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Il Far West di Asiago maggio 1916
Il Far West di Asiago maggio 1916
Il Far West di Asiago maggio 1916
E-book268 pagine3 ore

Il Far West di Asiago maggio 1916

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Gelindo è un alpigiano di famiglia d’origine valdostana. Egli amava vivere la sua casa la quale era stata costruita con le sue stesse mani: per tradizione un raskard, tipica costruzione valdostana di alpeggio. La sua vicenda si svolge agli inizi dell’anno 1916 quando l’Austria sferrò la sua azione punitiva verso l’Italia calando dal Trentino, occupando anche la zona frontaliera di Asiago e la sua conca divisa da una forra: la Valle dell’Assa. I due schieramenti belligeranti, italiano e austro-ungarico, si posizioneranno sulle due sponde contrapposte della valle. In mezzo nella terra di nessuno, o meglio nella spaccatura profonda che li divideva il vivere surreale di Gelindo. Egli non voleva sfollare con la famiglia dalla sua dimora e si era arruolato nella XVIII Brigata di Milizia Territoriale per cercare di vivere ugualmente la sua montagna, la famiglia e accudire la mandria di capre, in mezzo a mille pericoli. Nel mese di giugno 1916 il sottotenente Carlo Emilio Gadda, fu comandato con la sua sezione di mitragliatrici ad occupare un tratto della sponda valliva all’altezza della località Dosso, poco distante dal raskard di Gelindo. Una trasposizione di vita familiare valdostana riadattata a occidente dell’isola montana abitata, fino ad allora, da una fiera popolazione bilingue. Gente frontaliera abituata a varcare il confine di stato e mescolarsi ad altre popolazioni di costumi diversi del vivere in casa. (…) Le vicende locali dei belligeranti indussero Gelindo a divenire disertore per necessità e nascondersi volutamente in casa. Dimora che fu scoperta da un soldato polacco dell’esercito austriaco incuriosito dalla presenza mattutina di una giovane, Eda, figlia di Gelindo.
LinguaItaliano
Data di uscita24 lug 2013
ISBN9788862598842
Il Far West di Asiago maggio 1916

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    Il Far West di Asiago maggio 1916 - Maurizio Antonio Rigoni

    Il Far West di Asiago

    maggio 1916

    Maurizio Antonio Rigoni

    EDIZIONI SIMPLE

    Via Weiden, 27

    62100, Macerata

    info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it

    ISBN edizione digitale: 978-88-6259-884-2

    ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-793-7

    Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand

    Via Weiden, 27 - 62100 Macerata

    Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.

    Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.

    Prima edizione cartacea luglio 2013

    Prima edizione digitale luglio 2013

    Copyright © Maurizio Antonio Rigoni

    Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale

    o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.

    INDICE

    Cap. I

    Cap. II

    Cap. III

    Cap. IV

    Cap. V

    Cap. VI

    Cap. VII

    Cap. VIII

    Cap. IX

    Cap. X

    Cap. XI

    Cap. XII

    Cap. XIII

    Cap. XIV

    Cap. XV

    Cap. XVI

    I

    Montagnana, città murata che racchiude in se, da secoli, un insieme di focolari orgogliosi del loro vivere il passato e il presente sotto i colonnati della piazza, in rivoli di chiacchiericci e cafè fragranti sia nelle giornate più afose, sia negli inverni più uggiosi.

    Fuori le mura la campagna coltivata da abili mani di ortolani crea una geometria di coltivi, dai tuberi amidacei delle patate ai fittoni dolci delle carote, dai fiori di mais ai grappoli immaturi di acini. Un insieme in continua crescita sotto il caldo stagnante, gli argini dei canali d’irrigazione, fermi, d’acqua pronta per essere risucchiata all’arsura e poi quando, al finir della stagione buona, le lepri si pongono sugli arativi appresso le zolle increspate, ripararsi sicure alla galaverna a pel di terriccio fin che il sole non la dissolve, tenere foglie di radicchio si chiudono a cuore stringente.

    Rico spesso ha corso sopra i rettilinei argini, per chilometri, abbozzando lo sguardo dentro a canneti pieni di vita di covate in calore, umide, di mamme anitre accucciate e avole in sciame fuggenti a pelo d’acqua all’avvicinarsi dell’ombra furtiva accompagnata dalla luce primaverile, acerba e lusinghiera, e spenta e odorosa, già nelle ore pomeridiane, al calar della nebbia: d’inverno.

