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C'era una volta Roma
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E-book329 pagine4 ore

C'era una volta Roma

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Info su questo ebook

Un viaggio alla scoperta dei luoghi spariti della Città Eterna

Tra passato e presente alla scoperta della storia millenaria della Capitale 

Dal lontano 21 aprile del 753 a.C., anno della sua fondazione, Roma ha cambiato volto innumerevoli volte, attraverso i secoli. La città di impianto, di cui ancora possiamo ammirare le numerose vestigia sparse in diverse zone della città moderna, ha ceduto il passo a quella imperiale, a quella medievale e poi alla Roma barocca e, attraverso innumerevoli mutamenti, anche in epoche più recenti, per arrivare a quella che oggi conosciamo. Questo libro propone un viaggio alla scoperta dei luoghi spariti della città eterna, attraverso le distruzioni, le costruzioni e le ricostruzioni, la toponomastica e la memoria della tradizione popolare. Un racconto appassionante, articolato per temi: la gente, l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco, a segnare la storia di una delle città più antiche e soggette ai maggiori cambiamenti della civiltà occidentale. Un libro unico e imperdibile per chiunque voglia conoscere il passato e il presente di Roma.

Tra i temi trattati:

• La strada della Croce e la fine degli dei
• Benedette ghigliottine
• Wilbur Wright, romano di Centocelle
• Diavolo d’un Paleotevere!
• Nostalgia di Ripetta
• L’Asylum, una gloria romana
• Paolo III, il demolitore demolito
• L’ammazzatora di Piazza del Popolo
• Gabi, il vulcano urbano
• Porta Maggiore, la mamma di Termini
• Il primo snack e i suoi antenati
Alessandra Spinelli
giornalista attualmente al «Messaggero», si è occupata di cronache, sport e politica. Una passione per il mare e l’arte.
Piero Santonastaso
giornalista, si è occupato di cronache, sport, cultura, spettacoli e web per «Il Messaggero». Una passione per la storia, le lingue e il giardinaggio.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2017
ISBN9788822715029
C'era una volta Roma

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    Anteprima del libro

    C'era una volta Roma - Alessandra Spinelli

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    INTRODUZIONE

    PARTE PRIMA. LA GENTE

    L’UOMO (E LA DONNA) DI SACCO PASTORE

    LA STRADA DELLA CROCE E LA FINE DEGLI DÈI

    SENATRICI, MATRONE, PAPESSE: LA CITTÀ DELLE DONNE

    GIOVANNIPOLI NEL PARADISO DEI BORGHI

    AL LUME ROSSO DELLE CANDELE

    BENEDETTE GHIGLIOTTINE

    1921, L’ALTRA MARCIA

    PARTE SECONDA. L’ARIA

    LA MAL’ARIA DI SANTA MARIA IN COSMEDIN

    BIANCO, ROSSO E NERO: IL TRICOLORE DI ROMA

    QUESTIONE DI NASI

    IL MERIDIANO ZERO

    WILBUR WRIGHT, ROMANO DI CENTOCELLE

    L’ARIA BUONA DELLA CAMILLUCCIA

    IL PONENTINO E ALTRI FALSI MITI

    PARTE TERZA. L’ACQUA

    DIAVOLO D’UN PALEOTEVERE

    IL TEVERE NASCOSTO

    L’ALMONE E GLI ALTRI FIUMI SCOMPARSI

    COME TI AFFONDO IL MULINO

    IL RAFTING CI CONSOLERÀ

    NOSTALGIA DI RIPETTA

    LA MEMORIA DI FERRO DELL’ACQUA

    PARTE QUARTA. LA TERRA

    L’ASYLUM, UNA GLORIA ROMANA

    VARIANO, MAGGIORE DEL CIRCO MASSIMO

    PAOLO III, IL DEMOLITORE DEMOLITO

    SCUSI, HA VISTO MICHELANGELO?

