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Memorie di una rivoluzionaria
Memorie di una rivoluzionaria
Memorie di una rivoluzionaria
E-book643 pagine5 ore

Memorie di una rivoluzionaria

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Info su questo ebook

Persino la terra fremeva d’indignazione quando Dolores Ibárurri prendeva la parola per denunciare i crimini del fascismo in Spagna e in Europa. E i volti degli uomini, delle donne e dei bambini si illuminavano di forza e di speranza non appena Dolores, “la Pasionaria”, dava voce alla virtù degli operai e dei contadini che, in tutto il mondo, ingaggiavano una lotta senza quartiere con i loro sfruttatori. Ma non si può capire la forza e l’importanza di un personaggio come Ibárurri senza conoscere la vita di una delle donne-simbolo della Resistenza europea: nata nel 1895 in una famiglia di minatori, fu sarta e domestica, sostenitrice della rivoluzione sovietica e fondatrice del partito comunista spagnolo. Formidabile organizzatrice di scioperi, si mise alla testa del movimento che ingaggiò una formidabile battaglia contro Francisco Franco e i suoi squadristi mentre, come madre, vide suo figlio versare il proprio sangue combattendo con l’Armata Rossa contro le truppe naziste. C’è tutto questo e molto altro ancora nelle Memorie di una rivoluzionaria scritte da Dolores Ibarurri: un’autobiografia umana e politica di rara intensità che resta un classico imprescindibile del movimento operaio.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2017
ISBN9788867181872
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    Memorie di una rivoluzionaria - Dolores Ibárruri

    TUTTELESTRADE

    ebook

    Memorie di una rivoluzionaria

    di Dolores Ibárruri

    titolo originale: El unico camino

    Prima edizione in e-book: novembre 2017

    Design Dario Morgante

    Red Star Press

    Società cooperativa

    Via Lorenzo Bonincontri, 41 – 00147 Roma

    www.facebook.com/libriredstar

    redstarpress@email.com | www.redstarpress.it

    La riproduzione, la diffusione, la pubblicazione su diversi formati e l’esecuzione di quest’opera, purché a scopi non commerciali e a condizione che venga indicata la fonte e il contesto originario e che si riproduca la stessa licenza, è liberamente consentita e vivamente incoraggiata.

    Dolores Ibárruri

    MEMORIE

    DI UNA RIVOLUZIONARIA

    REDSTARPRESS

    Parte prima

    «Sempre in te mi cerco, nido della mia

    infanzia, Bilbao, angolo amato in cui tentai

    con ansia il primo volo, indovina che canta

    i miei ricordi colmi di speranza e di conforti».

    Migue de Unamuno

    In principio era il minerale...

    Delle tre province che costituiscono quella che oggi si chiama Euzkadi e ieri Euzkalerìa, la Biscaglia è la più ricordata, la più famosa, la più conosciuta. A tal punto che da sola ha dato il nome a tutto il paese basco.

    Non ci sono in Biscaglia – e c’è da dolersene – né giralde, né moschee, né acquedotti, né «case appoggiate», né cattedrali gotiche¹.

    Non ci sono neppure pianure sterpose, disseminate di mulini capaci di far impazzire i cavalieri erranti, né bagni di principesse, né mura romane, né chiostri di sogno, né ponti del diavolo che danno tono e carattere ad altre regioni della penisola.

    La fama della Biscaglia le viene da se stessa. Dal suo popolo senza data di nascita né genealogie stabilite. Viene dal suo idioma che non ha parentela con nessuno dei linguaggi conosciuti. Dai suoi uomini intraprendenti, duri, temprati dalle sofferenze, forgiati con lo scalpello, in lotta permanente con una terra aspra che resiste all’aratro di legno, che ammette soltanto la vanga di ferro; con un mare indomito e burrascoso, gravido di venti traditori, il cui umido respiro copre di piogge e di nebbie permanenti i monti e le valli della sua terra millenaria.

    Quando greci e romani scrivevano la storia e la Spagna era una provincia romana, la fama dei baschi giungeva sino ai confini del mondo conosciuto, intessuta di miti e di leggende sul loro carattere e sui loro costumi, sulle ricchezze racchiuse nella profondità delle loro montagne.

    In modo particolare l’ammirazione degli storiografi si accentrava su un fantastico monte «tutto di ferro» che si innalzava sulle coste scoscese della regione settentrionale della penisola, i cui versanti affondavano nel procelloso mar Cantabrico.

    E non erano, no, invenzioni o immaginazioni, le notizie sulla montagna ferrosa.

    Un ricchissimo giacimento di minerale di ferro si estendeva quasi senza interruzione e a fior di terra, dalla provincia di Santander ai confini con la Biscaglia, sino a San Miguel de Basauri, a occidente di Bilbao, per un’estensione di più di trenta chilometri, dando un colore particolare alla catena montagnosa in corrispondenza dei filoni.

    Di questo minerale che costituiva un’immensa ricchezza, fu sfruttata per molti secoli solamente una minima parte, che serviva – anche quando l’età moderna era già avanzata e quando la rivoluzione industriale si era compiuta in diversi paesi d’Europa – per approvvigionare le rudimentali ferriere che esistevano nella regione. Solo a metà del secolo scorso queste ferriere furono sostituite dagli altiforni e dalle grandi officine siderurgiche che fecero del paese basco il centro dell’industria pesante spagnola.

    Da queste ferriere, situate a grande distanza dai fiumi torrentizi o sulle stesse montagne, come testimoniano i depositi di scorie scoperti in diversi luoghi, uscivano, dopo un lungo e costoso processo di fusione e di lavorazione del minerale e del ferro ottenuto, le vanghe e le zappe che servivano per l’agricoltura; i cerchi per i carri a buoi; le catene e le piastre dei paioli; graticole, tenaglie, padelle, pale e spiedi per le cucine rustiche; i chiodi e le armature per le costruzioni; le incudini e gli strumenti da taglio delle fucine; i ferri dei cavalli, muli e buoi; i cerchi delle botti e dei barili; le asce e le zeppe dei taglialegna; i picchi, le trivelle e i perforatori adoperati nelle miniere; le ancore, gli arpioni, i ferri e le carcasse delle navi e delle barche da pesca; e ogni specie di attrezzi e ferramenta commerciabili.