    Dalla Rocca degli Alberi, fuori i portoni, rivolti all’umido nord di muschi ancorati agli sberciati merli delle mura carraresi, una citycar transita traballando sul consumato lastricato.

    Rollando, la macchinina sfugge le piazze delle vicine vicentine, Pojana Maggiore e Noventa; sfila, appena illuminando l’essenzialità nuda del disegno della dimora del giovane Andrea di Pietro. Tratto semplice, marmoreo, militare, con arco a doppia ghiera, nel paese pojanese. Poi nel secondo, imponente, gaia Villa Barbarigo antistante l’anfiteatro dei colonnati la piazza.

    Dimore che racchiudono in se, al di là della loro secolare magnificenza, l’essenza dell’abitare signorile, vacanziera, campagnola di mutevoli paesaggi agricoli cari alle genti venete, al riparo del declinare i Colli Berici e sullo sfondo: le piramidi naturali dei Colli Euganei.

    Comunità che misero a disposizione i loro pubblici uffici ai primi del novecento per ospitare, ramingo, l’ultimo paese, prima della frontiera al Termine di fronte al Süd Tiröl degli Imperi Centrali, Asiago, alla Spedizione Punitiva contro l’Italia, e il fratello minore, Roana, sotto l’ala protettrice dell’insegne architetto.

    Mentre la citycar si avvicina, seguendo la Riviera Berica è meglio dire che le nozioni di piccola geografia, appena descritte, assumono un valore particolare in quanto l’itinerario del piccolo mezzo stradale è rivolto proprio al territorio ove si collocano i due comuni montani. E in particolare lungo la direttrice naturale che li divide, ovvero la forra dell’Assa.

    Valle naturale e profonda che contrappose più popoli belligeranti in quella che nel maggio dell’anno 1916 fu chiamata dal Conrad, generale austriaco, Strafexpedition, contro l’Italia, per aver tradito l’alleanza diplomatica – triplice - in atto tra i governi comprendenti l’Austria, l’Ungheria e il Regno d’Italia dei Savoia.

    Invero, per scambi linguistici, contrabbando e offerta di lavoro, alle genti della conca di Asiago e dintorni che guardavano a nord, lungo l’asse stradale di fondo valle dell’Assa, non dava fastidio frequentare, oltre confine, la possibilità di relazionare con i sudditi di Francesco Giuseppe, compresi quelli del trentino, con chiamata sotto le armi di tutte le classi di leva, in massa, per indossare la divisa austriaca.

    Diverso invece, per l’alpigiano delle contrade ubicate da antichi idiomi di reminiscenze linguistiche, oltre Asiago, Oba, Grozzar, Raitele, cercare a ridosso dei confini del Regno, il formare un nuovo focolare domestico, accasando mogli dei paesi, meglio contrade e confini tuoi; non oltre la Tagliata dove la forra dell’Assa si stringe a imbuto.

    La Tagliata è una fortezza d’epoca, presidio di finanzieri, munita di muro invalicabile a valle, portone a due grandi ante e due cannoni in bronzo da 87. Sbarravano la rotabile davanti alla foresta di peccio nero, ignota, che portava alla Dogana Italiana al Termine e alla piana delle Vezzene, dove geograficamente marcava il confine il Regio Stato Italico.

    Anzi, un piccolo ponte di piastre marmoree, rimuovibili, disciplinava il transito pedonale e di carrette sotto all’arco che sosteneva lo stesso pesante portone: se del caso rimosse, impedivano il transito, formando un fossato.

    L’architettura del manufatto era influenzata da elementi tipici dell’arte militare fortificata napoleonica del Pianell, generale della piazza d’armi in Verona.

    Tutt’ora i suoi scantinati ipogei, dalle volte in mattoncini cotti, sono identificati con numerazioni in ceramica, di colore blu intenso. Sono sepolti sotto la rotabile, oggi per il Termine, divenuto Antico, dopo l’omonima località, detta per l’appunto: Tagliata.