    L’AMMAZZATORA DI PIAZZA DEL POPOLO

    De Mérode, IL CARDINALE SPECULATORE

    VERDE ANTICO

    PARTE QUINTA. IL FUOCO

    GABI, IL VULCANO URBANO

    PIAZZA DEI CALCARARI, TOMBA DELL’ANTICHITÀ

    CASAL BRUCIATO E ALTRE STORIE INCENDIARIE

    DAI CASTRA ALLE PIAZZE D’ARMI

    UNA CITTÀ INDUSTRIosa

    PORTA MAGGIORE, LA MAMMA DI TERMINI

    IL PRIMO SNACK E I SUOI ANTENATI

    BIBLIOGRAFIA

    Tavole fuori testo

    em

    537

    Prima edizione ebook: novembre 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1502-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Piero Santonastaso - Alessandra Spinelli

    C'era una volta Roma

    Un viaggio alla scoperta dei luoghi spariti della Città Eterna

    omino

    Newton Compton editori

    A Nicolò e Massimo

    INTRODUZIONE

    A Roma siamo nati e cresciuti, di Roma siamo abitanti e cittadini, dentro Roma lavoriamo da decenni. Abbiamo girato, studiato, vissuto e raccontato una città capace di divorare ogni giorno se stessa e la propria storia per rinascere l’indomani a volte fresca come una rosa, spesso ripiegata su di sé, ma sempre incredibilmente vitale. In questo libro vogliamo raccontare alcune cose dimenticate o scomparse, non importa se di ieri o di un milione di giorni fa.

    La voracità della città, le visioni a volte deliranti dei potenti hanno spianato alture, tombato corsi d’acqua, modificato l’aria. E chi oggi cercasse la Velia, piuttosto che l’Almone o un mulino galleggiante, resterebbe con un pugno di mosche in mano.

    È il ragionamento che ci ha indotto ad articolare C’era una volta Roma in cinque sezioni. I quattro elementi naturali – aria, acqua, terra, fuoco – introdotti dalla carne e dal sangue di quanti nei secoli li hanno maneggiati, trasformati, distrutti, ripristinati.

    Un lungo viaggio per sentieri poco battuti, partendo dai crani di Sacco Pastore e saltabeccando tra epoche diverse: dall’aeroporto dei fratelli Wright al tricolore bianco, rosso e nero della prima Repubblica Romana; dal Paleotevere a Giovannipoli; dall’Asylum alle speculazioni di monsignor de Mérode; dai calcarari inceneritori di antichità alla Purfina.

    Una sorta di bungee jumping nella Storia dove ogni rimbalzo porta con stupore in un’epoca o in un fatto diverso. O se preferite è la versione scritta di Google Glass, capace di cambiare lo sguardo mentre si gira per Roma, animandola di personaggi ed eventi.

    PARTE PRIMA. LA GENTE

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    L’UOMO (E LA DONNA) DI SACCO PASTORE

    Affacciandoci dalle parti di Roma un paio di milioni di anni fa avremmo trovato solo acqua: una sconfinata distesa marina dalla quale affioravano in lontananza il Soratte, i Monti Cornicolani – cioè Guidonia Montecelio – e più a est l’Appennino. Se fossero esistiti gli stabilimenti balneari, per trovarne ci saremmo dovuti spostare dalle parti di Palombara Sabina. Ma questa è un’altra storia.

    Facciamo invece un salto in avanti, ai giorni nostri, e addentriamoci in via Valdinievole, zona Montesacro. Una strada giovane: nacque il 19 dicembre 1940 con la deliberazione di Gian Giacomo Borghese, governatore di Roma, che metteva ordine nella zona in rapida espansione edilizia nell’ansa dell’Aniene tra l’antico Ponte Nomentano risalente al 552 e il moderno ponte di via delle Valli inaugurato nel 1960. Un’area totalmente cementificata già alla fine degli anni Cinquanta. Per avere idea del contesto basta dare un’occhiata a L’onorevole Angelina, il film del 1947 di Luigi Zampa con Anna Magnani protagonista.

