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Tra saragolla e querce
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E-book306 pagine4 ore

Tra saragolla e querce

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Info su questo ebook

Il passato è una parte di noi, non solo ciò che abbiamo vissuto in prima persona ma anche tutto quello che ha modellato il nostro ambiente, perché è di questo che siamo fatti.

Sullo sfondo di un piccolo paese del Sannio, San Marco dei Cavoti nel secolo scorso, Tra saragolla e querce racconta di un’umanità semplice che non lascia tracce nella Storia – eppure muove il mondo – e che ha nella famiglia il suo cardine.

L’autore, con delicatezza, racconta di guerre, amore, partenze, viaggi e ritorni a casa. In un mondo antico fatto di virtù e perdono.
 
LinguaItaliano
Data di uscita9 lug 2021
ISBN9788869601200
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    Anteprima del libro

    Tra saragolla e querce - Stefano Stisi

    stisi_1770x2500.jpg

    STEFANO

    STISI

    TRA SARAGOLLA

    E QUERCE

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    Titolo dell’opera:

    Tra saragolla e querce

    © 2020 Altrimedia Edizioni

    ISBN: 9788869601200

    © Altrimedia Edizioni è un marchio di

    Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria

    Prima edizione digitale: Giugno 2021

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    Ogni individuo ha il potere

    di fare del mondo un posto migliore

    Sergio Bambarén

    PREFAZIONE

    Ci sono luoghi che restano nella memoria, una strada, un vicolo. Il volto di una vecchia, rugoso come le venature di un marmo, come le lamine di una foglia. Un anziano seduto in nero, col bastone, la coppola, la bocca semi spalancata per l’ansimo da calura, nella penombra della casa a piano basso. Il campanile! E l’artigiano che, riparandolo, scoprì di essere maestro in simile arte, e divenne tanto famoso da attrarre l’attenzione del cronista televisivo e condurlo fino a San Marco dei Cavoti, dove conobbe un uomo anziano con un mantello ampio e nero e con il viso della bellezza plebea del sannita.

    Ci sono luoghi che non sono i tuoi, eppure sembrano in qualche modo appartenerti, ti restano dentro. Cosa straordinaria ancor più per me, che del mondo ho visto un po’, saltando da un continente all’altro, passando nello stesso mese dall’estate all’inverno nell’altro emisfero. Che è miracolo solo di questo pianeta.

    Sergio Bambarèn, leggo aprendo il libro, ha detto che ogni individuo ha il potere di fare del mondo un posto migliore. Non me ne voglia nessuno se oso contraddirlo, affermando che, al contrario, ci sono posti che rendono gli uomini migliori. Se la storia, il culto di essa, la tradizione, il rispetto della natura, hanno fatto della terra un buon letto di semina, i frutti non possono che essere buoni. Lo diceva un vecchio filosofo, analfabeta, rozzo ma onesto contadino, padre di mio padre, trascinandomi ragazzo tra i filari di pachino che coltivava per conto dei padroni.

    Ci sono luoghi di cui conserviamo il profumo delle scanate di pane o il sapore della ricotta di cui sono pieni i dolci di San Marco e i cannoli della mia Sicilia. Confesso di fare abuso, di tanto in tanto, degli uni e degli altri. Piccolezze, forse stupidaggini, probabile. Eppure sono anch’esse parte dei ricordi che ti suggeriscono i luoghi che ti restano dentro. E ai quali questo libro ti riporta, con parole diverse dalle mie, disegnando in maniera egregia un affresco di vita paesana.