    I fianchi delle montagne dove si trovavano i giacimenti – specialmente nelle zone di Somorrostro, Triano e Galdames, perforate dai ricercatori dei filoni migliori – somigliavano in lontananza a immensi favi lavorati da gigantesche api, i cui alveoli si modificavano o scomparivano quasi giornalmente sotto i colpi di picchi e trivelle, che mani robuste di uomini avvezzi al rude lavoro maneggiavano con agilità e con sicurezza.

    Il tenore di ferro del minerale basco era straordinario. Mentre i migliori minerali stranieri davano un rendimento in metallo del 48 per cento, quelli di Biscaglia raggiungevano il 56 e anche più di ferro.

    Apprezzando giustamente l’importanza del minerale basco per l’economia spagnola, il famoso drammaturgo del secolo XVI, Tirso de Molina, nella sua famosa commedia La prudenza è femmina, scriveva che: «col ferro di Biscaglia la Spagna il suo oro conserva...». Purtroppo, questa non era che un’ottimistica supposizione del poeta e drammaturgo.

    L’inerzia e l’incapacità delle classi dirigenti spagnole consegnò in mani straniere non solo l’oro che restava nelle casse quasi esauste dello Stato spagnolo ma anche il ferro che avrebbe potuto garantirlo e aumentarlo.

    Prive di sentimento nazionale e soddisfatte delle briciole che gli stranieri lasciavano dallo sfruttamento delle ricchezze minerarie, le classi dirigenti consegnarono alla cupidigia straniera il rame, il piombo, lo zinco, lo stagno, l’argento, il mercurio che si trovavano in abbondanza nel suolo e nel sottosuolo spagnoli, privando così la Spagna dei mezzi e delle risorse che costituivano la base del suo sviluppo industriale e della sua indipendenza economica e politica.

    Se per la vendita onerosa o per l’irresponsabile regalo alle compagnie straniere del rame di Rìo Tinto, del mercurio di Almadén, del piombo di Linares o dello zinco di Santander, i governanti spagnoli non trovavano grandi difficoltà; viceversa le riserve di minerale di ferro della Biscaglia erano difese in certa misura dall’esistenza di leggi e di costumi locali, riconosciuti e rispettati anche nel periodo anteriore alla formazione dello Stato spagnolo.

    Le contese dinastiche per la successione al trono alla morte di Ferdinando VII nel 1833 – pretesto specioso della prima guerra carlista – furono abilmente sfruttate da coloro che fra le quinte incitavano le due parti alla lotta per aprirsi la strada verso i giacimenti minerari del nord della Spagna.

    Basandosi sul fatto – esagerato e deformato – che la Biscaglia aveva appoggiato Don Carlos – il quale contendeva la corona di Spagna alla figlia di Ferdinando VII – il governo di Madrid al momento della pace, dopo la convenzione di Vergara² nel 1839, abrogò arbitrariamente e ingiustamente le leggi forali³, la cui origine affondava nella lontananza dei secoli.

    Non c’era bisogno di un grande sforzo di immaginazione per comprendere che il pretesto usato dal governo di Madrid per giustificare la soppressione dei fueros e delle libertà di Euzkadi non era che un grossolano raggiro politico, col quale si coprivano i piani elaborati da molto tempo nelle cancellerie straniere, interessate allo sfruttamento e alla coltivazione delle ricchezze minerarie della Biscaglia.

    In realtà i villaggi baschi avevano partecipato alla lotta al fianco del pretendente, trascinati alla guerra dalla Chiesa – che appoggiava la causa carlista – e dai gruppi più tradizionalmente reazionari della regione, che in Don Carlos vedevano il difensore della religione e dei fueros.

    Ma non è meno certo che le città, centri nevralgici del commercio e della vita economica e politica del paese, si erano mantenute a fianco del governo.

    Fu precisamente nella capitale della Biscaglia, nella Bilbao gloriosa ed eroica degli «assedi» – varie volte accerchiata e mai conquistata dal carlismo – che fu assestato il colpo definitivo all’esercito carlista. Qui furono scompaginate le fila del pretendente. Di qui furono respinti sino alla frontiera francese gli ultimi mohicani di Don Carlos; questo rendeva ancora più ingiuste e intollerabili le rappresaglie politiche del governo di Madrid contro il popolo basco.

    E poiché «non c’è male senza bene», ciò che il popolo perdeva in libertà e in diritti nazionali lo guadagnava la borghesia indigena e straniera, alle quali si aprivano eccezionali possibilità di arricchimento. Poiché qui, come in ogni altra parte, lo sviluppo del capitalismo avanzava distruggendo senza nessuna considerazione tutto ciò che per i popoli è caro e sacro: libertà, indipendenza, costumi e tradizioni, rapporti sociali e familiari.

    Al riparo delle disposizioni regie e sotto la spinta delle forze che muovevano i fili della politica spagnola del tempo, ebbe inizio l’intenso sfruttamento delle ricchezze minerarie del paese basco.

    Si mise fine allo sfruttamento individuale dei giacimenti ai quali tutti i nativi del paese avevano diritto di accesso. Si stabilirono condizioni e leggi che regolavano a favore di pochi l’estrazione del minerale. Cessò l’approvvigionamento regolare delle ferriere. Gli altiforni inglesi, francesi e belgi esigevano infatti milioni, decine di milioni di tonnellate di minerale basco.

    E se lo prendevano gratis. Le leggi forali che avrebbero forse potuto frenare la spoliazione delle ricchezze nazionali con un’utilizzazione più razionale, non erano più in vigore.

    A causa della resistenza opposta dai gruppi baschi, che non accettavano le condizioni della convenzione di Vergara e che si attaccavano disperatamente a un passato ormai finito per sempre, lo sfruttamento libero, aperto e su larga scala delle miniere di Biscaglia cominciò soltanto dopo la rivoluzione del 1868, soprattutto dopo che le ultime illusioni della tradizione fuerista crollarono sotto il rombo vittorioso dei cannoni della difesa di Bilbao, che accompagnò l’agonia del carlismo nella quarta e ultima guerra civile del secolo XIX.