    Una citycar americana con propulsione a gas lanciata in velocità lungo la corsia dell’autostrada ha un comportamento di una vettura di concezione di qualche decennio fa e la statura di Rico, uno spilungone di un metro e novanta centimetri, male si accomodava entro allo spazio dell’abitacolo, per lui angusto. Assetto che rolla e beccheggia di suo e sopportava nervosamente le raffiche di vento laterali, anche se di non gran forza.

    Per fortuna, per lunghi tratti, l’autostrada corre dentro all’incasso delle ondulazioni mammellonate dell’altra pianura vicentina e nasconde in modo propiziatorio la corsa della vetturina all’esposizione ventilata. Il confort interno lasciava perplessità all’aumento della stanchezza man mano che l’auto si inerpicava sui tornanti della provinciale detta per l’appunto: del Costo. Il nastro stradale finisce la sua corsa proprio dentro alla parte superiore della Valle dell’Assa, snodandosi a fianco dell’omonimo torrente.

    Per il momento, al progredire in altezza sul livello del mare, in un’estatica visione panoramica, emerge la maggior distesa della pianura agricola punteggiata d’insiemi di tetti di case, agglomerati più rosseggianti, definire i contorni dei paesi e i singoli puntini rossi sparsi, appena pennellati, disegnati e coloriti tra cortili e fienili, segnalare i casolari visibili fino oltre l’ultimo tornante: il decimo.

    Il fastidio della rumorosità e vibrazione della pochissima ripresa del piccolo mezzo, frastornante ad ogni tornata, scalando l’altitudine sul livello del mare, si smorzava una volta che Rico, attratto, identificava il primo riferimento topografico, a lui valido, per entrare in sintonia con la giornata e la lunga corsa podistica che lo avrebbe atteso di lì a poco.

    La località della Barricata era alla rovescia, quello che la Tagliata, lo è stato davanti al confine del Süd Tiröl. Ovvero l’isolamento linguistico e di costumi di vita di una comunità montana, da secoli. Territorio di antiche nostalgie confederali che si estende sopra al piano, si apre oltre dove la valle si incunea, giusto dietro la Barricata.

    Lo staterello autonomo, del quale facevano parte anche i paesi di Asiago e Roana, erano rimasti indomiti fino alla campagna napoleonica che per prima li conquistò: nuove terre montane di confine.

    La Barricata perdeva definitivamente il suo significato di baluardo, di vallo naturale sul ciglio degli scambi commerciali e linguistici tra popolazioni montane e vallive. Rimaneva un puntino sulla carta toponomastica fino all’utilizzo delle sue irte scogliere da parte del Regio Esercito Sabaudo, in ritirata, inseguito dall’Asburgo che, lo spingeva ad occidente.

    In detta località una perforazione con martello pneumatico, eseguita per ricavare nelle viscere del Monte Costo, uno stanzone guarnito a difesa e solcato da ingegneria militare scavato, in viva roccia, fungeva da recapito per l’ultimo comando supremo con l’iscrizione all’entrata: 107 Telegrafisti.

    Poi, guardando verso ovest, il buco del Monte Pria Forà, in fronte alla Barricata. La gente della vallata sussurra che quando il buco, al volgere della sera è trasparente, luminoso e ben visibile, difficilmente il giorno dopo il tempo volgerà al peggioramento. Al contrario, se il buco si nasconde tra le nuvole, di sicuro sarà maltempo. Invece, se esso è opaco e poco contornato, la giornata sarà variabile, ma non di sicuro serena. Queste ultime previsioni probabili, tendenti al peggioramento, erano le uniche prevedibili accompagnate alla disastrosa ritirata, finite nel buio: nell’antro, nell’ultimo comando itinerante sabaudo. In testa il generale Rostagno, seguito da nobili generali, vertici gallonati, con il seguito di tirapiedi e imboscati del comando di divisione.

    Nella confusione, scappato dall’Albergo Venezia di Asiago, signorile con i suoi water e luce elettrica. Comando che si rifugerà in sosta, per pochi giorni a villa Rossi, nei raffinati diplomatici saloni, disorientato dalle due ali della divisione in differente ritirata e poi, con il suggerimento e scusa di affrontare il nemico in battaglia campale, spinto pericolosamente in direzione contraria, fino quasi essere rovesciato giù dai monti.