    Tra saragolla e querce mi sono mosso con una certa emozione, nell’era del digitale è piacevole trovare qualcosa di analogico, dove non prevale la velocità del tempo ma la fermezza delle cose, che resistono. Ho annusato l’odore della polvere secca alzata dai calzari degli eserciti di Quinto Fabio Massimo Rulliano e Caio Sulpicio Longo, e li ho seguiti nel percorso che l’Autore ci ha indicato sin dal prologo scandendo i tempi della narrazione con l’abilità che trasforma un libro in un buon libro. L’ho letto una volta, l’ho addirittura ascoltato da Stefano Stisi parlandone una sera con lui, e l’ho riletto quando mi ha chiesto di scrivere queste poche righe, con le quali non anticipo, come spesso accade, il contenuto e il finale della storia di Diodoro o di don Alfonso che elenca le strane coincidenze che avevano segnato gli ultimi mesi di trincea e spiega, a Diadò, che li hanno schierati tra Pordenone e San Marco: pensa la coincidenza, lo stesso nome del paese suo, San Marco, dei Cavoti però. Ma sono le coincidenze – come scrive Sciascia – le poche cose vere della vita.

    I libri non si spiegano, si leggono. Ciascuno deve ripercorrere senza pre-giudizi la storia, e desumerne da essa il valore e la morale. All’ultimo rigo, chiudendo il libro, ritroverà i luoghi che ti restano dentro, che sono i tuoi, e sono anch’essi ricchi di orizzonti, di Querce e di Saragolla.

    Ringraziando l’Autore per il privilegio che mi ha concesso,

    Salvatore Biazzo

    Buona parte del romanzo è ambientato in un piccolo paese del Sannio, San Marco dei Cavoti, di fondazione provenzale, noto come il paese del croccantino, tipica produzione dolce locale. Oggi, spogliato dalla continua emigrazione, conta poco meno di 3.300 abitanti, ubicato su un’altura di circa 700 mt s.l.m.: uno degli ultimi contrafforti orientali dell’Appennino Sannita, giusto a costituire lo spartiacque geografico e culturale tra il Tirreno e l’Adriatico.

    I territori limitrofi all’attuale centro urbano di San Marco furono abitati già in epoca preromana: il loro fulcro era la cittadina di Cenna, luogo probabilmente di assedio e di battaglia durante la seconda guerra sannitica nel 315 a.C.

    Ai tempi in cui si svolgono i fatti narrati nel romanzo, tempi di attività agricole fiorenti e fonti di ricchezza, era un ridente paese abitato da circa 6.000 persone, con un ampio centro storico medievale, poi quasi completamente distrutto dal terremoto del 1962 e dalla mano riedificatrice dell’uomo.

    Il testo che vi apprestate a leggere fa riferimento a periodi, luoghi, accadimenti e personaggi storici realmente esistiti. Al di fuori di ciò ogni narrazione relativa ai personaggi del racconto è unicamente frutto di pura fantasia.

    Prologo

    Forse un giorno, quando alla fine del mio pellegrinare guarderò negli occhi i miei figli, cercherò di raccontare loro, con non poca difficoltà, dove sono stato tutto questo tempo. Perché ho paura che mi chiederanno: «Dove sei stato quando noi piccoli e soli avevamo bisogno di te?»

    Come farò a convincerli che il tempo che ci è dato non è nostro, ma che è solo in prestito e che le azioni che compiamo a volte sono obbligate? Come farò a spiegare loro che la morte non è sempre guadagnata e spesso è prematura rispetto ai nostri intenti?

    Avrei potuto scegliere diversamente, è vero. Avrei potuto scegliere gli ozi a Baia o la pratica del governo a Roma o le semplici gioie della paternità!

    Avrei vissuto lo stesso tutto questo? Proverò a raccontarlo…

    Ricordo di essere stato immobile nel silenzio più profondo, immerso nella luce assoluta, filtrata attraverso una fittissima nebbia. Non ho avuto giudizio del tempo per potere dire quanto. Mi sentivo senza peso, eppure forzatamente fermo, come un’anima senza corpo. Forse proprio così vivono le anime, fuori da ogni corrispondenza di spazio e tempo, e quasi incompiute rispetto all’esperienza umana. Vagano, ma sono ferme. Percepiscono, ma non odono né sono udite.

