Vado e torno ... forse!
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Vado e torno ... forse! - Valerio Bollac
VADO E TORNO … FORSE!
PARTE PRIMA
Il vicoletto
Asfalto?
Cosa ne poteva sapere allora un bambinetto di quello strano manto scuro che ricopriva la strada? Ricordo solo la polvere, un mare di polvere con le sue onde basse e lunghe che talvolta s’invorticavano in improvvisi mulinelli dettati dal vento infilando spilli pruriginosi nel naso e negli occhi; soltanto in seguito avrei compreso che l’asfalto sapeva domare la tempesta ma imparai anche a conoscere la sua caparbia capacità di far emergere il calore dal centro della terra soffocandoci in una cappa, un’insopportabile duplice canicola figlia del sole e del magma. E noi, giovinastri non troppo astuti ma alla moda, c’infilavamo pure le Mecap che, oltre a stingersi macchiando i calzini, erano gelide d’inverno e incandescenti d’estate, assurdi strumenti di tortura per le nostre povere propaggini inferiori; ma ci piaceva così o, forse, ci avevano convinto che ci piaceva così.
Comunque, ai tempi, con la polvere fastidiosa e la breccia che ti scorticava le ginocchia si conviveva allegramente, anche l’assenza di fognature non era un problema, a parte il lezzo quando il sole picchiava forte, persino le piccole case basse ancora da intonacare, nate da un abusivismo di necessità non di speculazione, ci parevano belle, accoglienti, festose: insomma, il vicoletto aveva un suo fascino fatto di cose semplici, spontanee, di pane e mortadella, di mostaccioli e cotognata consumati nel cinema parrocchiale, di processioni appresso al santo culminate nel pantagruelico festino mangereccio in cui il sacro si mischiava tranquillamente al profano, di corse sui prati e partite di calcio improvvisate in strada concluse da liti furibonde e rumorose con susseguenti fraterne riappacificazioni.
Non più paese, non ancora quartiere, con la sua metamorfosi periferica il vicoletto avrebbe accompagnato la nostra pubertà verso una giovinezza che aspettava dubbiosa l’esito del cambiamento.
Un’adolescenza modesta, vissuta in un modesto quartiere suburbano, in una modesta via, in una modesta casa, in una modesta famiglia con un padre gran lavoratore dalle mani callose e dai pochi ma solidi principi ed una madre regina del focolare, tutta timor di Dio e famiglia; poi io, unico figlio, scricciolo gracilino e perennemente raffreddato, instancabile sognatore, con quei cinque anni festeggiati da un inatteso regalo che scendeva dal cielo.
Guardavo sbalordito l’armata di piccoli angeli immacolati e sconosciuti volteggiare nell’aria, minuscoli fiocchi di neve così uguali, nell’apparenza, ma così diversi nella realtà, una massa bianca ed uniforme costituita da innumerevoli entità ognuna differente dall’altra; anni dopo avrei concordato con Snoopy nel definire i fiocchi di neve gli ultimi tenaci individualisti. In fondo questo è il segreto della Natura: piccole essenze che formano il tutto ed il percepirle nella loro unicità è uno dei piaceri miracolosi della vita.
Considerazioni che vennero in seguito, col passare del tempo e l’avvento della maturità; a cinque anni i fiocchi di neve erano soltanto il candido prato che scivolava dal declivio dolce della collina lungo cui guizzare cavalcando i più disparati slittini improvvisati, oppure, trasformato dal gelo della notte in ghiaccio trasparente, la sdrucciolevole pista di pattinaggio dove continuare a coprirsi di lividi e spellarsi le ginocchia.
In ogni caso, oltre ai sogni ad occhi aperti di noi bambini, il risultato evidente era sempre lo stesso… ed era bagnato! Dalle unghie dei piedi fino alla punta dei capelli, coinvolgendo scarpe calzini mutande calzoni canotta camicia e maglione, quando rincasavo grondante come una spugna ero la prova provata e vivente della mia inestinguibile felicità; un po’ meno di quella di mia madre, almeno a giudicare dalle urla.
Ecco il microcosmo, semplice, elementare, eccessivamente manicheo con i buoni troppo buoni e i cattivi troppo cattivi relegati in categorie facilmente accettabili ma poco ponderate, dove l’età dello sviluppo galoppava spensierata verso lidi lontani, sconosciuti, soltanto immaginati. Spesso si sconfinava dal vicoletto, talvolta addirittura ci si allontanava parecchio, fin dove la curiosità resisteva al timore, ma sempre nel porto riparato della sicurezza casalinga si tornava ad approdare perché quei valori spacciati per antiche saggezze, non di rado difesi a ceffoni, erano le uniche certezze disponibili per chi non era ancora in grado di formulare giudizi propri. Presto mi sarei accorto della fallacità di quelle convinzioni.
Intanto, tra una scorribanda e l’altra in terra straniera, continuavamo ad incollare le figurine dei calciatori della maggica sull’album della Panini, convinti com’eravamo di diventare come loro, con tanti soldi in tasca e uno stuolo di ragazze al seguito; non erano ancora maturi i tempi, ma, di lì a qualche anno, il binomio giocatore‐velina sarebbe entrato in pianta stabile negli usi e costumi dell’Italia del terzo millennio.
Le nostre letture, tuttavia, si sarebbero evolute assecondando una crescita disordinata.
PostalMarket
Per il popolo del vicoletto, proletari alla riscossa impegnati nella metodica ma lentissima scalata al benessere, Postalmarket rappresentava una specie di sacro testo, una Bibbia a puntate, il manuale degli acquisti convenienti dove prodotti di non eccelsa qualità venivano proposti a prezzi praticabili soddisfacendo le pretese dei compratori senza svuotare il portafoglio; in tal modo Postalmarket coniugava esigenze modeste e finanze precarie in un equilibrio quasi miracoloso. E mia madre osservava estasiata i vestitini da quattro soldi, le pentole ed i piatti che sembravano d’oro, danzare allettanti nelle pagine patinate di quel supermercato di carta, valutando prezzi che le parevano incredibili e, anche se in realtà pagava il dovuto e non certo di meno, le restava sempre la chimera di aver fatto un buon affare. Pure noi ragazzotti del vicoletto, come buona parte degli adolescenti italiani, io credo, frequentavamo con estremo interesse ed assiduità le pagine del Postalmarket, non tutte però: la nostra attenzione era inesorabilmente e morbosamente attratta da una sola sezione del periodico, quella dell’abbigliamento intimo ‐ femminile, è ovvio ‐ dove i pizzi e le trasparenze di slippini e reggiseno, baby‐doll e reggicalze, talvolta anche qualche sconvolgente guepiere, c’insegnavano com’è fatta una donna scatenando tempeste ormonali facilmente acquietate da veloci interventi manuali consumati prevalentemente nel bagno domestico, sebbene, come minacciava il parroco, prima rischiassimo la cecità, poi, con la scoperta del mensile Le Ore, il deperimento organico.
Bei tempi