    Oltre La Barricata, appena la valle rompe i suoi fianchi e si apre alla luce l’Albergo, si noti bene, della –salute-, nel piccolo mosaico di Val Campiello, luogo di ristoro per tutti quelli che vogliono ritemprare il fisico e gli acciacchi dell’età. Già allora un primordiale turismo del benessere, varcata la soglia della Barricata si spingeva fin lassù, all’Albergo della Salute. Incuriositi, seguivano la rotabile aggirando il Monte Costo. In penombra, entravano in Val Canaglia passando sopra il ponte a due arcate disegnate da sassi rossi, squadrati, assemblati perfettamente. Sotto, ad una delle volte, s’infilava invece, un bizzarro trenino, seguendo parallela la strada con rare automobili, sbuffando giungeva a Campiello: lì, la stazione di pompaggio dell’acqua e piattaforma girevole per il locomotore, nei pressi dell’albergo, per l’appunto, della salute, con aria sana e odore impregnato di carbone bruciato.

    -Erano in salute, quando i vertici della 34^ divisione transitarono frettolosamente lungo il fondo della valle nel lontano maggio dell’anno 1916?

    A bisogno si usa l’espressione:

    -Bisogna avere le idee chiare!-.

    Sarebbero servite, e di grande aiuto a tutti i comandanti sabaudi, di ostentare sicurezza, determinazione e salute, perché finissero di sloggiare continuamente d’albergo in villa, fino a giungere disperati, alloggiare in quello della Salute senza coglierne l’aspetto ritemprante per finire poi, in caverna.

    Per i libri di scuola, all’incalzare della spedizione punitiva degli Asburgo, lasciata strategicamente, senza combattere, la conca di Asiago e la posizione del Monte Cengio, il Comando Militare di divisione si spinse più a occidente, nelle viscere, al coperto della dorsale di Monte Costo.

    Un camminamento erto dallo stanzone del Generale Rostagno, tracciato in viva roccia, conduceva alle casematte delle mitragliatrici, le cui direttrici di tiro ostacolavano e chiudevano il transito allo sfociare della Valle Canaglia.- Di nome e di fatto!

    Per l’ultima volta - La Barricata - svolgeva il suo ruolo di chiudenda di isolamento geografico, segnando nel maggio dell’anno 1916 l’ultimo arretramento al confine di stato. Non sarebbe più stata barriera orografica a separare genti, scambi linguisti e commerciali; solo osteria, da dove osservare il panorama sulla pianura vicentina.

    Rico nel suo proseguo, a bordo della sua citycar, si era preparato una cartina topografica ingrandita 1:10000 di una zona prativa e mammellonare dell’area formante, un triangolo. Comprendeva l’apice di Lughi, sopra La Stretta di Fondi, sulla sinistra orografica della Valle Assa. La direttrice dello sbarramento del britannico incrocio a Ghelpach Park, al terminale di Penny Cross proveniente da Spiazzo Battisti. Quindi, sul ponte sotto Canove, e il congiungimento con la rotabile a Case di Buso di Cesuna: giusto sopra la testata della Valle Canaglia.

    Il mancato innevamento del mese di gennaio si era esaurito con una brinata mattutina sui versanti esposti a nord delle gibbosità montuose seguendo le bizzarrie di un sole luminosissimo: il vero inverno si distendeva al piano, maturava premuroso sopra la campagna veneta inondando di bianca galaverna fino alla laguna veneziana. Tra i monti, soltanto cotiche erbose striminzite e rinsecchite; ridotte a niente e polvere. L’orografia minuta dei siti boschivi e prativi si mostrava in tutta la sua nudità in un plastico bassorilievo facile da percorrere per il podista, senza seguire i sentieri. Tanta e tale è la passione sportiva, amatoriale di Rico unita al suo lavoro di corrispondente: -Il Quotidiano Montagnanese-.

    La motivazione che spingeva Rico all’escursione podistica, era racchiusa nelle pieghe della storia studiata a lungo nel tepore dello studio in redazione: ore di lavoro sopra ad un tavolo a sfogliare tante pagine di libri e soprattutto in un caldo avvolgente, intimo, dal sapore d’altri tempi di ceppi ardenti di focolari montani, seguendo e interpretando con la fantasia il filo d’Arianna dei passati avvenimenti.