    Se è così, sono stato lungamente un’anima senza più corpo e la mia esistenza è stata in un limbo. In quello stato non è più possibile percepire la dimensione temporale. Non riuscivo a pensare al prima e al dopo. Come un neonato che piange al distacco della madre perché non ha esperienza del tempo e pensa che questo distacco sia per sempre, così all’inizio io ho percepito.

    In origine ero un giovane ma già esperto centurione romano, cresciuto nel culto di Roma e della battaglia. Il mio nome era Claudio Papirio Cursore, figlio del console Lucio. In quanto alla mia persona, ricordo ogni singolo istante della mia vita terrena, ma soprattutto gli ultimi momenti: la sorpresa della morte, l’ansia di perdersi, l’angoscia per la mancanza della mia amata, dei miei figli. Poi intorno a me il fragore di una battaglia in un largo altopiano tra boschi di quercia.

    Solo un giorno prima, separatici dalle legioni comandate da mio padre, eravamo partiti da Luceria precipitandoci per proteggere Roma dall’improvviso attacco del meddix Tuticus Gavio Ponzio, duce sannita, astuto vincitore alle Forche Caudine. Era il 439° anno dalla fondazione di Roma. Da tempo le nostre genti combattevano i Sanniti per il predominio italico con alterne fortune, ma ora le sorti della guerra sembravano a noi favorevoli.

    Sul nostro percorso dall’Apulia scegliemmo, per inseguirlo, la via più impervia e meno abitata ma più veloce in direzione della via Latina. Affrontata col fresco delle prime luci dell’alba la grande pianura dell’Apulia, giungemmo in vista delle prime pendici dell’Appennino, cercando un varco tra i monti più alti e favorendo i percorsi veloci. Seguimmo a ritroso il decorso delle acque del fiume Aufidus sino alla sua sorgente e lì mandammo in avanscoperta un veloce drappello a cavallo per segnarci la strada, così serrando i tempi e stringendo al minimo le soste riuscimmo a raggiungere, nel tardo pomeriggio, una bassa vetta ricoperta di querce, dove potemmo abbeverare i cavalli e i milites. Quelle terre sembravano desertiche, solo qua e là segni di pascolo e qualche casa in pietra da tempo abbandonata. Nessuno ci si fece incontro.

    Avevamo di fronte il sole che declinava al tramonto, ma lasciava intuire che avremmo avuto almeno altre tre ore di luce. La via per scendere a valle era ora però troppo stretta per la nostra legione di quasi duemila fanti e duecento cavalieri. Diedi così ordine di disporre in prima linea gli astati, i più giovani, muniti di lunghe aste e lance, che avrebbero potuto reggere l’urto nemico in caso di improvvisa battaglia; a seguire v’erano invece i principi, i soldati più esperti, dotati di giavellotto ed equipaggiamento pesante; poi i triarii, i veterani, armati di gladio, con la loro spada corta a doppio taglio, molto efficace per lo scontro corpo a corpo. Davanti a tutti stavano i veliti, fanti leggeri armati di arco e frecce, di supporto alla prima linea. Ai lati dello schieramento scendeva, con non poca difficoltà tra le rocce, la cavalleria. Salti e improvvise spaccature nel terreno argilloso, a volte profonde fino a diventare vere e proprie forre, ne ritardavano il cammino e ne rallentavano la discesa a valle. Diversamente i fanti non avevano grandi difficoltà nei terreni inesplorati e impervi. Il fitto bosco di querce forse ci nascondeva agli occhi dei pochi abitanti della montagna, ma il rumore di ferraglia delle nostre armature non poteva passare inascoltato senza essere percepito come un segnale di pericolo per i pochi Sanniti che abitavano queste terre desolate e bruciate dal sole.