    Invasione...

    Ristabilita la pace dopo la sconfitta del carlismo, tutta la Biscaglia e in particolar modo la regione delle Encartaciones – che era stato il principale campo delle operazioni militari – mostravano le ferite sanguinose prodotte dalla lotta fratricida, testimoniando la durezza della lotta.

    Lungo i pendii e le gole del Montaño e del Galdames, nelle terre di S. Pedro Abanto, di Murrieta, di Somorrostro e di Sopuerta, lunghe e contorte linee di terra smossa indicavano l’allineamento delle antiche trincee e le posizioni dei due eserciti. Queste trincee servivano da tomba comune alle migliaia di combattenti di ambo le parti, caduti nella lotta, avversari irriconciliabili in vita legati per sempre nella morte.

    Nei villaggi e nelle borgate donne in lutto prendevano nelle loro mani la direzione delle case in cui mancava il capo famiglia. Né le madri né le spose – alle quali erano venuti per sempre meno l’amore e la protezione dei caduti nella guerra – potevano spiegarsi perché erano morti i loro figli, i loro mariti, i loro fratelli e i loro genitori in quella contesa assurda, criminale, che distrusse focolari e rovinò famiglie, che seminò in ogni paese, in ogni villaggio (a volte fra gli uomini della stessa stirpe, del medesimo sangue) il seme dell’odio di Caino, della vendetta, dell’inimicizia.

    Ricordando quelli che erano partiti senza far ritorno – attratti dalla chimera di una causa estranea, facendo brillare baldanzosi il rosso cappello dei soldati carlisti o quello nero dei liberali – e che adesso marcivano senza nome, confusi nella medesima fossa aperta ai margini della strada al riparo di un faggio o di un rovereto, si chiedevano con angoscioso dolore: «Perché, Dio mio, perché...?».

    Non si erano ancora asciugate le lacrime per i caduti, ancora si pregava all’ora del pasto familiare «per quelli che mancano». Mentre sulle tombe di famiglia delle chiese di campagna le madri e le vedove continuavano ancora a distendere la domenica e le feste comandate i bianchi mantelli – sui quali ardeva nei semplici candelabri di bronzo, conservati in ogni famiglia come una reliquia, la fiamma del ricordo e della devozione ai morti indimenticabili – già per le valli e le montagne delle Encarnaciones risuonavano accenti stranieri, dove senza troppa fatica poteva trovarsi una risposta ai penosi interrogativi aperti dalla guerra in migliaia di famiglie.

    Uomini completamente estranei al paese esaminavano con occhio avido e investigatore monti e colline, campi e prati, rilievi e pendii, calpestando con le loro scarpe ferrate le tombe appena coperte. Misuravano e delimitavano terreni che non gli appartenevano. Tracciavano schizzi, ricavavano piani, inchiodavano pali, collocavano confini, parlavano un gergo del diavolo che nessuno aveva mai sentito prima: «compagnie anonime, pertinenze, concessioni, denunce, espropriazioni forzose, importazioni di capitale, mano d’opera a poco prezzo, esportazione di minerali, industrializzazione...».

    Il diritto pubblico cambiava perché cambiavano i rapporti di proprietà. Ieri questo era del comune, quello di una famiglia, quello più in là di un’altra... Oggi tutto appartiene ad altri.

    I pastori non possono pascolare i loro greggi sui monti comunali e gli abitanti non possono far legna nei boschi del Municipio. È proibito. La strada della propria casa non è più una strada, cade dentro una «pertinenza». La chiudono con filo spinato e non valgono le proteste. Il terreno che ancora conserva le tracce del cammino degli avi e dei padri è prescritto dai nuovi proprietari. È stata fatta una legge che riconosce il diritto dei nuovi venuti mentre il popolo è spogliato dei suoi, stabiliti e mantenuti per secoli dall’uso e dai costumi.

    Nomi stranieri colpiscono gli occhi, dall’alto dei cartelli indicatori. Qui la Luchana Mining; là la Orconera. Più lontano la Franco-Belga, la Rothschild, la Galdames. Là, a Posadero e Covaròn, la MacLenan e altre di minor conto.

    I pesanti carri a buoi – sui quali il minerale veniva trasportato dai filoni alle vecchie ferriere, alle lance da carico del rio Galindo o del Somorrostro – venivano via via sostituiti dalle ferrovie minerarie che, tagliando rilievi e attraversando montagne, collegavano gli angoli più remoti del bacino minerario con i porti di imbarco e con la zona industriale sidero-metallurgica, la quale nasceva e si sviluppava parallelamente.

    La geografia del paese era profondamente modificata. Sparivano le montagne, si spezzavano i pendii, campi e prati erano coperti di scorie, le valli pareggiate alle colline, sollevato il fondo dei precipizi.

    Si facevano piani inclinati, si aprivano trincee, si innalzavano ponti. Sopra i quartieri operai, sui castagneti e sui rovereti, si incrociavano le filovie. Esplosioni di dinamite, cigolare di cavi e di vagoni, ansare di locomotrici, un colpire incessante di picchi e di trivelle rompe la quiete delle valli prima silenziose e una nuova vita piena di affanni, di inquietudini, di soprassalti ferve in quelle che l’anno prima erano montagne tranquille e placide località.

    Attorno alle case del villaggio sorgeva il quartiere operaio, misero, fatto di baracche e spersonalizzato.

    Il modesto villaggio addormentato nella pace dei campi si svegliava di soprassalto e cresceva rapidamente fino a trasformarsi in un paese industriale o in una città commerciale.

    Non si udirono più le danze e le canzoni basche che parlavano di memorie millenarie, di guerre, di eroi leggendari, di libertà.

