimento, ho conservato quel materiale ponendolo in note a piè di pagina, insieme a quegli interventi che l’autore attribuisce al suo feticcio. Ho mantenuto la prima persona e la terza persona presente in blocchi diversi della narrazione. Dunque, a parte qualche minima variazione per agevolare alcuni snodi sintattici e pochi ritocchi estetici funzionali ad una migliore comprensibilità, quanto mi accingo a riportare di seguito è quello che è stato scritto su quei quaderni. Ognuno è libero di raccontare le sue favole. Nella lingua che preferisce. Però la storia riportata su quei fogli mi ha generato più di una perplessità e mi ha spinto ad approfondire fatti e circostanze. Ho verificato una, a dir poco, inquietante corrispondenza tra ciò che è narrato in quelle pagine e la scomparsa reale di persone avvenuta nelle trascorse settimane in questa città e nei suoi dintorni. Ho controllato i casi, uno per uno. Il nesso con il contenuto di quegli scartafacci sanscriti è ineluttabile. Inoltre non posso evitare di chiedermi perché quel professore, se è stato lui, abbia lasciato i suoi quaderni proprio nella biblioteca di Massimo. Voleva che li trovasse qualcuno? Io? E se io, perché? Sono legato a questa storia? In che modo? Ho provato a contattare quell’uomo presso il Bar Sette dove Massimo mi aveva detto di averlo visto. Non c’era. Aveva smesso di lavorare lì proprio il giorno prima di quello in cui m’ero recato a cercarvelo. Infine non ho più dubbi, tranne sul fatto di non aver ben compreso di quale disegno io sia parte e se esista davvero un disegno. Nei giorni in cui mi sono avventurato dentro le parole di quei quadernoni era in voga la convinzione che si dovesse comporre un testo e farlo pubblico al solo fine di adempiere ad una responsabilità civile votata al miglioramento del mondo. A dieci mesi e più trascorsi da quei momenti rimane all’uomo che si intrattiene con la letteratura (privato di ogni plausibile decenza) l’unico convincimento di dover scrivere per autentica brama di successo, lubrica fantasia di danaro, criminosa accondiscendenza verso la naturale elefantiasi dell’ego. Perciò adesso e solo adesso posso avere la sensazione di raccontare, la storia riesumata dai quadernoni di Hello Kitty e dei Minions, per umile gesto apotropaico. Avverto chiarissima la desolazione di riconoscerla tanto prossima alla nostra attualità, proprio perché oggi la ragione s’è profondamente addormentata ed il suo sonno ha sgravato i mostri che, divertiti in ogni atrocità, saturano il nostro tempo. Tanto è questa cronaca folle addentro alle nostre illusioni e alle nostre paure. Perché questa non è storia di libri, macché! È storia, invece, di ciascuna delle miserie quotidiane che ci affliggono e la sua conoscenza può insegnarci la bellezza d’altri fiori oltre quella della rosa (come ebbi occasione di argomentare in un altro libro) e può piegarci a ripetere le struggenti parole dell’anonimo poeta: Numquam latravit inepte. Mentula, mentula, mentula…

    Ottocento

    1 Gli umani vogliono credere ad assurdità quali l’astrologia, il destino, l’omeopatia e dio¹. Non prestano invece fede alle verità come i fantasmi, le streghe, i vampiri ed i mostri. Quanto sto per dirti è accaduto davvero. Arrivato fin qui non saprei a chi altri confidarlo. Mi auguro di non guastare la tua felicità. Attento alla felicità, te l’ho già detto, la felicità è peggiore dell’eroina. Potresti non riuscire più a farne a meno. E se costretto a smetterla, dovresti attraversare sterminato dolore e deserti di umiliazione. Comunque: alcuni di questi fatti li avrai pur sentiti raccontare, ma non come realmente hanno avuto svolgimento. Hai sempre voluto conoscere il mio passato. Ebbene, eccolo.

    2 Io, al pari di gente meno significativa ma più famosa, posso dire di essere stato generato e di non essere stato creato, posso giurare di essere della stessa sostanza di mio padre. Mio padre è stato Godwin. William Godwin non era il santo filosofo del pensiero che viene oggi celebrato. Era un virtuoso, per molti versi sì, lo era. Però possedeva un vizio. Un unico vizio. Ne basta uno per devastarti l’esistenza. Era un giocatore. Perdeva molto, come quasi tutti i giocatori. E per pagare i suoi debiti, per risarcire i suoi strozzini, ha compiuto nefandezze imperdonabili.

    3 Sua moglie Mary morì dopo aver messo al mondo una bambina. Mio padre² diede alla mia sorellastra lo stesso nome dell’amata perduta. L’aveva perduta, sì, eccome. Però non si rassegnò al lutto. E non provò a superarlo. Prese gli occhi della moglie e li conservò in un’ampolla di soluzione. Ci galleggiavano dentro, come pesci irresoluti. Riuscì a conservare la parte destra dell’encefalo e quel poco che era rimasto della parte sinistra. Il ghiaccio in cui aveva posto l’intero cervello per pochi minuti prima del travaso in un altro contenitore di soluzione, non era infatti servito a tenere lontani i ratti che avevano banchettato. Ma a lui questa aberrazione non bastava ancora. Proprio perché era un giocatore disgraziato, non si accontentò di non saper accettare la perdita. Non volle smettere di giocare a quel gioco. Ci riprovò. Decise di riportare in vita il suo amore morto.

    4 Willy (così erano soliti appellarlo i suoi amici ed io farò finta di essere uno di loro) aveva iniziato a frequentare un tale conosciuto in una bisca di lusso, nei sotterranei di Baker Street. Quel tipo parlava un francese dal forte accento tedesco. Diceva di chiamarsi Franz Anton Moreau. Era un chirurgo, appassionato di elettricità e di pittura. Aveva viaggiato molto, qualcuno mormorava, anche su navi negriere. Aveva vissuto alle Antille, qualcun altro rincarava la dose di sospetto, imparando e praticando la magia nera. Non poche malelingue insinuavano persino che fosse un ebreo. Non sai quanto antisemitismo fosse ancora diffuso in Europa in quell’inizio del XIX secolo. L’antisemitismo è un virus dormiente nel sangue del cristianesimo. Basta uno stronzo qualsiasi e l’ignoranza di molti vili per risvegliarlo. Come fanno sempre, quasi alla metà del Novecento, rimasero solo i tedeschi a crederci davvero. Perennemente in ritardo sulla storia, sempre per ultimi e sempre ossessivi, patologici, sciagurati in pregiudizi ormai superati da tutti gli altri. I tedeschi³, capaci di insistere, nonostante Napoleone, con la boutade di un sacro romano impero, addirittura fino alla fine della prima guerra mondiale… Ma ti stavo dicendo del dottor Moreau. Qualcuno più perfido tra quei maldicenti, oltre a sostenere che il cognome dell’uomo fosse in realtà Stein, aggiungeva anche che il medico fosse stato espulso dalla comunità ebraica del suo paese. La cherem sembrava averlo colpito, come era successo a Spinoza, quasi due secoli prima.

    5 Il dottor Moreau dava prova, per pochi intimi facoltosi, di cadaveri che riconsegnava ad una vita momentanea a mezzo di scosse elettriche. Non solo i cadaveri per brevi eppure, ti garantisco, lunghissimi secondi si muovevano, ben al di là dei sussulti causati alle rane, ma, seppure raramente, parlavano. Poche parole. Molto sconnesse. Sgrammaticate, con una sintassi approssimativa ed un periodare sciatto e ricco soltanto di luoghi comuni, intrisi di bigottismo. Tu che sei un figlio del XXI secolo, almeno del loro modo di discorrere, non ti saresti stupito.