    Così ci inoltrammo ancora verso valle, in un territorio dapprima brullo, ricco di pietre e povero di sentieri, evidentemente poco calpestato. In terra solo feci di ovini segnavano il percorso delle greggi. Poi, scendendo più a valle, comparvero i primi campi di farro dicocco quasi pronto alla mietitura, che i soldati iniziarono a sgranocchiare, come per rifocillarsi per poi riprendere il cammino in attenzione e prudenza. Il percorso divenne ancora impervio e scendemmo lungo il decorso di un torrente, dapprima irruente per le recenti piogge poi, ridotte le pendenze, cheto tra selve di pioppi selvatici e salici. Infine trovammo un sentiero tra i campi vasti e stavolta più curati di farro. Lì, dove il terreno sembrava rasato di fresco e mostrava il colore scuro e friabile dei terreni solcati da anni da abili mani contadine, la distesa di farro era di un grigio dorato e di una bellezza invidiabile. Nell’ammirarlo pensai che sarebbe stato bello, se alla fine – in un tempo di pace – avessi potuto vederlo crescere e poi tagliarlo, per farne pane e crescere i figli su di una terra senza più guerra.

    Trovammo attrezzi da lavoro abbandonati, come se i contadini c’avessero avvistati e velocemente si fossero ritirati al sicuro da noi. Il latrato di alcuni cani in lontananza ci fece compagnia scendendo un vallone fino a raggiungere un largo altipiano con lo sfondo delle antiche montagne del Sannio ad avvolgere in sicurezza il suo capoluogo giù nella valle, Maleventum, che secondo il nostro progetto avremmo lasciato a meridione del nostro cammino attraversando la Valle Telesina in direzione del nord, al fine di evitare più possibile scontri.

    Proprio al termine dell’altopiano, nostro malgrado, prendemmo contatto con un pago sannita a mezza costa, troppo a ovest per essere abitato da Pentri. Il drappello a cavallo ci disse trattarsi di Cinna, circa venti miglia a oriente di Maleventum, il centro sannita più grande, ricco e abitato, capitale della federazione. Questo pago sembrava popolato solo da alcune centinaia di anime e sbarrava la strada naturale lungo un verde e cheto fiume dalle acque pulite, nominato Tamarum, il cui percorrere ci avrebbe portato velocemente giù alla valle e poi verso nord in direzione infine della via Latina fino a Telesia, Alifae e velocemente fino a Roma.

    Le loro sentinelle ci avevano probabilmente avvistato da lontano e forse tra le loro mura avevano trovato rifugio i contadini del farro e degli orti abbandonati al nostro passaggio.

    Noi eravamo gli eserciti riuniti dei due consoli Quinto Fabio Massimo Rulliano e Caio Sulpicio Longo, e ora la polvere alzata dai nostri calzari si distingueva bene già a cinque miglia di distanza. I nostri buccinatori diedero fiato alle trombe sotto le loro mura avvisando il nemico di farci passare senza ingaggiare battaglia, ma per tutta risposta gli abitanti orgogliosamente iniziarono contro di noi un lancio di pietre e di frecce dall’interno, forse con una macchina da guerra. A quel punto non potevamo non ingaggiare una veloce battaglia per poi riprendere l’inseguimento alle truppe sannite di Gavio Ponzio. Non potevano e non volevano farci passare sulla loro terra sacra senza opporre resistenza.

    Era quasi notte e mettemmo perciò campo a due miglia da loro. Il pago – arroccato sull’intera sommità di una collina a guardia dell’incrocio di tre strade che sembrava scendessero a valle con pendenze diverse – controllava di fatto ogni movimento e aveva alte mura poligonali fortificate, formate da massi ciclopici e antichi. Lo osservai bene alla luce di un rosso tramonto, poi lo accerchiammo tutto prima del completo imbrunire.