    Non si affacciava più l’Ecbecojana⁴ (come nella canzone di Altabiscar) alla porta della casa nobile, a chiamare col suo corno di guerra i biscaglini per difendere la terra invasa dagli stranieri. Adesso li invitava a entrare in casa sua e seduti vicino al fuoco intorno alla pesante tavola di rovere – mentre mangiavano baccalà arrosto e bevevano il dolce sidro o l’aspro chacolì e nella cenere calda del focolare crepitavano rumorosamente le castagne messe ad arrostire – discuteva con loro il pagamento delle pertinenze, il prezzo delle azioni minerarie e la quotazione in borsa delle ferrovie e delle compagnie di navigazione.

    Proletariato

    La Biscaglia si industrializzava a ritmo febbrile. Oltre l’intenso sfruttamento delle miniere, si costruivano grandi fabbriche, altiforni, bacini di costruzioni navali e officine di ogni specie da Portugalete a Zorroza, da Lamiaco a Deusto. Si chiudeva il Nerviòn in un letto di pietra e di ferro. E dalla «barra» di Santurce salivano contro corrente, in cerca di minerale, imbarcazioni di tutte le nazionalità, innalzando sul grigio panorama di una Bilbao nebbiosa e piovigginosa una foresta di bandiere multicolori.

    La vita cominciò a scorrere per nuove strade. La pace trionfava sulla guerra e con la pace il lavoro, l’industria, il commercio. Affioravano alla superficie immense forze produttive fino a ora sepolte. La Biscaglia si trasformò in un centro di attrazione per uomini e capitali.

    Si attenuavano i rancori e cadevano gli odi delle vecchie fazioni che avevano ripetutamente insanguinato il paese. Una febbre di produzione e di arricchimento innalzava una barriera tra il recente passato e il futuro che nasceva in quel presente di affari, di transazioni, di commercio, di industrializzazione e di duro lavoro salariato per migliaia di lavoratori sfruttati in maniera disumana.

    Una popolazione operaia eterogenea, venuta da tutte le regioni agrarie e anche dai bassifondi delle grandi città, andava ammucchiandosi negli immondi baracconi innalzati nelle vicinanze o si affastellava nelle abitazioni delle famiglie dei minatori, già stabilitesi in maniera permanente.

    Lo sfruttamento delle miniere era semplice e poco costoso. Era appena necessario togliere il materiale di sgombro. Non erano necessari né pozzi profondi né gallerie costose. Il minerale era lì a fior di terra, che affacciava da tutte le parti il suo volto di color rosso o rosso scuro e che dava un aspetto particolare alla zona mineraria, dove tutto era graduato secondo quella tonalità.

    Lo sfruttamento delle miniere era caratterizzato non solo dalla capacità con la quale il paese veniva spogliato di ciò che costituiva la sua principale ricchezza ma anche dal trattamento brutale che veniva inflitto agli operai che vi erano impiegati. I minatori lavoravano da una notte all’altra, senza orario stabilito. Uscivano di casa prima dell’alba e non tornavano che a notte ben inoltrata. I baracconi che le compagnie minerarie offrivano come alberghi a quelli che venivano da altre terre assomigliavano più a delle stalle che ad abitazioni civili.

    Nella notte, quando gli operai si erano già ritirati, i baracconi offrivano uno spettacolo dantesco: pieni del fumo dell’acre tabacco dei minatori, rischiarati dalla luce incerta di una lampada a olio o a petrolio sistemata al centro della baracca. Le figure degli uomini mezzi nudi si distinguevano confusamente mentre si muovevano nei giacigli o sedevano sulle stuoie, in un’atmosfera pestilenziale nella quale il puzzo del sudore e degli alimenti fermentati si mescolava a quello nauseabondo delle orine e dei rifiuti che traboccavano dai buglioli collocati in uno stanzino, aperto sulla sala comune di ogni baraccone.

    Gli uomini dormivano sopra sacchi ripieni di paglia di mais, distesi su stretti banchi di legno. Si coprivano con i loro «tappabocche» – una specie di coperta di lana grezza usata dai minatori – nei quali si avvolgevano per ripararsi dal freddo o dalla pioggia e che, eccetto durante l’estate, erano sempre umide o bagnate: si asciugavano durante la notte solo grazie al calore dei corpi, che tremavano di freddo o febbre.

    Gli abiti dei minatori – inzuppati di sudore e fango – pendevano appesi ai chiodi al capezzale dei giacigli, in amichevole compagnia con sardine, aringhe e baccalà, pezzi di carne salata, di carne secca, corone di aglio, cipolle e peperoni – e si scambiavano i loro odori e sapori particolari.

    Se qualcuno degli ospiti si ammalava di vaiolo o di tifo – malattie endemiche frequenti in quell’epoca e delle quali i baracconi erano focolai permanenti – veniva strappato dal suo giaciglio per essere portato alla baracca degli infetti. Il baraccone veniva spruzzato con acqua di calce e il posto lasciato dall’infermo, che non aveva più bisogno del giaciglio, veniva immediatamente occupato.

    I provvisori (per lo più di origine contadina) che vivevano nei baracconi erano – a causa delle condizioni antigeniche in cui erano obbligati a vivere – portatori di pericolosi virus che passavano senza controllo e senza dogana, senza barriere né cordoni sanitari, dalla Biscaglia alla Castiglia e dalla Castiglia alla Biscaglia, seminando ovunque infermità e mortali epidemie.

    In quegli agglomerati umani, composti di uomini di tutte le regioni spagnole, si amalgamavano linguaggi, costumi, credenze e superstizioni che si fondevano e rinascevano nella vita comune, nel lavoro e nella sofferenza, formando una specie di confusione linguistica, etica e morale in cui la fede religiosa si mescolava e si confondeva con la cieca fiducia nella pratica di fattucchieri e nella pseudo scienza di ciarlatani e guaritori.

    Si temevano le streghe, i fantasmi e gli spettri, si confidava nel potere dei Vangeli o di San Pedro Zariqueta contro il malocchio su persone e bestiame. Si credeva nelle virtù miracolose dei cordoni di San Blas o di Sant’Antonio, nell’alloro benedetto la domenica delle Palme per curare i malanni e le miserie di uomini e bestie, per scacciare la grandine e allontanare il fulmine dalla casa e dal gregge.