    6 Per pagare le prestazioni del dottor Moreau mio padre si indebitò ancora più profondamente. Il tragitto notturno del carro dello scienziato dalle camere mortuarie degli ospedali dei sobborghi fino al laboratorio allestito nelle cantine della libreria di mio padre, durò per quasi una settimana. In quei sette giorni, con la complicità strapagata dei becchini, prelevarono una dozzina di cadaveri di donne dagli obitori. Dall’assemblaggio di quelle carcasse Moreau cucì un corpo e riuscì ad accendere in questo una vita, seppure provvisoria. Ma quale non lo è? La derelitta doveva essere ricaricata d’elettricità almeno una volta ogni trentasei ore. Altrimenti si sarebbe spenta. Ed i suoi tessuti avrebbero ripreso a marcire. Unica alternativa che le avrebbe concesso una maggiore autonomia sarebbe stata la pila elettrica, ma mancavano ancora quasi due anni a che Volta la inventasse. E sarebbe stato comunque un bell’ingombro da portare sulle spalle o inserito quale ospite osceno in uno degli orifizi disponibili. Per il resto la donna sembrava essere allegra. Era viva, in qualche modo. Mio padre la adorava. Con dell’acqua benedetta, rubata nella vicina cattedrale di san Paolo, la battezzò, la nomò Wolly. Della sua moglie defunta quella creatura aveva solamente gli occhi, l’emisfero destro del cervello e l’esigua poltiglia restante del sinistro. Era nata già adulta. E però ragionava come una bambina e, talvolta, come una vecchia, appena un po’ rimbambita. Era di una bellezza sontuosa. Ma le suture con cui era stata rappezzata rimanevano di empia evidenza, specie sul viso e sul collo esilarati dalle scollature degli abiti della defunta signora Godwin che Willy le faceva indossare⁴. Era prigioniera delle grotte sotto gli appartamenti di mio padre. Non emergeva mai da quelle profondità. Willy non voleva correre il rischio che qualcuno potesse vederla. Le portava lui stesso qualunque cosa le occorresse, soprattutto cibo e libri. No, non era come capita oggi alla maggiore parte dei tuoi contemporanei, innamorata dell’idea di libro e non preoccupata del suo contenuto. Non era infatuata superficialmente di un posa stereotipata, banalissima che ciarla e smozzica, con fare inconsapevolmente blasfemo e senza connessione, frammenti di una poesia e di un’arte che non disturbi troppo il pensare rachitico ed i sospiri pieni di paura per la vita. Feticisti non come un sincero selvaggio. Feticisti come uno stupido moderno superstizioso. Meglio allora amare un piede. Wolly aveva piedi magnifici, perfetti.

    No. Lei nei libri cercava qualcosa. Non le interessava lo scrigno. La concupiva il tesoro. Non si distraeva, non si dilettava. Lei lavorava mettendo insieme i pezzi di quel sapere sparso, disseminato qua e là senza apparente logica, proprio al medesimo modo in cui pezzi diversi di persone dissimili e defunte avevano composto il suo corpo e le avevano donato una così strana vita.

    7 Forse perché costruita con materia morta, Wolly non aveva necessità di dormire. Restava per ore, durante il sonno degli altri, laggiù a riflettere e a studiare e a praticare le arrampicate pericolose del pensiero, in attesa che il mondo si risvegliasse. Di mangiare, invece, non era mai sazia. Era tormentata da un appetito famelico. Ma non ingrassava. Del resto le sue funzioni di malattia, di invecchiamento e di usura in genere erano come congelate. Mio padre portava giù cassette intere di carne che lei preferiva cruda. Era altrettanto vorace di sesso ed estenuava il povero Willy. Questo faticava, spesso senza riuscire, nel darle la soddisfazione pretesa. Da uno di quegli schizzi fui concepito io.

    8 La notte di Capodanno del 1802, la mia sorellastra Mary, portata per mano da Willy, scese le scale e venne ad augurare a me e a mia madre un felice anno nuovo. Era una bimba dolcissima⁵. Ne ricordo la generosità nel farmi dono dei suoi giocattoli più belli. Aveva una malinconia sublime nello sguardo. L’opacità struggente che è stata propria all’universo nelle prime centinaia di migliaia d’anni. Il velo di un senso di colpa, più o meno conscio. Partorendola sua madre era morta. E lei questo, sebbene pargoletta, lo aveva però già capito. Mio padre dopo poco si addormentò accanto alla minuscola stufa che tentava di riscaldare il gelo del sotterraneo. La grotta che io e Wolly chiamavamo casa. Presto cedetti e il sonno prese anche me. Perché se ereditai dalla mia genitrice una straordinaria longevità, per la quale sono imbalsamato in questa perenne adolescenza, immune ai malanni comuni e alle ferite più gravi, e in grazia di cui ho finora evitato di avvicinarmi alla morte, cionondimeno ho sempre abbisognato di un paio d’ore al giorno di riposo. Un biascicare liquido s’insinuò nel mio sogno dove ero il capitano di un brigantino nel mezzo di una tempesta e la mia cabina era sconquassata dal vento e frustata dalle onde… il potere della letteratura, le letture cui ero obbligato da quella vita catacombale… simile all’acqua quando trasparente s’insinua tra le assi di una parete prima di sfondarla. Era il rugumare delle mascelle. Mi ridestai. Vidi mia madre, Vidi Wolly. Vidi quel mostro che stava mangiando la piccola Mary. Mi sorrise, dolce, materna, come al suo solito. La carne ed il sangue della mia sorellastra morta le traboccavano in mezzo ai denti. Forse tra quelle zanne c’era anche il diavolo, forse persino il romanticismo, ma io non vidi né l’uno né l’altro. La morte quella sì, la vidi. Wolly era serena come lo è un leone o qualsiasi altra fiera che si nutra senza alcuna intenzione di malvagità, né insensato rimorso. Fu uno dei rari e preziosi momenti in cui l’esistenza, sempre tanto avara di significato, ci dona, per una distrazione da ubriaco, l’abbaglio di una consapevolezza. Così fu infatti che io compresi la differenza tra un dantista ed un dentista⁶. Di fatto salvai un unico dentino sanguinolento e da latte della miserrima Mary. Lo riposi nel sacchetto di pelle, confezionato con gli scarti di quella dei cadaveri usati per fabbricare mia madre e donatomi da mio padre perché fosse il mio amuleto; il medesimo che portai a lungo, con un budello ritorto a far da collana, appeso al collo. Quivi, scroto atto a sostenere i testicoli della mia spiritualità, avevo già in precedenza messo tre peli di mia madre la cui villosità non smise mai di sbalordire la mia veglia e di torturare i miei sogni di fanciullo⁷.

    9 Godwin sostituì la piccola Mary. Da una abietta vedova, dedita alla prostituzione ed instupidita dal male del suo mestiere, che di figli ne aveva troppi, mio padre comprò per poche patate una bambina. Fu questa a diventare la nuova Mary. L’autrice famosa a cui Willy nel 1818 pubblicherà Frankenstein o il moderno Prometeo, commissionato per poche sterline nel 1816 all’indigente, drogato, ignorantissimo poeta Shelley che non vorrà il suo nome su un prodotto così plebeo qual è tuttavia un romanzo. Sarà sempre quella simulatrice a diventare l’amabile vecchietta scrivente storie gotiche a bassa intensità, nell’ipocrita età vittoriana. Onesta gallina della letteratura inglese. E a sostenere la causa del nazionalismo presso i popoli troppo arretrati per potersi permettere il lusso di aspirare ad una visione imperiale. Sovvenzionava, insieme alle sue compagne di salotto, tra carte da gioco, thè, biscotti e madrigali sonati al pianoforte, proprio come è costume nei circoli di carità votati all’istruzione di base dei bambini proletari, tra i molti anche il brigante italiano Giuseppe Mazzini, uomo corto di pensiero e d’azione spessissimo fallace. Te lo dico per averlo conosciuto di persona e per essere stato costretto proprio dalla New Mary (l’ho sempre chiamata così) all’incauto gesto di prestargli del danaro. Il losco genovese non fu mai sfiorato neppure dall’ombra del proposito di restituirmi la somma. Quanti personaggi che riempiono le piazze con i loro monumenti erano mediocri e vili e quanti meritevoli sono invece dimenticati o persino rimasti sempre ignoti al mondo cretino ed ingaglioffito⁸.