    In quella notte di luna piena, i legionari si tennero a distanza di almeno mezzo miglio dalle sue mura e fu solo al mattino presto che ingaggiammo battaglia con un poco numeroso drappello sannita accorso in aiuto e sbucato dal nulla da occidente, in una ampia radura a monte del pago. Le nostre forze furono ben presto preponderanti e i Sanniti dispersi o uccisi, ma con questo astuto atto diversivo gli assediati fecero sì che alcuni dei loro soldati corressero a chiedere aiuto giù a Maleventum. La battaglia rischiava d’essere più lunga del previsto.

    Per porre subito fine alla loro resistenza, prima che giungessero i rinforzi da loro attesi, tentammo una sortita. Mentre la gran parte della nostra legione ingaggiava battaglia con gli assediati sulla zona occidentale delle mura, richiamando la maggior parte di essi a difendersi dall’improvviso attacco, un piccolo gruppo scelto di legionari, da me guidati, saliti con le corde sul lato est, ora meno custodito, si riversarono all’interno del pago scendendo a rompicollo lungo una scalinata in pietra che portava tra le case. La nostra missione era quella di aprire il grande portone del pago fortificato rivolto a sud. Da lì sarebbero immediatamente penetrati i legionari nascosti sin dalla notte precedente ai margini del bosco di fronte.

    Ultimi del gruppo, io e Marco Rutilio Penula saltammo dalle mura del pago fortificato senza essere avvistati, ma a metà del tragitto verso il portone una donna ci scorse ed emise un urlo per lo spavento di vederci già tra le loro case – armi alla mano – e scappò via, richiamando l’attenzione di alcuni milites Samnites. Troppo tardi per tornare indietro, prendemmo perciò a correre giù verso la parte bassa del pago lungo una scalinata in pietra, ma fu alla fine della corsa che persi l’uomo cui ero anima serva. Un fendente di spada – sbucata dal nulla – brandita con disperazione e mestiere pose fine alla mia giovane vita di valoroso centurione romano.

    Fu un istante.

    Non percepii altro se non la luce. Nessun dolore, solo una impalpabile mancanza. Poi vagai inerme, senza meta, attraverso un canale luminoso. Nella luce accecante cercai di raggiungere come nuotando con la sola forza del mio pensare e del mio volere il suo punto più splendente, ma quando mi sembrava ormai d’averlo raggiunto tornavo a percepirlo lontano.

    Sperai come solo un’anima può fare. Pregai tutti gli dei a me conosciuti. Chiesi a Fauno che bisbigliasse tenere parole alle foglie del bosco che mi lambivano per venirmi incontro e aggrapparmi loro, e a Giano patrono della mia gens di proteggermi nel passaggio nell’Ade e ancora a Giove padre di porre fine alla mia sofferenza concedendomi misericordia, e alla fertile Giunone e a Marte guerriero di rigenerarmi alla vita.

    Carezzai col mio pianto l’immagine di una luce primitiva, la pregai di salvarmi, di avere pietà. Fu tutto però inutile: i miei Dei erano insensibili ai miei gemiti o impotenti a farlo. Potei però, concentrandomi, accedere ai ricordi immagazzinati dalla mia mente. Ricorsi allora alla reminiscenza di alcuni fatti e del bene ricevuto e di quello fatto, fin quando all’improvviso percepii che il ricordo dell’amore che avevo nutrito, anche se ora sopito, mi conferiva una forza che potevo impiegare nel cambiare in qualche modo le cose così immobilizzate. Alimentai i miei ricordi e mi aggrappai a essi distillando da loro gli affetti, le gioie così percepite: la tenerezza di mia madre, l’amore che nutrivo per la mia donna e i miei figli. Fu così che a essi pensando avvertii che finalmente potevo librarmi con una flebile energia nella dimensione dello spazio.

    Potevo davvero muovermi, e la nebbiosa luce si dissolse tornando a vedere di nuovo il giorno e la terra!

    Quanto tempo ero stato immobile, spirito prigioniero di un tempo cristallizzato?