    Ma sotto la crosta della religiosità e dell’eresia, dell’ignoranza e della superstizione, nel cuore di quegli uomini si conservava, come la brace sotto le ceneri, un sentimento di fierezza, di dignità e di ribellione umana che niente poteva estinguere; che a volte, quando l’ingiustizia o la sofferenza insopportabili facevano superare la diga del rispetto e della rassegnazione, si manifestava in una fiammata omicida.

    Date le condizioni nelle quali si conducevano i lavori delle miniere, frequenti erano le frane e numerosi gli incidenti mortali, che a volte mietevano decine di vittime, come accadde nella miniera di San Miguel, intorno al 1880. In questa miniera quello che in gergo si chiama «cappello» franò e seppellì un gruppo numeroso di lavoratori che – sebbene il rischio fosse conosciuto – venivano obbligati a lavorare sotto la minaccia della frana. I minatori ci rimasero: i padroni della miniera considerarono – e le autorità furono d’accordo – che era una spesa e uno sforzo inutile toglierli da quella tomba.

    – Del resto – dicevano – che siano sepolti qui o nel cimitero le cose non cambiano...!

    I minatori riscuotevano i loro salari allo scadere del mese, ed erano obbligati a comprare i viveri, gli effetti di vestiario e le scarpe in cantine speciali, aperte dagli stessi padroni o da alti impiegati delle miniere. E spesso, molto spesso, quando dopo quattro lunghe settimane di lavoro, di sudori e di privazioni senza fine, si avvicinavano all’ufficio della fabbrica il giorno della paga per ricevere il loro salario, si trovavano a non dover ritirare niente. Le loro spese, secondo il conto presentato dall’incaricato della cantina, erano superiori alla loro retribuzione per il lavoro fatto durante un intero mese. E non c’era via di scampo. Il debito, esagerato e a volte inventato dai dipendenti o dal direttore, li legava alla miniera.

    I padroni delle miniere, oltre le liste nere coi nomi degli operai più ribelli, si passavano anche le liste dei debitori.

    L’operaio che aveva un debito col padrone o col dirigente di una miniera non veniva accettato a lavorare in un’altra prima di aver estinto il vecchio debito e le proteste non servivano a niente. La legge stava dalla parte del padrone e con la legge, i fucili della guardia civile, le carceri e le prigioni dei villaggi, o il coltello o le sbarre di ferro delle «bande di mazzieri» al servizio degli appaltatori.

    I padroni delle miniere, assorbiti dai loro grandi affari, non trascuravano peraltro la salute spirituale dei minatori: le domeniche e le feste comandate concedevano generosamente ai loro dipendenti un’ora per assistere agli uffici divini nella chiesa più vicina alle miniere. La partecipazione alla funzione era obbligatoria.

    Per altri bisogni, non altrettanto spirituali, si tollerava che gente senza scrupoli reclutasse nei bordelli della capitale prostitute di infima categoria che, in coincidenza con le giornate di paga, andavano nei villaggi delle zone minerarie a portar via i soldi dei più fortunati e a lasciargli per il resto dei loro giorni terribili malattie.

    La varietà e la diversità delle regioni di origine degli operai che andavano a lavorare nelle miniere suggerì ai direttori l’idea criminale di alimentare le avversioni e le rivalità regionali, dividendo gli operai in squadre a seconda della provincia o zona dalla quale provenivano. Di conseguenza una squadra era composta di navarrini, un’altra di aragonesi, questa di zamorrani, quella di arandini, una di riojani, un’altra di leonesi o di castigliani.

    Dividendo i lavoratori in gruppi regionali i padroni ottenevano due cose: aumentare l’estrazione del minerale con la stessa spesa e impedire il cameratismo e l’unità dei minatori di fronte ai loro sfruttatori.

    Ogni mattina il dirigente andava da una squadra, oggi da quella degli arandini, domani da quella dei riojani. Il lunedì parlava ai navarrini, il martedì agli aragonesi. Il procedimento era identico e identico il risultato.

    – Oggi – diceva agli aragonesi – i navarrini si sono impegnati a caricare tanti vagoni.

    I lavoratori ascoltavano, digrignando i denti e guardandolo con odio. Le parole del direttore li irritavano come punture di tafano.

    Ma il loro orgoglio regionale e il loro senso dell’onore non sopportavano che altri passassero avanti a loro. Una breve discussione e l’ira diventava sfida.

    – Noi caricheremo di più.

    –...Quanto...?

    Si stabiliva:

    – Navarra non supererà Aragona...

    E il direttore se ne va a spingere alla rivalità un’altra squadra. Il lavoro comincia con un ritmo febbrile, che sfinisce. Se un operaio affaticato si ferma un momento per asciugarsi il sudore o semplicemente per prendere fiato, i suoi compagni lo riprendono, lo insultano. L’odio animale, cieco, arde in seno alle stesse squadre: da parte dei giovani per gli uomini maturi che non lavorano come loro, dei vecchi per i giovani che, febbricitanti, lavorano sbuffando.

    L’impegno è adempiuto. Aragona alza la palma, gli aragonesi hanno vinto e gli resta ancora fiato per dire ai loro rivali col canto mordace di uno stornello:

    Navarrico, navarrico, non esser

    così fanfarone

    che i cuarti di Navarra

    non han corso in Aragona...

    Un altro giorno sono i navarrini a trionfare su un’altra squadra in questa sfida infernale e la fanfaroneria si innalza a virtù nazionale nelle strofe piena di arroganza:

    Non c’è nessuno che rompe le catene

    dello scudo di Navarra

    che son fatte con il ferro

    delle miniere di Biscaglia.

    Non sempre queste rivalità artificiosamente provocate finiscono in gare più o meno poetiche. A volte gli odi regionali si regolano a colpi di fucile o a pugnalate e finiscono per gli uni all’ospedale o al cimitero, per gli altri in carcere.

    La parola socialista

    Il movimento socialista nel paese basco ha la sua origine nelle prime organizzazioni dell’Associazione internazionale dei lavoratori, costituite in Spagna dopo la rivoluzione del settembre 1868.