    10 Seguii mio padre in fuga dai creditori fino a Roma. Dopo poche settimane eravamo già in una situazione economica peggiore di quella lasciata in Inghilterra. Non che gli strozzini romani fossero più crudeli di quelli londinesi. Avevano però, a differenza dei loro colleghi britannici, un ghigno sul viso che diceva quanto fossero contenti della nostra disgrazia. Willy iniziò a pensare di vendere il quadro che Moreau aveva dipinto ed aveva donato a Wolly quando mi aveva partorito. Era una rappresentazione macabra di me appena nato e di Wolly che mi teneva tra le sue braccia, nella più classica delle pose a cui ci hanno abituato secoli di quadri con madonne vergini e bambini santi. La bisca dove Godwin andava a giocare tutte le notti era nelle cantine di un bordello accanto al manicomio di Santa Maria della Pietà. Sulla strada le urla del piacere e quelle del dolore arrivavano confuse. La tenutaria era una ex cortigiana con amicizie importanti tra i porporati del Vaticano. Fu lei a convincere mio padre a vendere il quadro ad uno dei suoi mecenati, un onesto porporato di cui si fidava. Lo sventurato compratore veniva rinvenuto morto proprio nel giorno di quell’acquisto, come avrei saputo molto tempo più tardi. Della pittura, da allora, si perse la notizia.

    11 A Willy non bastò vendere il dipinto. Fu costretto a vendere anche Wolly alla signora Badessa. Ma non fu possibile vendere il corpo di mia madre ai clienti del bordello. Nessuno tra gli avventori, nemmeno il più intrepido o stordito dall’alcool o dalle droghe, fu in grado di vincere la paura che lo sguardo di Wolly esercitava sui mortali. E però, tutte le notti, Badessa la voleva con sé, perché officiasse a chissà quale misteriosa cerimonia. La cosa andò avanti per quasi tre mesi. Finché un mattino non vedendola rincasare mi recai al bordello. Chiesi di mia madre ad uno degli scimmioni che stavano sempre sulla porta piccola del palazzo, l’unica aperta. Questo, come se io fossi stato un cane molesto, senza rispondere, mi diede un calcio. Caddi sulla schiena. Battei la nuca. Vidi il cielo, era pieno di luce⁹. E piansi. Mi risollevò Badessa. Fu amorevole. Mi invitò ad entrare¹⁰. Passando dalla porta¹¹ colpì col suo piccolo bastone di legno il capo quasi calvo e crostoso del bestione che s’era genuflesso per scusarsi della sua avventatezza nei miei confronti. Badessa mi chiese se avessi già mangiato. Ed io le dissi che no, che avevo fame.

    12 Appena mi fui ripreso Badessa mi spiegò che il cardinal Vetala, suo nemico di vecchissima data, aveva deciso di portare Wolly con sé in una missione diplomatica nella Terra della Sera, l’estremo occidente che per noi in quel tempo erano le Americhe. Badessa con una barca veloce mi portò sul Tevere fino ad Ostia, perché io potessi ricongiungermi con mia madre. Un ombrello rosso la riparava dal sole, fortissimo quella mattina. Badessa sembrava un fiore fresco, appena sbocciato e mosso dal vento. Ogni tanto mi guardava¹². E rideva. Era un tintinnio la sua risata.

    Anch’io la osservavo. Preoccupatissimo di non arrivare in tempo. Mi meravigliava il fatto che quella donna fosse così giovane ed insieme sembrasse però vecchia. Era bastevole il mutare lieve della luce sulla sua faccia per far sì che cangiasse pure la sua età apparente¹³. Arrivammo al porto. Era troppo tardi. La nave, la Brunilde, era partita. Stava lì, oscillante sul solco che divideva in due metà esatte lo spazio del pelago tra me e l’orizzonte. Piansi per la seconda volta quel giorno. Badessa mi abbracciò. Mi disse di farmi coraggio. Che avrei potuto imbarcarmi su un’altra nave e raggiungere mia madre. Le nuvole s’erano fatte nere. Badessa emise un profondo sospiro. Principiò a soffiare un vento fortissimo. L’ombrello rosso volò via dalle mani di Badessa. E lei scoppiò a ridere vedendolo volare precipitando verso quella voragine d’oscurità senza fondo, lassù in alto. L’imbuto di non so che inferno. Anche il Tirreno faceva respiri sempre più profondi. Sollevava le acque viola fino a farne montagne. Badessa mi trascinò lontano dal molo, ben oltre la riva che s’era già riempita della schiuma dei marosi. Dalla balconata di una locanda, come sul loggione affollato di un teatro, insieme ad altre gentildonne e ad altri gentiluomini, ci riparammo per la pioggia scrosciante violentissima sul mondo. Vidi la Brunilde, a vele ammainate, arrampicarsi lenta sull’altura ripida di una delle troppe onde e… superarla… per scivolare veloce nella vertigine d’abisso che s’apriva subito dopo, prima dell’ulteriore vetta impennata del mare. Rimanevo zitto tra le vocalizzazioni bofonchiate e le apnee dell’ansia di quel pubblico poco discreto intorno a me. Finché una gobba enorme si squarciò di schiuma ed inghiottì la nave che sparì.

    13 Solamente a notte piena la calma tornò sulle acque. Il mare rigurgitò un po’ alla volta i resti della Brunilde e gli annegati sulla spiaggia. Le guardie francesi tentavano di contenere gli sciacalli, ma il buio non aiuta mai gli umani a comportarsi con decoro. Furono accesi dei falò. Le prostitute ed i soldati e le gentildonne ed i gentiluomini vollero segnare la disgrazia di quel naufragio con una danza luttuosa, lenta, circolare, meccanica, intorno alle fiamme. Si accompagnò ai tagli di luce che faceva il fuoco su quella gente una lamentazione funebre, stonata a tratti in una maniera oscena. Stando attenti a quel suono modulato ci si indovinava facilmente dentro un’eco di tromba e il cantico delle creature maligne quando trapassano per una porta, a stento aperta da noi, fin qui, in questo che crediamo il nostro mondo. Badessa mi teneva per mano. Attraversavamo, senza uscirne, quel carnevale notturno. Le facce degli umani erano stranite di trucco eccessivo, i pagliacci dell’antico teatro italiano. E gli occhi incendiati dalla medesima febbre che infettava pochi decenni prima le baldorie romane, durante i giorni di festa popolare precedenti il rogo degli eretici o le decapitazioni a cui assistevano anche i pittori migliori. Dinanzi a Tor San Michele mi accorsi di essere solo. Badessa non c’era più. L’avevo persa tra la folla. Nell’oscurità intravidi, come oltre la trasparenza insolita del sipario lacero che a volte protegge il futuro, degli uomini picchiarne a morte un altro. E poi vidi accanto a me, in una rarefazione più perlacea della nebbia fredda, la piccola Mary che mi sorrideva, dolce, come non fosse mai trapassata¹⁴. E poi, ancora, fui distratto dalla voce di mia madre Wolly.

    -Eugenio! Eugenio! Eugenio!

    Mi chiamò per tre volte. Ed io la tradii per altrettante volte, ricircolandomi e non riuscendo a scorgerla, né, in quella confusione, a capire il dove e la lontananza dalla quale mi avesse chiamato.

    Novecento

    1 A spasso sul pavimento della Sistina. Cercavo di non farmi trascinare dalla corrente dei vortici cosmateschi, ma di resistere ai gorghi secolari che potevano facilmente annegarmi. Gennaio era là fuori. Ne sentivo l’odore. E là fuori c’era anche il 1944, riconoscibilissimo. Il cardinal Vetala si fermò. Mi porse il suo braccio.

    -Volete sostenermi? Voi sembrate così giovane. Ed io, sono sempre più spesso soggetto a vertigine.

    Mi sorrise, affogato dentro le sue rughe. Lo presi sottobraccio. Continuammo il nostro lento cammino dentro quel vuoto contenuto a stento dalle pareti.