    Non vidi più nessun uomo conosciuto intorno a me, il fragore della battaglia spento nel silenzio più assoluto. Riconoscevo però il luogo dell’ultimo respiro. Ero lì ai bordi di un folto bosco di querce che aveva sostituito le case di pietre del pago, ora scomparso, forse distrutto, e di cui si riconoscevano ancora tratti di mura ciclopiche. Intorno a me identificavo l’altopiano, i monti alle sue spalle, i boschetti di querce ora più radi tra i campi dorati di spighe. Il grigio farro sostituito dal biondo colore di quello che sembrava un nuovo cereale molto più generoso di chicchi. Il pago non esisteva più, ma nei suoi pressi, a non più di cinque miglia, sorgeva un paese: una torre, un luogo sacro, incastonate nella roccia come cinte da un anello di case sull’apice di una collina.

    Cercai di raggiungere l’abitato ma le mie forze erano insufficienti. Non ci sarei mai riuscito da solo. Sedetti ai bordi di una strada selciata e lì vidi passare un uomo anziano, dalle strani vesti che attorniavano le gambe, come quelle che indossavano i Persiani. Il vecchio ansimante indossava un corpetto nero e la sua barba bianca incolta segnava ancor di più i tratti del volto di fatica e sofferenza. Il vecchio, sudando, trainava a malapena un asino dal pesante basto, riluttante ai suoi comandi, salire sotto un caldo sole in direzione del paese.

    Mi passò avanti senza percepirmi in nessun modo ma, circa un passo dopo di me si fermò, gettò a terra il suo copricapo, strillando qualcosa di incomprensibile e maledicendo il suo soma sedette a terra. Sentii i suoi pensieri arrovellarsi su come tornare più presto a casa. Una preoccupazione, una angoscia sembrava muoverlo e irretirlo. Tentai di comprendere cosa pensasse e mi feci incontro ma lui simultaneamente si alzò, ritornando a camminare. Come d’incanto anche il suo asino tornò a riprendere il cammino, destando in lui non poca sorpresa. Tuttora non saprei dire come, ma quella volta sembrò proprio che avessimo riunito le forze e la disperazione comune per muovere la strada sotto i nostri piedi.

    Per una via sterrata entrammo insieme nel paese. Fu così che mi trovai lì, come attratto in mezzo agli uomini vivi che non percepivano me. Appartenevo alla scena, ma non ero visibile. Nessuno poteva toccarmi o udire le mie emozioni. Ero muto, ma ero rimasto nella stessa zona dove mi ero staccato dal mio corpo. In quel momento di sorpresa persi di vista il vecchio contadino col suo animale e mi ritrovai ancora solo.

    Speravo che un altro corpo mi chiamasse per appartenergli. Pensavo ancora fosse possibile. Altrimenti quale sarebbe stato il mio destino? Come avrei potuto riguadagnare un giorno la casa dell’Ade senza un altro corpo con cui poter morire? Avevo però timore di avvicinarmi agli uomini. Li vedevo diversi. Potevo sempre sentire i loro sentimenti e percepire le loro emozioni, che nei principi fondamentali dell’essere umano erano sempre le stesse.

    Poi iniziarono a passare i giorni, le notti e ancora le albe e i tramonti e il mio continuo osservarli mi ridava lentamente la percezione del tempo che riempivo di segnali e dei nuovi rituali. La mattina con i suoi risvegli, il mezzodì e lo scampanare dell’imbrunire, le sere con i preparativi al sonno e le notti stellate. Migliaia di personaggi di quella comunità animavano il mio desiderio di conoscere.

    Li attendevo al mattino per ascoltarne le voci, le ansie. Ne percepivo gli affetti, gli odi. Potevo scansarne la violenza che sentivo d’aborrire, non così l’amore che li univa e il coraggio che li muoveva e mi muoveva e che mi legavano sempre più a loro. Da lontano avevo imparato a conoscerli uno a uno, ma diffidavo ancora di molti di loro. Avevo paura, privo com’ero del mio corpo, mentre mi rasserenava il fatto che essi non potessero percepirmi.