    Bilbao, la capitale, fu uno dei centri in cui si costituirono le prime società operaie aderenti alla I Internazionale, l’Internazionale di Marx e di Engels. Il bakuninismo non ebbe alcuna consistenza in questa regione, dove le industrie che cominciavano a svilupparsi erano la mineraria e la metallurgica, con grandi concentramenti proletari.

    Il settimanale «La voz del trabajador» – pubblicato da quelle società – era l’organizzatore e l’unificatore dei piccoli gruppi di operai, che si costituivano in associazioni di resistenza per difendere i loro interessi di classe.

    Queste organizzazioni operaie sorgevano in modo intermittente dietro la spinta dell’industria, specialmente dello sfruttamento delle miniere, per scomparire al sorgere dei primi contrasti a causa della brutalità con la quale veniva represso ogni tentativo di organizzazione e di resistenza di un proletariato in via di formazione.

    Ma il seme del socialismo era gettato e avrebbe germinato a suo tempo.

    Dopo le scissioni causate dall’attività disgregatrice del bakuninismo e delle sezioni spagnole dell’Associazione internazionale, dopo la costituzione del partito socialista nel 1879 e dieci anni più tardi dell’Unione Generale dei lavoratori, l’organizzazione operaia e socialista cominciò a prendere corpo e peso nel paese basco, specialmente nella capitale.

    Con un lavoro tenace e paziente i primi socialisti biscaglini diffusero l’organizzazione operaia nelle zone delle fabbriche e delle miniere; già negli ultimi lustri del secolo scorso e nei primi anni del ventesimo il bacino minerario costituiva fondamentalmente la base dell’organizzazione operaia e socialista della Biscaglia.

    Non era facile verso la fine del secolo arrivare ai lavoratori delle miniere. I paesi del bacino minerario erano feudo di compagnie straniere, difesi gelosamente dal contagio rivoluzionario dalla guardia civile e dai guardiani delle compagnie.

    Ma gli sforzi del padronato furono inutili. In un periodo relativamente breve la Biscaglia diventò un baluardo del movimento operaio e socialista.

    Una domenica d’estate del 1889, mentre da Portugalete stava per partire la diligenza che giornalmente faceva servizio da questa città commerciale a Gallarta, centro della zona mineraria, un uomo dall’aria di artigiano si avvicinò di corsa e chiese al cocchiere, che tutti trattavano familiarmente, se c’era qualche sedile libero nella carrozza.

    Il cocchiere rifletté un momento: un nuovo passeggero non sarebbe stato un carico eccessivo per i tre destrieri che con un trotto stanco facevano ogni giorno quel viaggio fra i due paesi? Ma poiché il nuovo venuto era un uomo delicato e inoltre vestito decentemente, rispose che per quanto la diligenza fosse completa, se non gli importava molto dell’aria e del sole, gli avrebbe fatto posto al suo fianco a cassetta. Nel medesimo tempo, con un gesto di intesa e indicando con la testa l’interno della carrozza, disse in tono scherzoso:

    – Che bella famiglia porta oggi il mio carro...

    Senza capire che cosa volesse dire il cocchiere ma rallegrandosi di fare il viaggio respirando a pieni polmoni l’aria libera dei campi e della montagna, tanto necessaria al suo debole organismo, il nuovo viaggiatore si sedette dove gli era stato indicato, chiedendo con curiosità appena sistemato:

    – Chi ha detto che viaggia con la diligenza?

    – Non faccia caso alle stupidaggini. Era un modo di dire... Fra i viaggiatori c’è il giudice e il segretario del tribunale di Gallarta, due guardie civili e un paio di soldati di Ortuella. Come vede, partiamo sotto buona guardia e non c’è da temere che per la strada ci assalgano quei sovversivi di socialisti, che tutti li vogliono impiccare a testa in giù.

    Il viaggiatore sorrise pensando alle strane coincidenze della vita.

    Il cocchiere continuò la conversazione, mentre la diligenza infilava la strada di Urioste.

    – Lei non è di Gallarta, vero? Io conosco tutti gli abitanti e non ricordo di averla vista prima.

    – No, non sono di Gallarta. Vivo a Bilbao e non sono mai stato a Gallarta. Alcuni miei compaesani sono venuti a lavorare nelle miniere e vado a fargli visita. Ma non so ancora se riuscirò a trovarli.

    – Se lei ha l’indirizzo posso aiutarla.

    – Eccolo – tolse un pezzo di carta dalla borsa e lesse a voce alta – quartiere di Peñucas, carpenteria di X.

    – Ah! Lei è paesano del baulaio?

    – No ma lui conosce i miei paesani e potrà indirizzarmi.

    L’artigiano che si dedicava alla costruzione dei bauli non aveva niente in comune con i socialisti. Però una volta di fronte alla casa indicata, il viaggiatore sapeva dove doveva dirigersi.

    – È molto semplice trovare l’officina. È il solo baulaio in tutto il paese e chiunque può indicargliela. Comunque, arrivati a Gallarta le dirò io dove andare.

    Si avvicinavano a Ortuella, dove la diligenza doveva fermare sia per permettere al cocchiere di assolvere gli incarichi che gli erano stati affidati sia per far scendere o salire passeggeri. Il conducente tirò le briglie e i cavalli si fermarono.

    – Ci fermiamo qui cinque minuti – avvertì il suo accompagnatore – i soldati devono scendere e io vado a consegnare una commissione. Continueremo dopo. Manca poco ormai.

    Davanti allo sguardo incuriosito del viaggiatore si stendeva a destra la strada di Nocedal, che si avvicinava alla china di una collina coperta di vigneti; a sinistra in direzione di Gallarta levava la sua massa imponente, di un color rosso cupo il famoso «Monte», dove erano le miniere. Di fronte si ergeva il Serantes come una maestosa muraglia fra il mare e la zona mineraria e sul fondo, sopra la valle di Somorrostro, si profilava il Montano sulle cui pendici si erano svolti i più sanguinosi combattimenti dell’ultima guerra carlista.

    Il viaggio riprese. Giunti che furono a Gallarta il viaggiatore chiese al cocchiere:

    – Per dove si va al rione Peñucas?

    – Salga tutto il paese sino a giungere a una ferrovia. Lì comincia quel quartiere. Attraversi la via e sempre in alto, a sinistra, troverà l’officina che cerca.