    In questa via come tante, c’è una targa a ricordare due ritrovamenti importantissimi quanto negletti: quelli dei cosiddetti crani di Sacco Pastore. Il primo venne alla luce nel 1929 mentre alcuni operai erano al lavoro in una cava di ghiaia: fu una scoperta casuale, tant’è che il cranio è danneggiato. Apparteneva a una giovane donna neandertaliana. Il secondo fu letteralmente avvistato sei anni più tardi, nella cava ormai abbandonata e invasa dall’Aniene, dal ventinovenne paleontologo Alberto Carlo Blanc, figlio d’arte nonché scopritore nel 1939 anche del cranio della Grotta Guattari al Circeo: il reperto faceva bella mostra di sé incastonato in una parete erosa dalle piogge. Un altro neandertaliano, questa volta un maschio adulto.

    Il clamore fu di breve durata. Una limitata campagna di scavi durò un anno, producendo selci e ossa di animali preistorici come l’uro, il mammut e l’asino europeo che si aggiunsero a quelle di elefanti, rinoceronti e ippopotami rinvenute durante il periodo di attività della cava. Quando finirono i soldi stanziati, i ricercatori furono cordialmente invitati a farsi da parte. C’era da sbancare, spianare, costruire. Detto, fatto: l’area dell’antica tenuta di Sacco Pastore, appartenuta alla famiglia Maffei, sulla riva sinistra dell’Aniene, usata solo per il pascolo a causa delle frequenti piene del Teverone, fu asfaltata e cementificata. Purtroppo non con le ambizioni urbanistiche della vicina Città Giardino di Montesacro.

    E i crani? Riposano alla Sapienza nel Museo di Antropologia Giuseppe Sergi, mentre due loro calchi sono visibili al Museo Pigorini, all’Eur. Che siano stati nascosti sarebbe dire troppo, quel che è certo è che per quei due nostri progenitori in altre città europee si sarebbe fatto molto di più. Anche perché quei crani raccontano molto.

    Intanto per via dell’età: la prima stima fatta dall’antropologo Sergio Sergi – figlio del più noto studioso italiano Giuseppe Sergi – che parlava di neandertaliani di 130.000 anni fa, nel 2015 è stata portata a 250.000 anni da uno studio stratigrafico del geologo dell’ingv Fabrizio Marra, retrodatando così la comparsa in Italia dell’Homo neanderthalensis. Inoltre si tratta dei primi teschi rinvenuti interi e non in pezzi. Non male per i primi due romani della storia. Anzi, della preistoria.

    Roma è stata una città generosissima dal punto di vista dei ritrovamenti preistorici, ma anche disastrosamente incapace di tutelarli: lo testimoniano non solo il sito di Sacco Pastore, ma anche quelli di Sedia del Diavolo (vicino viale Libia), Ponte Mammolo e Monte delle Gioie (Salario), tutti azzerati dalla febbre edilizia, oltre ai reperti di animali venuti alla luce durante i lavori per il Vittoriano e via dell’Impero.

    Esistono per fortuna aree superstiti perché scoperte in tempi ancor più recenti rispetto a Sacco Pastore. Come il cosiddetto Quadrato di Torre Spaccata, un villaggio neolitico venuto alla luce alla fine degli anni Settanta durante i lavori per la realizzazione dell’itc Lombardo Radice, nei pressi di piazza Ettore Viola. Oppure come a Casal de’ Pazzi, dove la mutata sensibilità e il duro lavoro della Soprintendenza archeologica di Roma nel 1981 hanno imposto lo stop alle ruspe dopo un rinvenimento durante gli sbancamenti per la costruzione di una strada. Non è stato un compito facile: tra atti di vandalismo e occupazioni abusive, grazie ai rimpalli Provincia-Comune-Soprintendenza, soltanto nel 1999 si è riusciti ad avviare i lavori per il Museo di Casal de’ Pazzi, inaugurato nel 2014, raro esempio di esposizione in situ dei quasi 4000 reperti recuperati nell’antico corso di un fiume.