    -Questa ossessione per il tempio di Salomone. La cabala opprime ed esprime il nostro piccolo mondo. Questo numero settanta ripetuto all’infinito. Persino i nostri amici dell’altra sponda del Mediterraneo hanno giocato con l’idea di settanta vergini. Settanta vergini in un solo paradiso¹⁵? Troppe, non vi pare?

    -Secondo alcuni settanta è il numero dei discepoli di Gesù.

    Dissi, per darmi un tono e per spingere, calciandola, la conversazione un pezzettino in avanti.¹⁶

    -Bravo, ragazzo mio. Siete una creatura coscienziosa. Giordano Bruno, il domenicano che preferì bruciare, era tormentato dal numero trenta. Sapeva bene, il meschino, quanto questa cifra specchiata producesse il 60 e sapeva, altresì, che tutti quegli angeli allo specchio mostrano però, se correttamente osservati, d’avere soltanto dieci teste, le dieci teste della perfezione. Trovate piacevole questa cappella?

    Rimasi in silenzio¹⁷. Il cardinale si fermò, mi guardò, mi sorrise. Meno grinzoso stavolta. Appena, ma significativamente più giovane. Aveva canini lunghi. Ed occhi intelligentissimi, ricchi di troppe luci. I nostri piedi ripresero a muoversi e lui a parlare:

    -Io l’ho sempre trovata molto triste. Forse perché sono io ad essere triste, mi direte voi, vero Eugenio?

    Erano decenni che nessuno mi chiamava più così. Vetala sbuffò qualche chicco di riso dal naso affilato.

    -So chi siete davvero. Non datevene pensiero, piuttosto abbiatene terrore. Il vostro segreto è al sicuro dentro di me, forse.

    Si fermò davanti al Giudizio¹⁸ di Michelangelo.

    -Guardate quanto azzurro. Tutti quei costosissimi lapislazzuli, solamente perché i materiali, da contratto, erano competenza di Clemente VII. Il figlio bastardo degli strozzini di Firenze. La proverbiale tirchieria con cui la bellezza si concede agli uomini. Il giudizio di un dio è la migliore tra le millantate menzogne.

    -Non amate l’opera di Michelangelo?

    -Ineccepibile. Ma non ne ho mai fatto una questione di estetica. L’arte è tale se straniante o, ad accontentarsi, epifanica… comunque, nello specifico del trattato, preferisco il Giudizio di Blake, l’amico di vostro padre Willy. Meraviglioso nel suo bianco e nel suo nero e nelle sue gerarchie di grigio aggrumate in arenarie, combuste in fuoco gelido. Ma veniamo al vostro problema, caro Eugenio. Dopo risolveremo il mio. La vostra amica è molto dotata ed anche bella, che non guasta- si godette la pausa -ed è ebrea. Voi avete bisogno di farla sparire, di metterla in salvo, giusto?

    -Giusto.

    La parola mi pesò.¹⁹

    -E il vostro alto grado in quell’ordine circense chiamato Schutzstaffel voluto dal

    vostro piccolo fuhrer, non vi è di alcun aiuto, anzi…

    -Anzi.

    -La vostra amata sa chi siete davvero? Ammesso che qualcuno possa saperlo, all’in fuori di me?

    -No.

    -Cosa sareste tutti senza la protezione tiepida di un io? Una chiocciola per una lumaca indefinibile. Quanto pesa la vostra anima, Eugenio? E quella della vostra amica?

    -E’ prevista una pesatura per le anime?

    -Forse. Ammesso che ne esistano.

    -Dunque anch’io, nonostante le evidenze, ne avrei una?

    Mi rispose con un’altra domanda.

    -Sapete cosa c’era qui sotto?

    -Sì. Un cimitero etrusco.

    -Prima di essere un cimitero questo colle era un terreno per i rituali di quella magia che i Romani hanno sempre preferito far compiere agli Etruschi. La liturgia e il suo mistero.

    -Magia nera²⁰.

    -No, ragazzo mio, nera lo diventa solo quando la storia crede di averla annientata.

    Infilò gli occhi dentro i miei. Di sguardi dolorosi ne avevo sostenuti tanti e potenti, però quello mi fece male.

    -Sapete chi sono?

    -Il cardinal Vetala.

    Non sorrise. Continuò ad arpionarmi con lo sguardo²¹. Ero la sua balena ed era inutile dibattersi, avrei fatto soltanto molta schiuma. Gli dissi quanto credevo di sapere sul suo conto.

    -Dunque, in pieno novecento, c’è ancora qualcuno come voi, Eugenio, disposto a credere ai vampiri.

    -Sono in errore?

    -Tutti lo sono, ma questo è un altro discorso.

    Intanto che il giorno là fuori stava morendo dissanguato, il cardinal Vetala, ora giovane più di quanto potessi ricordare di essere mai stato io, si divertì a spiegarmi che i Vampiri sono di sesso femminile anche se il sesso ha poco rilievo nell’esistenza noiosissima di un vampiro. Mi disse che anche Giuda l’Iscariota era un vampiro. Un tipo in gamba. Anzi una tipa precisò. Aveva morso Gesù appena morto per crocefissione. Lo aveva fatto per amore. Un amore nero, profondissimo, cupo. E il nazareno era infatti risorto dal sepolcro il terzo giorno. Nella realtà dei fatti s’era risvegliato alla sua nuova vita, alla sua nuova natura Si era subito manifestato alle donne nel giorno di lunedì. E, affamato com’era, non aveva potuto evitare di mordere le derelitte e di mutare anch’esse in vampire. Poi la medesima sorte mesta era toccata ai discepoli di Emmaus, tranne che a Tommaso; questo, velocissimo per la paura, riuscì a correr via ed a mettersi in salvo insieme alla Maddalena, per un pelo. Vetala sottolineò questa espressione con un ghigno²², lasciandomi intendere un doppio senso per niente sotteso e alquanto volgare a cui non volli dare seguito. Gesù aveva perdonato Tommaso e la Maddalena ed aveva augurato a tutt’e due ogni bene, lo stesso poi fece benedicendo gli scettici di ogni tempo e di ogni luogo.

    -Dovrei credervi pure in questa blasfemia?

    Domandai. Riuscii così a farlo ridere. Non fu per niente facile ascoltare il suono della sua ilarità.

    -La blasfemia è credere nel falso. E professarlo.

    -Da chi avete sentito questa storia folle?

    -Da nessuno. L’ho vista, coi miei occhi, caro ragazzo. Chi pensate fosse l’angelo che apparve alle povere donne annunciando loro la resurrezione del nazareno? O siete convinto di essere soltanto voi quello in grado di vivere a lungo?

    -Poi che altro successe?

    -Curioso, vero?

    -Vero.

    -Il povero messia non riuscì mai ad elaborare il lutto per la sua morte. Né ad accettarsi per ciò che era diventato. Men che mai, per giunta, il suo essere femmina. Dopo soli quaranta giorni di bisboccia sparì.

    -Sparì?

    -Sparì. Secondo alcuni, i più stupidi, divenne il capostipite dei re di Francia. Secondo altri, i più avvertiti, si suicidò e, per non subire la dannazione eterna del vampiro, lo fece decapitandosi. Secondo altri, molto più estremisti, i meno attendibili, si suicidò, secoli dopo i fatti di Gerusalemme, in un bunker a Berlino, dopo aver sposato la sua compagna, una donna dal nome impegnativo, Eva. Ma questa ultima versione non può ancora riguardare voi, Eugenio, per voi è ancora il futuro.

    -Secondo voi, cardinal Vetala, qual è la verità su questa storia?

    -Secondo me la vera storia di Gesù è quella raccontata da Nick Tosches nel suo divertente romanzo Sotto Tiberio.