    Il viaggiatore salutò ringraziando il cocchiere e dandogli una mancia che questi ricevette con piacere; cominciò a salire la ripida strada che portava alla miniera. Giunto davanti all’officina gli fu facile trovare quello che cercava: la casa di un minatore che secondo l’opinione della gente d’ordine era la «buccia amara», come si diceva allora di quelli che svolgevano una qualche attività politica e sociale.

    Qualche settimana prima, approfittando di un giorno di vacanza quest’operaio – il cui nome era Tomàs Chico – era stato al centro socialista della capitale e aveva insistito sulla necessità di mandare qualcuno nella zona mineraria dove maturava un ottimo raccolto.

    Chico era venuto a lavorare in miniera da un paese della Castiglia.

    Era venuto con la sua famiglia, la moglie e due figli piccoli, col fermo proposito di non tornare mai più al paese natio, dove non aveva conosciuto che miseria e privazioni. Era un uomo giovane, vivace, intelligente ed energico. Sin dal primo momento aveva avvertito la ribellione della sua coscienza di fronte allo sfruttamento durissimo al quale erano sottoposti i lavoratori nelle miniere. Ma non aveva scelta. Tornare in campagna non era possibile; qui invece la vita era dura ma si poteva lottare.

    L’arrivo del delegato dell’organizzazione che aveva già conosciuto in città lo rallegrò. Ai vicini lo presentò come un compaesano che viveva in città.

    Parlarono a lungo della situazione e del modo in cui avvicinare i lavoratori.

    – Incominciamo dai baracconi, – consigliò Tomàs – la maggior parte è gente giovane che non è troppo legata agli obblighi familiari; il dialogo è più facile con loro. Oggi è festa, se ci andiamo all’ora di mangiare li troviamo tutti.

    Si trovarono d’accordo e dopo un breve riposo durante il quale continuarono a scambiarsi le rispettive opinioni, si diressero a uno dei baracconi. Entrò per primo Tomàs, che alcuni compagni di lavoro conoscevano, e con lui il forestiero. Tutti gli sguardi si fissarono con curiosità sui nuovi venuti, specialmente sullo sconosciuto; si vedeva da lontano che non era un minatore.

    – È con te? – domandarono a Tomàs.

    – È con me.

    – Che vuole l’amico? Cerca lavoro? – azzardò qualcuno.

    – Cerco lavoro, ma non nella miniera.

    – Ma qui non c’è altro.

    Si fece silenzio. Sembrava che tutto fosse stato detto.

    – Posso sedermi?

    – Si sieda lì su quella branda, è pulita.

    Un minatore aprì la borsa del tabacco e l’offrì al nuovo venuto con un gesto amichevole, mentre Tomàs prendeva una sigaretta e l’accendeva al sigaro di un vicino.

    – Lei non fuma?

    – No, grazie.

    Il forestiero domandò:

    – Tutti i minatori vivono così?

    – La maggior parte. Alcuni un po’ meglio, altri peggio.

    – Ancora peggio?

    – Certamente. Vivono in stalle, vicino ai porci.

    – E pagano per questo? – disse indicando i sacchi pieni a metà di paglia di mais già marcia per l’uso e che sfuggiva dai buchi dei pagliericci.

    – Qui non si dà niente per niente, eccetto i pidocchi e la rogna – rispose lentamente un uomo maturo.

    – Soltanto questo è gratis? Io credo che ci sono cose che valgono più di tutto il minerale e che si danno gratis anch’esse.

    La risposta lascia sorpresi i minatori. Non afferrano il senso delle parole. Credono che il visitatore sia un inviato della compagnia che viene a parlar loro del suo umanitarismo. Li stupisce che un tipo così sia venuto con Tomàs, che rispettano e stimano come un onest’uomo. Però, chi lo sa...? La loro cordialità si tramuta in asprezza. Un giovane lo interrompe bruscamente.

    – Lei conosce le miniere?

    – Le conosco e conosco anche voi. Date alle compagnie il vostro sudore, la vostra forza e il vostro sangue. E che ricevete in cambio? Questo. Un letto puzzolente, un giaciglio puzzolente, un rancio infetto che vi fanno pagare caro e due pesetas di salario per quattordici o sedici ore di lavoro. Per questa miseria rischiate ogni momento la vostra vita, l’unica cosa veramente vostra. E la date gratis. Che cosa ricevono le famiglie di quelli che muoiono in miniera? Niente. Che cosa riceve chi resta invalido, inutile per il lavoro? Il diritto di mendicare e a volte neanche questo. Perché siete venuti a lavorare nelle miniere? Siete venuti perché nei vostri paesi non potevate vivere. Le cattive annate, le imposte... I padroni vi hanno cacciato dal paese dove siete nati e siete approdati qui con la speranza di raccogliere qualche soldo, di pagare i debiti, di liberarvi dell’ipoteca, di aiutare la moglie e i genitori. E che cosa avete ottenuto? Lavorate da una notte all’altra. Se restate invalidi in un incidente, nessuno pensa a indennizzarvi. Se vi ammazzate nessuno si preoccuperà dei vostri anziani genitori, delle vostre mogli né dei vostri figli. Non lavorate tutti i giorni perché la pioggia non lo permette. E anche calcolando che lavoriate tutti i giorni dell’anno – e sapete bene che non è così – ricevereste in totale 730 pesetas per 365 giorni, o se preferite per 5110 ore di lavoro in ragione di 14 ore al giorno.

    – Tutto questo è vero ma al paese non ricevevamo niente – obiettò una voce giovane dal fondo della baracca.

    – Certo, al paese non avevate la possibilità di ricevere un salario per tutto l’anno e la vostra situazione era differente. Lì eravate braccianti o contadini senza terra sufficiente per mantenere le vostre famiglie. Però lì né il vostro lavoro era tanto produttivo come qui né correvate i rischi che qui stanno in agguato a ogni passo.