    È un bell’esempio di vittoria dell’antichità sulla modernità, costretta a farsi più in là con tanto di variante del piano regolatore. Che il museo abbia oggi problemi a organizzare un’apertura regolare è il colpo di coda dei tempi moderni. Una vendetta per non aver inflitto al sito di Casal de’ Pazzi lo stesso trattamento di Sacco Pastore.

    LA STRADA DELLA CROCE E LA FINE DEGLI DÈI

    La battaglia di Ponte Milvio, più esattamente la battaglia di Saxa Rubra, tra Costantino e Massenzio resta impressa nella memoria fin dalle elementari per la celebre apparizione della croce. Manca però una versione definitiva e attendibile dell’accaduto: nonostante siano i vincitori a scrivere la Storia, Costantino, soprannominato a posteriori il Grande, non si curò mai di far redigere un racconto ufficiale dei fatti.

    Nessuno sa se alla vigilia di quella battaglia, il 27 ottobre del 312, lo scaltro e disinvolto avversario del più tollerante Massenzio abbia avuto una visione, un sogno, un’apparizione – secondo alcuni condivisa dai suoi soldati – oppure abbia osservato una congiunzione planetaria o il passaggio del meteorite che aprì un cratere nel massiccio del Sirente.

    Non sono in pochi a sospettare che Costantino si fosse inventato tutto per placare i suoi soldati che, già in netta inferiorità numerica, da giorni collezionavano presagi nefasti ed erano perciò molto preoccupati per le sorti dello scontro.

    L’imperatore potrebbe essersi limitato a declinare in chiave cristiana l’uso in voga tra i legionari, adoratori del Sol Invictus proprio come lui, di dipingere sullo scudo un sole sormontato da una croce. Peraltro Costantino non era nuovo ad apparizioni mistiche: due anni prima ne aveva avuta una simile, ma a sfondo pagano. L’illuminazione c’era stata nel Tempio di Apollo Granno a Grand, nei Vosgi, dove gli apparve lo stesso Apollo, contornato da ben tre croci. Non essendoci certezze sull’evento, non ve ne sono nemmeno sul luogo in cui la visione/apparizione/sogno si sarebbe verificata. Anzi, esistono anche versioni che ambientano il fatto ben lontano da Roma: una croce poco più che secolare svetta in cima al Monte Musinè, in Val di Susa, e collega l’apparizione alla battaglia di Torino tra gli eserciti di Costantino e di Massenzio, combattuta alcuni mesi prima di Saxa Rubra. La versione più ricorrente cita comunque Roma e l’Arco di Malborghetto, al chilometro 19 della Via Flaminia, dove la storia narra che l’esercito di Costantino si sia accampato alla vigilia della battaglia.

    Però se avessimo abitato a Roma in un qualunque secolo fino al xix e ci fossimo incamminati lungo l’odierna via Trionfale, non avremmo fatto altro che percorrere la cosiddetta Strada della Croce, così ribattezzata proprio in omaggio alla visione costantiniana. Il registro toponomastico capitolino prova tra l’altro che fino agli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia è esistita una via della Croce di Monte Mario, cancellata durante i lavori di costruzione del Forte Trionfale.

    Insieme alla strada furono spazzati via alcuni edifici religiosi dedicati alla Santa Croce. Uno in particolare, Santa Croce a Monte Mario, conosciuto anche come Cappella del Santo Crocifisso o Oratorium Sanctae Crucis, era situato pressappoco dov’è oggi Villa Madama e ricordava esplicitamente la visione di Costantino, collocandola dunque nei dintorni di Monte Mario. Risaliva almeno al 1350 e non ne resta traccia se non ideale, perché nel xv secolo fu ricostruito più in alto. Anche di questo secondo edificio resta poco: un troncone di sacrestia, collegato ai Casali Mellini. Il resto è stato spazzato via dal Genio Militare.