    Fuori dalla cappella c’era Roma e c’era la notte. La Sistina era imbozzolata dentro un’ombra grumosa di iridescenza . Vetala volle parlare ancora. Mi disse che i vampiri hanno una visione aristotelica del cosmo. Abbiamo chiaro il firmamento, come confine immobile ed estremo di questo teatro e cintura della speranza umana che contiene a fatica l’eternità. Io aspettavo che arrivasse al punto, che mi chiedesse cosa pretendeva in cambio per fare salva Simona e la sua bambina, la dolcissima Anna. Ma sapevo che non avrei dovuto tradire la mia impazienza. Come poter non tradire qualcosa ad uno come il cardinal Vetala?

    -La vita che nasce è l’omuncolo minuscolo, già completo dentro il seme, si alimenta succhiando il sangue²³ della madre…

    Era fissato col sangue. E chi non lo era dopo quattro anni di guerra totale? Poi, all’improvviso mi colpì:

    -Sapete Eugenio che vostra madre è viva? Se questa parola può essere detta senza ironia riguardo vostra madre.

    -Wolly?

    -Posso aiutarvi con la vostra amica Simona. E posso garantirvi anche la salvezza di sua figlia Anna. Non posso promettere²⁴ che non sappiano quale sia la vostra vera identità.

    -E’ questo il prezzo per la loro salvezza?

    -Non solo questo. Posso giurarvi che farò il possibile per aiutarvi a ritrovare… Wolly.

    -Che volete da me?

    -Il quadro.

    Feci finta di non aver capito. Sogghignò misericordioso. Lo stavo divertendo.

    -La tavola che Moreau dipinse e regalò a vostro padre Godwin.

    2 A bordo di una Zundapp passammo il posto di blocco davanti Porta san Giovanni. La via Appia era davanti a me che guidavo e a Badessa che, coi capelli al vento, se la rideva. Badessa aveva incordato soltanto i capelli delle sue tempie in due trecce bionde. Queste, scudisciate dall’aria, altalenavano il viso di Badessa tra una vecchiezza estrema ed una gioventù immarcescibile, tra la ruvida mascolinità d’un vichingo incazzato e la femminilità aurorale d’una vergine sposa. Sembravamo una coppia di innamorati in gita. Verso i Castelli o verso le campagne intorno a Cinecittà. Badessa mi diede un colpo del suo bastone di noce sulla spalla.

    -Fermati qui.

    Urlò. Io rallentai ed accostai su via Albalonga. Badessa si sollevò sulle braccia e saltò fuori dall’abitacolo. Agile. Più di una fiera.

    -Vieni con me. Parliamo.

    La caserma era in fondo alla strada. C’era un po’ di tramontana e Badessa alzò il bavero del cappotto, coprendo i suoi capelli alla moda, boccolosi²⁵.

    -Non ti trovo male. Eri un bel bambino e sei diventato un bel giovanotto.

    -Grazie. Anche tu sei sempre bella.

    -Io sono quello che voglio.

    -Perché hai voluto incontrarmi dopo tutti questi anni?

    -Cento e trentaquattro.

    -Esatto.

    Voltammo per la prima strada che incontrammo sulla sinistra. Iniziammo la leggera salita verso la chiesa di mattoni.

    -Cosa voleva da te Vetala?

    -Sono stato io a chiedergli un favore.

    -Per la tua amica?

    -Sì.

    -Lo sai che non potrai mai vivere con lei, vero?

    -Lo so. Ma non mi importa.

    -Vero amore. Bravo Eugenio.

    La osservai. Badessa era una delle ultime custodi dell’antica magia asiatica, siberiana e tibetana. Rasputin e Siddartha erano stati suoi discepoli.²⁶

    -Il principe indiano prometteva molto bene. Non si capisce come abbia preferito dedicarsi ad un prodotto di volgare intrattenimento qual è una religione di massa. Vero amore, anche il suo, bravo pure il piccolo grande budda.

    Mi disse. Leggeva nel pensiero. Quando voleva o quando poteva. Non mi era mai riuscito di comprendere appieno i limiti del suo potere. Lei e le sue sorelle si occupavano di scienza. In altri tempi le avrebbero chiamate streghe. Non avevano un sesso definibile. Erano perfetti esempi di ermafroditismo. Nei pochi giorni del 1810 in cui, dopo che ebbi perduto Wolly, si era occupata di me, mi aveva mostrato una sorta di bizzarro telescopio. Lei lo aveva chiamato il mio specchio magico. Attraverso quel coso Badessa era in grado di vedere oltre l’orizzonte cosmologico e, quindi, oltre il confine del Tempo, ben aldi là di quei soliti quindici miliardi di anni luce, arrivando a scrutare fino ai quarantasei miliardi che sono la vera estremità della cognizione. Quell’attrezzo, se correttamente regolato da sapiente mano, produceva un’inversione insolita della luce, tale da permettere di vedere, invece che il passato, il futuro, per altrettanti quindici miliardi di anni luce in avanti. In quei pochi giorni del 1810 che mi parvero un’eternità, Badessa mi aveva spiegato che l’attuale specie umana è una semplice specie di transizione. Ce ne saranno altre, non tutte migliori.

    -Pensi che i tuoi amici dell’ordine nero impiegheranno ancora molto a scoprire che sei una spia?

    -Lo spero.

    Ci fermammo davanti ad un cortile tra due palazzi di recente costruzione²⁷. Badessa vi entrò e mi prese la mano perché la seguissi. In pochi passi arrivammo al muretto che confinava il cortile. Su questo, con un saltino, si accomodò Badessa. Batté la mano sulla pietra accanto alla sua per invitarmi a fare altrettanto. Obbedii.

    -Qui, l’ultima volta che ci sono stata, non c’erano ancora i palazzi, c’era una giostra. Ti ha turbato sapere che tua madre Wolly potrebbe essere ancora viva?

    -Lo è davvero?

    -Non posso dirtelo.

    Stavo per replicare. Mi pose l’unghia laccata di nero del suo dito indice sulle labbra aperte, affinché tacessi. Non avrei detto niente di sensato. Lei lo sapeva. Badessa sapeva sempre tutto o quasi. Un essere irritante e prezioso²⁸.

    -Vedi Eugenio, ci sono cose che devi scoprire da solo. Il saperle da me avrebbe un effetto destabilizzante per l’esistenza della materia che perderebbe il suo fulcro e oscillerebbe, incontrollata, tra la materia e l’antimateria.

    -Stai scherzando?

    -Sì.

    Rise. Profumava di bellezza. Tornò seria. Mi fissò. Io le chiesi:

    -Perché Vetala vuole quel quadro?

    3 Vetala mi diede prova di aver messo al sicuro oltre oceano Simona e sua figlia Anna. Simona mi lasciò gli appunti di un suo studio sull’Iliade. Sarebbe morta suicida sei anni dopo. Era troppo stanca. La vita in certe circostanze diventa un dolore. Lo so. Prima si decide di finirla. E basta così. Il solo pensiero ci solleva. Le cose all’improvviso smettono di preoccuparci. Farlo a quel punto significa solo trovare il luogo ed il momento meno sbagliato, perché chi ci vuole bene non debba sopportare più del tanto che già gli stiamo chiedendo. E poi si fa. E mentre si fa si pensa che non era mica tanto difficile farlo. Quasi viene da ridere al pensiero di quanta importanza abbiamo dato a tutto questo gioco stupido. Io, quando lo venni a sapere, ne soffrii molto. Poche altre volte mi era successo. E non mi sarebbe capitato più. Sua figlia Anna, invece, avrebbe avuto, come dirò, un ruolo importante nella mia vita successiva, ma io questo, allora, ancora lo ignoravo. Iniziai a muovermi per ritrovare quel dannato quadro e mia madre. Mentre gli Alleati sbarcavano a Nettuno, mi recai appena oltre la linea del fronte, dieci chilometri a sud di Torre Astura²⁹. Dovevo incontrare un tizio, un contatto che mi aveva fornito Badessa. I lampi del fuoco del bombardamento, nella parte destra del mio cielo, mentre guardavo il mare, illuminavano gli alberi della pineta, sembravano animarli e muoverli a scatti tutti verso un unico punto di fuga che mi rimaneva invisibile. Il prodigioso del pirotecnico si elencava nelle scie dei proiettili dell’artiglieria USA. L’operazione Shingle. Avevo indossato abiti civili. La mia divisa da Obergruppenfuhrer sarebbe stata trovata addosso al cadavere decollato che avrebbero identificato con me. Nell’attesa, oltre al freddo, mi faceva sempre ed immancabile compagnia il rudere della voce della mia sorellastra Mary o, forse, solo la voce di quel feticcio, dannato scroto della mia presunta anima³⁰. In quell’aspettazione malaccetta ebbi pure il tempo per strappare, finalmente, dal mio collo e dal mio cuore, quell’immondo scroto col suo immondo contenuto. E non per scandalo, ma per liberazione lo scagliai nel mare nero che in quella notte lo inghiottì. La voce disparve. Però, da allora, io iniziai a provare i primi vertiginosi vuoti di memoria che tanta parte ebbero nel mio cimento successivo. L’omino vestito di stracci, più simile ad uno spaventapasseri che ad un umano, aveva occhi furbi, piccolissimi, di sola pupilla. Parlava il suo italiano con il forte accento burino di quelle contrade. Gradevolissimo. Mi portò in una stalla. Si faceva luce con una torcia elettrica del fu regio esercito italiano. Mi spiegò che di animali non ce n’erano più.