    Fuori spirava la cristallina galaverna a coprire ogni dove e nei tratti a tramontana ghiacciare la superficie delle melmose acque dei canali d’irrigazione. Il ghiaccio lasciava poco spazio alla vita acquatica in superficie dove paperette nere, in fila indiana superavano il guado, rabbuffandosi a riva ai pochi raggi solari.

    In casa Rico proseguiva le sue ricerche: aveva approfittato delle ombre delle ore serali, all’approssimarsi velocemente del calar del sole, per scaricare da più siti qualificati documentazione utile per l’itinerario da seguire. Egli si recò presso la biblioteca civica di Asiago per documentarsi sul passaggio del conflitto bellico dell’intera area da percorrere di corsa, scelta non casuale, in quanto teatro naturale che guarda ad est verso la conca di Asiago e a ovest verso il Cimone, dell’omonimo ossario. Dietro i calvari dei Due Denti del Pasubio, italiano e austriaco, e appena più in là, il Monte Corno, divenuto poi Battisti di nome Cesare. Personaggio di maggior interesse alla curiosità di Rico legata alle vicende militari del suo maggior intervistato: il sottotenente Carlo Emilio Gadda, del 5° Alpini.

    Presto i lettori Il Quotidiano Montagnanese, accomodati ai tavoli della piazza medioevale, tra il sorseggiare e il calpestare i consumati fogli di marmo pavimentato, sotto le arcate di Palazzo Lombardesco, sarebbero stati incuriositi leggere i resoconti e le interviste fatte dal loro corrispondente dal teatro di guerra, definito da Rico, per logica di conquistatori, il Far West di Asiago.

    Di rievocare episodi collegati alla Spedizione Punitiva del maggio dell’anno 1916, tra il territorio dei due comuni orfani della loro terra montana, ospiti al civico di Pojana e Noventa Vicentina.

    La curiosità aveva spinto Rico a fermarsi con la sua citycar all’unico posto di ristoro in Val Canaglia, come allora l’Albergo della Salute e contestualmente la fermata ferroviaria di Campiello.

    La piccola auto smorzava i calori del motore e Rico si apprestò al bar per bere un cafè tonificante e respirare una profonda, salubre boccata d’aria, della miglior qualità, profusa anche, al tempo, ai responsabili gallonati di un esercito sabaudo in continuo indietreggiamento.

    La stessa che era assaporata anche da coloro chi frequentava, in tempi di pace, le camere dell’albergo a cavallo dei due secoli precedenti, inteso che qui ritemprare il corpo e scontare lunghe, convalescenti giornate aveva senso per riempire lo spirito, assecondarlo da vasti orizzonti, dai piedi della montagna agli scintillii del mare argenteo nelle limpide giornate verso la bella, addormentata: la Laguna Veneziana.

    -Buongiorno! Squilla il campanellino intonato dall’aprirsi della porta:

    -Mi fa un cafè, anzi, meglio, un cappuccino?

    Però, Rico non si accorge che al momento della richiesta non c’è nessuno a rispondere e dal retro della cucina arriva frettolosa la risposta:

    -Certo, signore! Si affacciò una donna. I due si guardano in faccia, incuriositi, in una pausa istintiva per entrambi fissandosi negli occhi e corrompere l’aria nel bar schiacciata dal soffitto basso:

    -Oggi è una buona giornata, e per essere in gennaio non fa per niente freddo quassù.

    Chissà perchè l’argomento più comune per dialogare tra due estranei sono sempre gli aspetti meteorologici di giornata. Il comune sapere è il più aggiornato di un clima abbastanza bizzarro e poco legato alle tradizionali previsioni del calendario gregoriano di Frate Indovino o dettate delle condizioni di limpidezza e visibilità di una pietra forata, o meglio, di quelle locali tramandate oralmente, dicevano:

    -Tante vespe, tanta neve!-

    Detto del quale si sono persi i parametri delle osservazioni di una generazione venuta a mancare e il verdetto funziona soltanto con la legge dei grandi numeri, quando, per caso, la combinazione si manifesta. In verità le vespule, inverosimile, avevano conficcato il loro ardiglione sulla pelle degli incauti ricercatori di funghi a scovare false Morette e Pipe del Morto. Incautamente avevano occluso con un pestone l’entrata del nido a terra degli imenotteri scatenandoli all’attacco agli albori del mancato inverno tra resistenti, arcaiche felci. Di neve solo il colore della brina all’ombra e qualche raro e disabitato nucleo di celle abbarbicato al tronco di più comuni vespe cantonaie riparatesi meglio tra le pieghe delle cortecce di abeti buoni solo per marcire e nutrire il sottobosco.