    Santa Croce a Monte Mario segna dunque un punto in questa diatriba costantiniana, che è solo una delle tante, a testimonianza della complessità dell’opera di Costantino. La chiesa sorgeva nei pressi del luogo in cui chi arrivava dal Nord si affacciava per la prima volta sulla città. Come richiamato dal nome della via, si trattava della strada che percorrevano gli eserciti vittoriosi di Roma per celebrare i trionfi. Ma in epoche successive venne calpestata anche dagli eserciti nemici o solo formalmente amici, compresi i lanzichenecchi che saccheggiarono Roma nel 1527, nonché dagli imperatori che scendevano a Roma per l’investitura papale. Con un obbligo preciso: dovevano prestare prima un doppio giuramento al popolo romano. Si iniziava con il giuramento ad ponticellum, da un piccolo ponte della Valle dell’Inferno nei pressi di Borgo San Lazzaro. Il secondo veniva reso alle porte della Città Leonina.

    L’elenco dei re e condottieri che si fermavano lì a rimirare l’Urbe e la basilica di San Pietro è lungo: Alarico, Genserico, Odoacre, Belisario, Carlo Magno, Ottone ii, Ottone iii, Enrico iii, Enrico iv, Federico Barbarossa, Federico ii, Carlo iv di Boemia. Chi rapito dal fascino dell’Urbe, chi pregustando ricchi bottini, tutti pieni di gioia, come del resto i pellegrini che arrivavano da lontano. Era testimone, quel luogo, di ripetute scene d’esultanza, come mostra un toponimo che ancora oggi sopravvive: piazza di Monte Gaudio. Era il punto in cui i romei si inginocchiavano, baciavano la terra e poi intonavano O Roma nobilis:

    O Roma nobilis, orbis et domina,Cunctarum urbium excellentissima,Roseo martyrum sanguine rubea,Albis et liliis virginum candida;Salutem dicimus tibi per omnia;Te benedicimus: salve per saecula!

    O Roma nobile, e signora del mondo,Eccellentissima tra tutte le città,Rossa del sangue rosato dei martiri,Splendente dei bianchi gigli delle vergini;Ti annunciamo la salvezza attraverso ogni vicissitudine;Ti benediciamo: salve per tutti i secoli!

    Quale che sia la verità su Ponte Milvio, il 312 fu l’anno di svolta per l’affermazione del cristianesimo a Roma e poi in Italia e nel mondo. Non definitiva, come vuole la vulgata, perché nelle rappresentazioni dell’imperatore, comprese quelle dell’Arco di Costantino, il Sol Invictus fece ancora per molti anni la parte del leone.

    A Costantino riuscì così l’impresa che un secolo prima aveva visto il triste fallimento dell’esecrato Eliogabalo, il quale dopo appena quattro anni di regno, diciottenne, fu ucciso in una latrina dai suoi pretoriani e il cadavere, insieme a quello della madre, oltraggiato in ogni modo. Come se non bastasse, fu ordinata la damnatio memoriae, che ne fece il dissoluto per antonomasia. Chi mai credeva di essere quel giovincello siriano, nato Sesto Vario Avito Bassiano, diventato Marco Aurelio Antonino della dinastia dei Severi, rinominato Eliogabalo o Elagabalo solo dopo la sua morte, che aborriva la guerra, che portò le donne in Senato creando addirittura un Senaculum mulierum e pretendeva di instaurare un culto monoteistico?