    -I surdati se li so’ magnate tutte.

    C’era puzzo di carne bruciata. Carcasse spolpate di mammiferi erano sparse un po’ dovunque sul mattonato sconnesso e rotto del pavimento. Riconobbi i cadaveri di qualche essere umano carbonizzato. L’omino sorrideva. Cosa ci fosse di divertente in quella miseria disperata potevo soltanto immaginarlo e la risposta plausibile, combinata con la certezza che quell’essere fosse al servizio di Badessa, non mi tranquillizzava.

    -Vene, vene appresso a me.

    Si infilò verso le mangiatoie che furono dei maiali. Prese un piccone senza manico e con quello ruppe il sottile muro di mattoni. Si mise in ginocchio, poggiò in terra la torcia perché gli facesse luce ed infilò le mani nel buco che aveva appena fatto. Ne estrasse una busta. Me la mostrò come un ginecologo mostra il neonato alla mamma spossata.

    -Lu si vistu?

    -Cosa?

    Rise, riprese la torcia, si rimise in piedi. Mi ripropose la busta tenendola tra le dita. Con il pollice a cui mancava l’ultima falange picchiettò sul nome del destinatario. Lo lessi sottovoce:

    -Heinrich Mann-California…

    4 Sbarcai a Los Angeles, privatamente, il giorno della seconda bomba atomica, il Fat Man, su Nagasaki. L’oceano era lì davanti a me. Se ne fregava della fine di quella guerra disgraziata. Come se ce ne fossero di fortunate… Se ne fotteva altresì della bomba. E dell’impero dei Nippo. Oltre quell’oceano non c’era più Occidente. L’Occidente finiva lì. Il mondo, ormai, finiva lì. E basta. Inutile prendersi in giro. Avevo con me alcune lettere di presentazione di eminenze più nere che grigie della diplomazia inglese, già ben consapevoli di come l’impero britannico fosse giunto al capolinea, e della necessità di presiedere allo smontaggio della struttura ricavandone il massimo profitto e riciclando i materiali migliori. Inoltre disponevo, per averle ricevute da solerti funzionari dell’OSS (le due esse in sequenza continuavano a perseguitarmi) anche credenziali diplomatiche e documenti nuovissimi, con neonate identità desiderose di farsi sverginare dal sottoscritto, sempre identico e sorridente nella foto ufficiale che campeggiava in ogni foglio filigranato e timbratissimo. Erano tutti smaniosi di premiarmi per il lavoro di intelligence svolto nel conflitto, interessati alle mie consulenze future ed impazienti di guadagnare la conoscenza ed il credito presso il mio entourage occulto. L’estate era ovunque. Ma anche di giorno sembrava notte. Dapprima attribuii la cosa al cambio di fuso orario. Ma poi compresi di che si trattava davvero. Era lo spettro³¹. In effetti, a tutti gli effetti, uno spettro si aggirava per l’America: era l’Europa. Heinrich Mann mi ricevette, cosa rara visto il suo stato mentale. Il suicidio della moglie l’anno prima ed anni di esilio³² lo avevano portato in quella regione estrema e poco frequentata della letteratura dove, come nella fascia di Kuiper del sistema solare, il ghiaccio, la rarefazione, la distanza dal sole e da pianeti significativi, obbligano alla verità. Ne trovai in seguito traccia evidente nelle memorie che proprio in quei giorni aveva licenziato per la pubblicazione e che io assaporai in francese anni più tardi. Con distrazione lesse il contenuto della lettera che gli avevo consegnato. Corrugò appena le sopracciglia. Si avviò al suo scrittoio e prese un’altra lettera sigillata che mi diede senza parlare, con un sorriso assente. La medesima cosa avvenne quando portai la seconda missiva al suo destinatario, il signor Bertolt Brecht. Questi fu appena più loquace di Heinrich Mann, si lamentò di Hollywood, disse cose crudeli su Charlie Chaplin e mi diede un’altra busta, senza mai sorridere. Mi recai di nuovo in casa Mann, questa volta, in quella di Thomas. La sua algida cordialità si risolse in un'altra lettera imbustata che mi condusse ad un altro destinatario, Theodor Adorno. Questo fu l’unico a domandarmi:

    -Lei, giovanotto, sa cos’è che sta cercando?

    -Spero di sì.

    La mia risposta parve essergli sufficiente³³. Ci concedemmo qualche battuta ancora, in stile beckettiano, prima che Theodor tornasse ad attenersi al copione già ben recitato dai suoi compatrioti. Mi affidò, infatti, un’altra busta indirizzata a Max Horkheimer. La scena si ripeté, con poche varianti, Horkheimer, prima di congedarmi con un’altra busta, mi invitò a cena³⁴. Per raggiungere la capitale viaggiai in treno³⁵. La pista della Scuola di Francoforte³⁶, esaurendosi, mi condusse, con un’altra lettera in busta chiusa, a Washington, da Herbert Marcuse, in quei tetri uffici dell’OSS che fino a quel momento non avevo avuto il dispiacere di conoscere di persona. Da lì raggiunsi il New Jersey. Mi si aprì, a mezzo delle consuete lettere chiuse, la via della scienza. Incontrai Albert Einstein e, procedendo da lui, Kurt Godel. Questo mi intrattenne sulla necessità di una corretta alimentazione. Mi spiegò come abbia importanza imprescindibile una dieta³⁷ personalizzata per conservare e potenziare la mente, mantenendola sufficientemente lucida da vedere l’espressione dell’infinito. Certo meglio sarebbe il poter non mangiare ed il poter non dormire, ma a questo arriveremo col tempo, col progredire della civiltà³⁸ Fu Godel a rispedirmi di nuovo sul Pacifico, a Pasadena, da Jack Parsons³⁹. Costui, amabilissimo, mi presentò il suo amico Ron Hubbard. Allora lo erano ancora. Lo scrittore di fantascienza si profuse in un blaterare insipido sulla natura degli angeli⁴⁰. Voleva far bella figura, prima che con me, con se stesso. Era perseguitato dall’incontinenza che lo costringeva ad inventare⁴¹. Gli si vedeva negli occhi vivacissimi. Più drogato che ubriaco. La specularità della natura, la sua simmetricità resta affascinante, sebbene non più misteriosa. La terra divisa in emisferi. Il cervello lo stesso. Disse. Mi fissava. Studiava qualcosa. Ciononostante non riusciva a trattenere quanto di me gli era stato dato di capire. Gli sfuggiva la comprensione dei lineamenti forti che caratterizzavano la mia maschera⁴². Cionondimeno fu proprio Ron Hubbard a darmi un’indicazione esatta affinché potessi mettermi sulle tracce buone per ritrovare il maledetto quadro di Moreau e, forse, Wolly, la mia mamma. L’America era sì il posto giusto. Ma non era giusto l’emisfero. Tanto per usare le analogie care ad Hubbard. Era nell’emisfero australe che avrei dovuto recarmi, in un posto dimenticato da dio (il quale non ha affatto l’egregia memoria che si è soliti attribuirgli), un luogo bislacco chiamato Nuova Germania.