    – Ci pagano per questo – ripeté la stessa voce. – Chi non si vuol bagnare, non vada al mare. E poi lei che cosa vuole? Il mondo è stato sempre così e così lo lasceremo anche noi. Ricchi e poveri ci sono sempre stati. Come dice la strofa:

    Anche tra gli alberi del monte

    c’è la distinzione:

    dagli uni si fanno i santi

    dagli altri si fa il carbone...

    – Non voglio adesso fermarmi a dimostrarvi che il mondo non è stato sempre così e che domani non sarà come oggi. Parleremo un altro giorno di questo. Adesso voglio soltanto chiarirvi qualcosa sulla quale non vi siete forse fermati a riflettere. Dicono che vi pagano per il lavoro e per i rischi. Vediamolo. Sapete quante tonnellate di minerale sono partite dal porto di Bilbao per l’Inghilterra, l’anno scorso⁵? Più di quattro milioni di tonnellate per le quali sono state pagate circa 37 milioni di pesetas. Questi milioni di tonnellate di minerale le avete estratte voi, dalle miniere. Nella zona mineraria lavorano 8.500 operai, il cui salario medio è fra le due pesetas e una peseta e settantacinque centesimi, che rappresenta un totale approssimativo di sei milioni, supposto che lavorassero tutti i trecentosessantacinque giorni dell’anno. Ai padroni restano più di trenta milioni di pesetas di guadagno. Anche se si sottrae da questo il costo degli attrezzi e del materiale, resterà ancora una buona manciata di milioni che voi gli regalate col vostro lavoro. Comprendi adesso, amico, perché io dicevo che voi lavorate gratis e che gratis date la vostra vita per ammassare le fortune dei padroni? Riflettete un momento. Da dove esce il danaro per costruire i palazzi che hanno cominciato a costruire a Bilbao? Da qui, dalle miniere. Da dove i mezzi per costruire le fabbriche che già incominciano a funzionare a Sestao, a Baracaldo e in altri paesi? Fondamentalmente dalle miniere, dal vostro sudore, dal vostro lavoro, dal vostro sangue, dalla vostra vita. Per una tonnellata di minerale ricevono otto, dieci, dodici pesetas. Voi estraete dalla miniera due, tre e a volte più tonnellate. Supponendo che il prezzo sia di 10 pesetas a tonnellata e che voi estraiate soltanto due tonnellate, vuol dire che voi producete 20 pesetas al giorno. Vi pagano due pesetas di salario: dove vanno le altre 18 pesetas?

    Nel baraccone non si udiva volare una mosca. Quei lavoratori non avevano mai pensato di produrre tali ricchezze. Gli offrivano lavoro e un salario e loro si consideravano fortunati perché altri, più disgraziati, non potevano abbandonare il paese. Quello che avevano appena finito di udire li aveva turbati. Erano nervosi. Volevano e non volevano credere quella verità – che era la loro vita – alla quale prima non avevano pensato.

    Parlò quello dei pidocchi.

    – Io non so chi è lei – disse – ma le sue parole lasciano il segno nella coscienza.

    Come interrogando se stesso e gli altri, continuò:

    – Si può vivere diversamente? Se si può vivere, che cosa facciamo noi per cambiare la nostra sorte? Lei ha messo a nudo la piaga ma il rimedio, dov’è il rimedio...?

    – Il rimedio esiste. La questione è di sapere se voi siete disposti ad applicarlo e ad affrontare le difficoltà nelle quali vi imbattereste se voleste farlo.

    – Affrontare difficoltà, dice lei, per applicare il rimedio che ci faccia uscire da questa situazione? Crede che la nostra vita sia facile? Crede che qualcosa possa spaventarci? Io parlo per me. E che ciascuno dica ciò che ha in cuore. Vedendomi ridotto in queste condizioni lei crederà che io sia un vecchio. Niente affatto, signore. Ho quarant’anni. Sono passato per mille impicci, sofferenze e miserie. Al paese ho lasciato mia moglie malata. Vi è restata per sempre, sin quando le ho potuto chiudere gli occhi. Era giovane, era buona. La malattia si portò via tutto: mobili, bestie, terra, casa. Venni qui credendo di poterla aiutare. Io non mangiavo che per tenermi in piedi. Non fumavo, non bevevo. Un centesimo dopo l’altro misi assieme una manciata di danaro... col quale pagarono la sepoltura. Non sono tornato al paese. Tutto è uguale per me.

    Si fece nuovamente silenzio. Nessuno osava parlare. Era troppo grave ciò che avevano udito. Gli pareva incredibile che fossero loro a produrre le grandi fortune di cui si gloriava la Biscaglia borghese.

    Cominciarono infine le domande, alcune ingenue mentre altre piene di dubbi, impregnate tutte del medesimo sentimento: la diffidenza a credere che essi stessi potevano cambiare la situazione; che essi stessi potevano obbligare i padroni delle miniere a elevare i loro salari, a diminuire la giornata di lavoro, a costruire abitazioni umane per gli uomini, a stabilire assicurazioni sociali, a migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro.

    Il colloquio ebbe termine. Mentre si accomiatava e i minatori gli chiedevano di tornare un altro giorno, disse il suo nome: Facundo Perezagua, formatore, socialista.

    – Ritorni – gli disse il minatore che aveva raccontato la sua storia.

    – Tornerò ma non alla baracca, per non compromettervi...

    Uno dei compiti principali dei propagandisti socialisti del primo periodo, e anche in seguito agli albori del ventesimo secolo – fra i quali si distinsero Facundo Perezagua, Alvaro Ortiz, Emilio Felipe, Fermìn Zarza, Felipe Carretero, lsidoro Acevedo, Medinabeitia, Cerezo, Tomàs Meabe, Seisdedos, Achùcarro, Salsamendi, lndalecio Prieto, i fratelli Garda e molti altri meno conosciuti – era di porre fine agli odi regionali e risvegliare il sentimento della solidarietà, dell’unione e del cameratismo per la difesa degli interessi operai di fronte ai comuni sfruttatori.

    – Sin quando il seme socialista non incominciò a germinare nella loro mente, dandogli coscienza della loro forza, i lavoratori non concepivano di avere diritti e di poter cambiare quello stato di cose. Capivano che le cose non potevano andare. Ma che fare? A volte una

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