    Anche lui era un adoratore del Deus Sol Invictus – venerato senza troppa convinzione fin dai tempi della fondazione di Roma con il nome di Sol Indiges, Sole Natio – che come Costantino intraprese la strada del sincretismo religioso, ma oggi tutto ciò che resta di Eliogabalo sono una parte del basamento e qualche rovina del tempio sfarzoso che sorgeva sul Palatino di fronte al Colosseo, nel giardino della chiesa di San Sebastiano. Lì aveva fatto trasportare El Gabal, il meteorite nero del culto di cui era gran sacerdote, lì fece trasferire gli oggetti più sacri a Roma, lì voleva che anche ebrei e cristiani celebrassero i loro riti. Fu la sua rovina. Della memoria dell’altro, invece, Roma è piena.

    Quella di Costantino a Ponte Milvio fu comunque la penultima e quasi definitiva tappa di un’evoluzione religiosa che nei secoli precedenti aveva visto i romani e i loro progenitori adorare di tutto, a partire dagli elementi naturali.

    Sappiamo, dai ricordi di scuola, del pantheon greco adattato agli usi latini, con una robusta aggiunta di divinità indigene, dal momento che ogni attività, ogni momento, ogni luogo aveva il suo dio. Meno noto è che le popolazioni stanziali del Neolitico erano partite dai riti universali legati alle stagioni, all’agricoltura, alla madre terra e, soprattutto, all’acqua. Non solo si veneravano i fiumi, ma grandissima valenza veniva data alle acque di stillicidio delle cavità naturali, come testimonia un vaso quadriansato del Neolitico rinvenuto nella Grotta dei Meri, sul Soratte, monte che ha rivestito una grandissima importanza per lo sviluppo della civiltà nel Lazio. Si onorò ogni espressione della natura fino all’avvento del cristianesimo, che stabilì essere invece quella stessa natura nient’altro che un ammasso inanimato a disposizione dell’umanità.

    Dalle primitive forme religiose si svilupparono centinaia di divinità italiche: praticamente ogni tribù aveva il proprio pantheon e durante la fase della conquista i romani dovettero fare ordine in quella folla, importando solo i culti più funzionali all’ordinamento sociale. Con una tolleranza oggi sconosciuta, dal momento che non si conoscono guerre combattute dai quiriti in nome della religione.

    Così da Lanuvio arrivò per esempio il culto di Giunone Sospita (ogni divinità si presentava in diverse versioni: Giunone ne contava almeno ventiquattro), che invece i sabini di Monte Antenne (Antemnae) veneravano come Curis. Alla moglie-sorella di Giove erano dedicati templi ovunque. Molti sono stati utili basi per edificare le più antiche chiese cristiane: Giunone Moneta, in Campidoglio, per l’Ara Coeli; i resti di Giunone Sospita al Foro Olitorio sostengono San Nicola in Carcere; su quelli di Giunone Regina è sorta Santa Sabina, all’Aventino, mentre al Portico d’Ottavia è visibile quel che rimane di un altro tempio a Giunone Regina.

    Non tutte le divinità ebbero però pari successo. All’Esquilino c’era per esempio il tempio dedicato a Mefite con il boschetto sacro d’ordinanza, lucus Mefitis, quando l’aggettivo mefitico non aveva il significato odierno. Era la dea, ma forse un dio, dell’acqua e del passaggio, di origine osca. La gente di Roma se ne disamorò, declassandola al rango secondario di protettrice delle sorgenti sulfuree.

    Cosa che invece nessuno ebbe il coraggio di fare con la Bona Dea, il cui tempio sorgeva alle falde del piccolo Aventino (San Saba), di fronte all’estremità orientale del Circo Massimo, dov’è la basilica di Santa Balbina. Una dea potentissima, pure lei autoctona, dal nome impronunciabile perché sconosciuto a tutti se non alle sacerdotesse, venerata in un tempio vietato agli uomini.