    5 La mia memoria iniziava a presentare falle via via più consistenti. Frequentava la vasta gamma dei disturbi clinici contemplati dalla scienza psichiatrica, senza risparmiarsene alcuno. Sorte⁴³ o altro volle che io riuscissi ancora a circoscrivere le deficienze a brevissimi secondi della mia giornata e a governale con la severità del tiranno, per nulla illuminato⁴⁴. Impiegai più di un anno per arrivare in prossimità della destinazione che Hubbard mi aveva indicato e che Parsons aveva confermato come una delle più concrete per la mia ricerca. Lasciai Asuncion all’alba dirigendomi verso la colonia di Nuova Germania. C’era una specie di rivolta in corso da quelle parti. Ma, come immaginavo, feci i trecento chilometri di viaggio sulla mia jeep in assoluta tranquillità. Né fui ucciso, né fui costretto ad uccidere. Entrambe le cose, ad un certo punto della vita, sono le uniche davvero importanti. Il guerrigliero che comandava i Liberales scrutò il lasciapassare che mi portavo dietro, fingendo di saper leggere qualcosa d’altro oltre i timbri. Sorrise appena. Ebbi pertanto facoltà di apprezzare l’unico incisivo d’argento che abitava la sua gengiva superiore. Assunse un contegno serioso, ostentò tutta la santimonia di cui possa essere capace un capo rivoluzionario. Uscimmo dalla casa dove avevano stabilito il loro campo base. Al di là del giardino, nel viale, erano state messe, sotto un albero d’arancio, due scomodissime sedie biedermeier. Insistette perché mi accomodassi su una di queste. Uno dei suoi soldati ci portò due tazze di mate. La bevanda era stata ben riscaldata. Molti erano i falò accesi, alimentati con il mobilio della casa che fu di Elisabeth Nietzsche e da cui l’orribile signora⁴⁵ era assente da ormai cinquantacinque anni. Il piccolo condottiero mi disse che avrei potuto perquisire l’intera proprietà per vedere se mi riusciva di trovare quanto stavo cercando. Insistette perché bevessi ancora mate. La pioggia ci stava concedendo una lunga, insolita, tregua. Il minuscolo leader maximo aveva voglia di parlare. Il suo spagnolo era pessimo, il mio anche e la conversazione ne scaturì perciò felice. Desiderava⁴⁶ che gli raccontassi della guerra in Europa e della grande bomba inventata dagli USA. Ed io mi feci, per quasi tre ore mistagogo di un luna park le cui principali attrazioni cialtronesche erano la geopolitica, la storia, il pensiero umano.⁴⁷ Il mio ospite si appassionò. Su ognuna delle scalcinate giostre che esibii alla sua attenzione volle fare più di un giro. Alla fine della nostra chiacchierata s’era fatta sera. Com’è facile intuire, se non si usa l’opportuna prudenza in quei contesti, è subito morte. Rimasi in silenzio. Aspettavo un suo cenno rispetto alla mia missione. Lui indugiò, compiaciuto. Era il tipo che si diverte a prendersi il tempo che vuole, per ricordare così ai suoi interlocutori di essere il padrone del tempo, dunque: della vita e della morte altrui. Mi offrì uno dei suoi preziosi sigari. Volle farmi accendere perché notassi il magnifico accendino d’oro tra le sue mani sporche, saccheggiato ad uno dei possidenti uccisi nella sua guerra. Lo guardai soffiare il fumo nell’aria densa del Tropico del Capricorno. Ernesto Che Guevara avrebbe iniziato il suo viaggio in motocicletta solamente tra tre anni, ma io avevo già davanti agli occhi un suo precursore⁴⁸. Certo, meno fotogenico⁴⁹. Mi indicò un capanno per il fieno. E mi ci accompagnò. Il mobile in cui Elisabeth Nietzsche si era specchiata facendo la sua toeletta e scagliando i suoi malefici contro Lou Salomè, sebbene ridotto ad un reperto, era tuttavia quasi integro. Uno dei guerriglieri s’era assopito sul pavimento, troppo mate. Il piccolo comandante gli diede un calcio amorevole sulla spalla con la punta dello stivale. Quello si svegliò. Si rimise in piedi. Farfugliò delle scuse. Raccolse da terra il suo zaino, una statuetta di legno di Pachamama⁵⁰, la dea dei Quechua, ed uscì correndo.

    -La madre era peruviana.

    Disse il piccolo leader maximo, con più di una punta di razzismo. Sputò per terra. Bestemmiò qualcosa contro san Pedro, mi diede il lume a petrolio con cui aveva finora macchiato il buio ed appestato l’aria e mi lasciò solo. Mi avvicinai al mobile. Lo perlustrai. Illuminandolo punto per punto. Aprii i cassetti. Niente. Lo rovesciai per guardare sotto. Ancora niente. Lo rimisi su. Lo cribrai ancora. E finalmente notai qualcosa. Nel legno dov’era stato lo specchio erano stati fatti tagli con un coltello. Sembravano segni sconnessi. Diffidare delle apparenze? Diffidare, comunque e sempre. Specialmente quando ci visita l’illusione d’aver capito che non c’è più nulla da capire. Quei minuscoli sfregi marcavano sulla carne vecchia del legno una data, in numeri arabi: 1599. MDXCIX, avrebbero scritto i romani. Ma i romani si erano estinti, come i dinosauri, i quali però, fino a diversa prova, non facevano uso di numeri. Tornai all’aperto. La mia jeep era sempre lì che m’aspettava. Le macchine sono fedeli e hanno fede negli umani, anche in quelli come me che tanto umani non sono mica. Decisi di rifare il viaggio in notturna. Mi sarei costretto ad una velocità considerevolmente ridotta, ma Asuncion sarebbe stata laggiù, pronta per me, insieme all’alba. A mezzogiorno ero sullo C-47 che sorvolava l’oceano diretto a Roma. Volevo parlare di nuovo con Badessa. Se non fossi riuscito a strapparle qualche informazione in più, sarei stato disposto a rivedere persino Vetala. L’idea non mi allietava affatto, ma la trama s’era fatta davvero troppo fitta. La strega o il vampiro o chi per loro avrebbero dovuto mettersi dalla mia parte, per una volta almeno, esporsi come fanno i santi almeno una volta all’anno. Con questi propositi mi addormentai mentre il velivolo inseguiva il giorno nascosto da qualche parte laggiù, in Oriente. Fui risvegliato dai sobbalzi dell’atterraggio. Mi stropicciai gli occhi.

    -Buongiorno. Spero abbia riposato bene.

    Disse il pilota che stranamente mi sedeva accanto. Era una donna, somigliava a Badessa. La guardai con attenzione: no, non era lei.

    -Che succede? Perché sono qui nella cabina di pilotaggio?

    Quella non rispose. Aveva già terminato la frenata. Aprì il portello. E se ne andò. Si voltò senza fermarsi, solo per agitare la mano in un saluto. Enigmatica, ma educata. Quindi corse veloce verso l’edificio dell’aeroporto. Mi sganciai la cintura. E scesi pure io dall’aeroplano. Mi accorsi così che non ero più sul C-47 su cui ero salito ad Asuncion. Quello da cui ero smontato era un Cessna 172. Mi vennero incontro tre poliziotti in divisa ed uno in borghese che mi mostrò il suo tesserino da commissario.

    -Ci segua.