    Capivo che in qualche modo avevo bisogno di loro per muovermi, sentire, tornando a vivere in una forma intermediata, quasi surrogata. Le sere li vedevo rincasare salutandosi, serrare le proprie porte, carezzare i loro figli. Pensavo allora ai miei. Che fine avevano fatto i miei figli e mia moglie? Mi illudevo di cercarli negli occhi dei miei nuovi amici, ahimè, senza trovarli.

    Talvolta avevo varcato i loro usci. Presto però capii che questi andavano rispettati come confini naturali di riservatezza. Anch’io ero stato come loro, anche loro possedevano un altro pezzo di me!

    Le notti le trascorrevo in strada con il vantaggio di non sentire il freddo o l’acqua, a volte vicino all’ubriaco di turno attendendo che facesse giorno, fermo a pensare e a formare i ricordi. E nel frattempo avevo cominciato a segnare il tempo, i giorni, i mesi, gli anni e il nuovo modo di contarli. Sempre elaboravo gli avvenimenti della giornata e assegnavo loro una data e un’ora. Così avevo imparato a osservare questa umanità distratta dal vivere e ne leggevo i segni, come quando vedevo i frequentatori delle osterie tornare a casa traballanti, lo sciocco del villaggio strillare alla luna, le mamme cantare la ninna nanna ai loro figli, le dolci melodie delle serenate dei giovani in amore. Poi, solo alle prime luci dell’alba, i primi contadini che muovevano verso le campagne e i rumori del buongiorno.

    Li attendevo al mattino con ansia, perché cominciasse lo spettacolo della loro semplice vita quotidiana che ogni giorno mettevano in scena per me. E, giorno dopo giorno, mi avvicinavo di più a tutti loro cercando di penetrare le loro sofferenze e i loro affetti, acquistando forse così la capacità di interpretare le storie fissate nei loro pensieri.

    Conoscevo i ritmi del loro vivere quotidiano, tra la via del Paradiso e la Porta Grande e poi fino alla piazza del paese, che chiamavano a’ croce. Il tonsor, il lignarius, il faber ferrarus, con un termopolio e decine di tabernae di vario tipo. Solo che li chiamavano in modo diverso da noi e diversamente vestivano, parlavano, si salutavano. In fondo però nulla era cambiato nei loro rapporti.

    Un mondo più semplice di Roma, meno frenetico, ma fatto degli stessi sentimenti, voci, risate con qualche ambizioso e pochi farabutti in giro. Non coltivavano più il grigio farro, bensì quel cereale dal ciuffo biondo, che avevo ora visto a valle e che chiamavano saraolla, per farne un pane a pasta gialla e morbido e un impasto con acqua e uova, da mangiare ai pasti principali. In fondo la saraolla era il loro oro, il nutrimento della famiglia, il vero valore delle cose.

    Divertito, li seguivo nelle loro vite mantenendo però le distanze finché una mattina, attratto da qualcosa che si muoveva prima dei tempi canonici del lavoro, entrai di soppiatto nei loro accadimenti dai quali, per lungo tempo, non riuscii più a staccarmi, divenendone testimonianza e memoria.

    Capitolo I

    Il solstizio d’estate

    Era l’alba dei primi di giugno del 1918. Mancava meno di un’ora al far del giorno. Diodoro preparava spedito e in silenzio la sua poca roba. Nella sacca di iuta il pennello e il rasoio da barba ripiegato a manetta con l’impugnatura di corno, due maglie di lana, un paio di mutande e l’unica camicia bianca buona con i polsini rivoltati e gli occhielli rinforzati da una paziente mano femminile. Un paio di calzerotti di lana, le scarpe buone della domenica avvolti in un panno e lacci per le

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