    La donna dell’albergo, minuta, bambolina un tantino, fianchi larghi, aiutata dal collo alto della flanella sembrare più alta con i capelli raccolti all’insù. Scrutò Rico da cima a fondo. Le forme anatomiche dell’uomo risaltavano maggiormente, notando la donna una tuta leggermente diversa dalla solita, meglio attillata, ne di quelle che s’indossano per il trekking, ne di quelle rinforzate che si usano nella speranza di sciare. La signora sgranando i grossi occhi dai bulbi bianchissimi, di netto le chiese:

    -Perché lei è di pianura?

    -Certo!, vengo dalla bassa padovana dove le radici del mais sostano per l’inverno a pelo di piatta aratura e le zolle grigie, specchiate, rivoltate dall’aratro negli arativi delle Patate Meriche sono, per il momento, ricoperte dalla brina, che qui non vedo, se non negli angoli più remoti e ombrosi.

    Riprendendo velocemente fiato:

    -La coltivazione delle Patate Americane è tipica della zona di Stroppara dove un conte ebbe l’intuizione di abbinare al particolare, fertile terreno, la coltivazione del dolce tubero rendendolo ancora più appetibile. La signora pensò proprio: -Questo è proprio un matto di pianura che invece di prender aria se la porta appresso tutta!

    Continua il dialogo la signora, interrompendolo:

    -Per forza! Il sole è tutto qui, è talmente limpido...e poi i venti sono fiacchi e caldi e non fa neanche tempo a ghiacciare:

    -Lo mangerebbe un panino con la soppressa? è casalinga sa, della nostra gestione: dell’albergo.

    -Meglio!, e chi corre dopo!

    -Perché, lei corree… a piedi?

    -Vedo che calza delle scarpe di quelle che da queste parti non si vedono e il corpo tuta è più sottile ed esalta la muscolatura. E’ tuta meno colorata e poi non ha gli scii sulla macchina.

    Rico:

    -Benissimo!

    -La tuta è fatta apposta con cuciture rifinite e piatte per non arrossare la pelle sui movimenti, quelli maggiormente interessati, sotto le ascelle, attorno al collo, e ovvio, le parti umide, tra le gambe.

    Rico si mise una mano proprio là, con gesto istintivo.

    La signora:

    -Ah! volevo ben dire io.

    -E’ venuto su con quella macchina?

    -Si, è un pochino piccola e lenta ma basta adattarsi: è del giornale!

    -Va molto meglio a districarsi sulle stradine di campagna e poi consuma poco: niente.

    -Ha l’impianto a gas!

    La signora:

    -aah, lavora per un giornale?

    -Guardi bene fuori, sul cofano della macchina, c’è scritto:

    -Il Quotidiano Montagnanese.

    La signora sporgendosi da sopra il banco, tirando gli occhi, rimpicciolendoli:

    -Orpo!, xé véro!

    -Complimenti, ciò!

    -Lo prende il panino, allora?

    -Benissimo!-non era nelle mie intenzioni, ma và bene lo stesso. E ci metta a parte, pure, due di quei scalogni che vedo in conserviera sottolio.

    La signora:

    -Fa molto bene, sono in agrodolce e li preparo io d’autunno qui, in casa. Li coltiva mio figlio nell’orto che possiede dietro la casa riparto dalle intemperie dalle legnaie.

    -Ma non è un albergo questo?

    -Certo! la gestione è familiare e per noi il forestiero è di casa quando varca quella soglia.

    -Ho capito!, scommetto che ha anche del vino buono.

    Senza parlare la donna pose il bicchiere sul bancone e lo riempì di un rosso corposo, riposato e profumato.

    -Si sieda al tavolo. Le porto io il panino imbottito, scalogni e vino, e se mi permette poi, le faccio anche il cafè.

    -A bisogno signora, la ringrazio. Le dirò io

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