    Obbedii. Mi portarono in un ufficio al pianterreno. Un ufficio desolato, certo che sì. Due dei poliziotti se ne andarono. Quello che rimase con me ed il commissario sedette dietro un tavolaccio scrostato, davanti ad una macchina da scrivere. Il commissario, invece, sistemò i suoi glutei sulla sedia accanto alla mia. Mi offrì una sigaretta. Lo ringraziai. La presi e lui me l’accese. Il primo tiro mi procurò una nausea prepotente. Seguì una fitta di dolore su entrambe le tempie. Vidi il calendario appeso sulla parete. Era il 29 Ottobre del 1969⁵¹. Non trattenni il fiotto di vomito, lo sputai sul pavimento, tra i piedi del commissario. Ricordo d’averlo sentito urlare al poliziotto di chiamare un medico. Dopo, non ricordo altro.

    Oggi-Eugenio

    1 La canna del revolver proprio nel centro esatto della fronte. Quasi che persino una semplice fronte potesse permettersi il lusso di possedere un centro. Gli schiacciava il terzo occhio che s’era chiuso SUBITO per il riflesso condizionato dalla sopravvivenza e (in secundis) dal bisogno di non guardare la realtà e, ancora meglio, dall’impossibilità fisica, direi addirittura biochimica, di sostenerla… quando è troppo dolorosa. Gli scoppiò in bocca una risata. Incontenibile. Peggio della diarrea. La cosa, per fortuna, o per logica, lo svegliò. Era la fine di quell’incubo. Ne cominciavano altri. Veri. Oltre la palude del dormiveglia. Gli rimase un gran mal di testa… ed un saporaccio in bocca. Gli stessi che si ottengono con una notte consacrata all’autoannientamento eseguendo la liturgia dell’eccesso o dopo un amore intenso, breve o lungo non importa, comunque devastante. Il telefono era già lì, da questa parte del mondo che si illude d’essere desto.⁵² Squillava da un bel po’, il telefono. Non palesava la benché minima intenzione di smettere. Eugenio prese l’i-phone. Lo schermo diceva sconosciuto. Lui, fregandosene, decise di vellicare quella superficialità che esibiva l’ignoto. Ci strofinò sopra il pollice, opponibile e, nella migliore tradizione democratica, sempre attento, avvertito; sollecito nel fare opposizione al governo della mano. Eugenio, rauco, disse in un respiro, scontato per i saldi della convenzione:

    -Pronto.

    2 Alda, per esteso Romualda Marianetti, aveva chiesto la sua consulenza. Non prima di questa sera, le aveva detto Eugenio.

    -Dopo che ho finito di lavorare.

    -Il tuo lavoro potrebbe essere questo che ogni tanto fai per me.

    Aveva detto lei.

    -Non se ne parla.

    Aveva detto lui. Eugenio prestava opera di cameriere nel bar Sette di Campo de’ Fiori. Aveva compiuto cinquant’anni la settimana prima. Aveva ancora i capelli. Qualcuno addirittura nero. Il pene, se stimolato dalla persona giusta e nelle opportune modalità, gli si ergeva ancora e sbrigava il suo sporco e gradevole lavoro. Ad Eugenio non dispiaceva il suo mestiere. Era forse un’attività meno importante di quella portata talvolta fino in fondo dal suo pene, ma era pur sempre un modo onesto per campare. Ammesso che il campare possa avere a che fare con il lusso dell’onestà, altrimenti che saltuariamente.⁵³ Di cose in vita sua ne aveva fatte tante, Eugenio. E non tutte costumate, appunto. Troppe, gli capitava di giudicare, negli ultimi tempi. Forse la vecchiaia incipiente lo consegnava alla severità verso se stesso, invece che, come avviene sovente, verso il prossimo. Di molte si vergognava. Senza indulgere alla disgraziata pratica del senso di colpa. Né alla teoria ipocrita del pentimento. Meglio l’ossessione proficua del rimorso. Di poche, tuttavia, andava fiero. La maggior parte gli erano indifferenti. Le considerava come i sampietrini che stava calpestando adesso, mentre camminava. Strada. Niente più che strada da percorrere per andare da un punto all’altro della vita. Ecco: i punti. Gli snodi significativi. Da quelli era incuriosito. Li studiava, come un entomologo, contando le zampette ed ogni carattere del suo passato, ciascuno di quei momenti era stato un ponte verso una metamorfosi, o anche un banale cambiamento. La speranza di decifrare il passato. La smania di prevedere il futuro. L’illusione di riuscire a capire qualcosa della propria vitaccia, ogni tanto, per sbaglio, senza raccontarsi balle. Passò davanti alla Libreria Fahrenheit.⁵⁴ Distolse lo sguardo dalla vetrina della libreria, non prima di un’ultima occhiata ostile e livorosa al riflesso di sé.⁵⁵ Con gli ultimi passi arrivò, puntuale come un male ereditario, fino al bar dove il principale lo salutò con il consueto:

    -Il caffè lo vuoi, Eugé?

    -Sì, grazie, Sergio. Stamattina ce n’ho bisogno.⁵⁶

    -Io devo annà alla posta. Qui tanto ce pensi te, Eugè.

    Disse Sergio.

    -Sì.

    Disse Eugenio. Poggiò i gomiti sul bancone e guardò la piazza, là fuori. Galleggiava. Una zatterona di pietra. Immersa… conservata pure lei in formaldeide? in un, non si saprebbe mai dire che, mare d’aria.

    3 Prima del mezzodì che, nel solito crescendo rossiniano di aperitivi e dei primi pionieri della frontiera, del far west di panini e tramezzini e del desinare anticipato e frettoloso, annunciato ed avviato dal colpo del cannone sul Gianicolo⁵⁷, Eugenio, nel mezzo esatto della mattinata piena di sole, ebbe modo di sfogliare il giornale.⁵⁸ Si ricordò che Alda al telefono gli aveva parlato di Satana. Ancora tu… gli venne di canticchiare Battisti, Lucio, non Cesare. Lo sussurrò appena.

    -Ma non dovevamo vederci più…

    -Gli fece eco Imma, per esteso Immacolata Trocchi, sua coinquilina, ex spogliarellista, ex fugace avventura di Eugenio ed attuale amante del proprietario di casa.⁵⁹

    -Ciao.

    Disse lui.

    -Ciao.

    Disse lei. Eugenio si incantò a contemplare la linea bella delle labbra di Imma, per un istante solo, ché a volte è più che sufficiente. Belle le labbra, pensò.⁶⁰ Imma che era il tipo capace di leggergli il pensiero, gli sorrise. E gli occhi, come le capitava, le si riempirono di una brusca pioggia di luce.

    -Ti va di farmi un caffè?

    -Sono qui per questo.

    Scese dallo sgabello. Andò dietro al bancone ed armeggiò con la minuscola locomotiva cromata che prese a sbuffare.

    -Stamattina ti hanno cercato a casa.

    -Chi?

    -Una donna.

    Eugenio cercò di sdrammatizzare il tono cupo che all’improvviso aveva affogato la voce di Imma.

    -Bella?

    -Dipende. Per chi ama il genere.

    -Che genere?

    -Non lo so, Eugenio. A me ha trasmesso una sensazione brutta.

    -Sei troppo suggestionabile in questi giorni. Ti ha lasciato detto chi era, che voleva… -No. Ha detto che tanto stasera saprai quello che c’è da sapere.

    Mentre Imma sorseggiava il caffè Eugenio mandò un messaggio ad Alda. Perché mi hai mandato quella donna? Ci dobbiamo vedere dopo, che bisogno c’era? Non ti ho mandato nessuno. Ti aspetto per le dieci. Cerca di essere puntuale. E stai attento. Non accettare caramelle dagli sconosciuti. Io sto sempre attento.

    -Buongiorno a tutti.

    Disse entrando Michela, la cuoca. Donna solare. Minuta, graziosa, una terracotta smaltata a colori freschi, marini⁶¹. Eugenio si sporse dal bancone. Michela si sollevò sulle punte dei piedi e lo baciò sulla fronte⁶².

    4 Il pomeriggio era arrivato presto. A volte il pomeriggio fa così. Insieme all’imbrunire fuori e alle luci accese dentro il bar, cominciarono ad arrivare i primi

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