    Bona Dea era talmente radicata nell’anima cittadina come divinità della salute, che la celebrazione cattolica del 1º maggio in onore di Maria affonda le radici proprio nel suo culto: era stato infatti Augusto a stabilire che la dea pagana venisse festeggiata in quel giorno. Le gerarchie cristiane preferirono così operare una sovrapposizione. Esattamente come accadde al Tempio della Bona Dea, i cui resti furono spazzati via già nel iv secolo per erigere Santa Balbina.

    SENATRICI, MATRONE, PAPESSE: LA CITTÀ DELLE DONNE

    Palazzo Madama, piazza Madama, Villa Madama, Macchia Madama, Castel Madama… Ma chi era questa Madama e perché ha lasciato tanti segni di sé a Roma e nei dintorni? Ci si immaginerebbe una matrona doc di quelle un po’ in carne, o un’austera e rinsecchita signora. Invece a grattare appena appena l’appellativo si scopre che Madama era una quindicenne dal tenero nome di Margherita. Per la precisione Margherita d’Austria, ma fiamminga di nascita, figlia naturale di una passione giovanile dell’imperatore Carlo v .

    Come da costume del xvi secolo, venendo alla luce la bimba era diventata automaticamente merce di scambio al tavolo della geopolitica europea. L’imperatore l’aveva infatti riconosciuta figlia sua e la piccola Margherita (in patria Margarita) si ritrovò così a essere una pedina preziosa da impiegare per volontà paterna esclusivamente sullo scacchiere italiano.

    È per questo motivo che a soli dieci anni, nel 1533, la bambina parte per destinazione Napoli: la sua educazione va affinata. A tredici anni è già sposa del duca di Firenze, Alessandro de’ Medici, che però la rende vedova dopo soli sei mesi, assassinato da un cugino. Il matrimonio non è stato consumato, come prescriveva la legge per le minori di quattordici anni, e Margherita vorrebbe risposarsi con Cosimo, erede designato di Alessandro. Ma suo padre ha per lei altri progetti: quella bambina gli occorre per rinsaldare i legami con il papa e far dimenticare il recentissimo Sacco di Roma (1527). Compiuti quindici anni, Margherita deve dunque piegarsi alle nozze con Ottavio Farnese, nipote del pontefice Paolo iii.

    La ragazza però non solo è assai istruita ma ha idee chiare e carattere forte. Così giovane, si fa già chiamare Madama, appellativo che le piace molto. E quel ragazzino di tre anni più piccolo le fa orrore. Lo definisce un piccinino nemmeno tan neto. Insomma, un bamboccio puzzolente. Accetta le nozze, alla sua maniera: presentandosi a Roma e poi sull’altare della Cappella Sistina vestita di nero. Come se non bastasse, non risponde alla domanda di rito del celebrante. E a chi si azzarda a complimentarsi per il matrimonio replica con sarcasmo: «Mentre le altre donne con il passare degli anni vedranno i loro sposi deteriorarsi il mio non potrà che migliorare».

    Margherita si rifiuta di consumare con Ottavio. La coppia diventa uno dei temi più gettonati di conversazione nelle corti europee. Tra gli argomenti di maldicenza una presunta inclinazione della ragazza verso le donne, che i detrattori basano su alcuni sonetti scritti per lei dalla fiorentina Laudomia Forteguerri, conosciuta ai tempi del primo matrimonio.

    Passano così due anni prima che Madama permetta a Ottavio Farnese di fare il proprio dovere. L’evento era attesissimo, al punto che se ne annota persino la data esatta: 15 ottobre 1540. Occorrono però altri cinque anni perché le nozze diano frutti: i gemelli Carlo e Alessandro. Una nascita importante: per assistere al battesimo si scomoderanno Carlo v in persona e la regina di Francia, Eleonora d’Asburgo.

    Margherita a Roma trascorre altri cinque anni, ma a modo suo, cioè rimarcando di non essere una nobile ricca e sciocca. Ama leggere e studiare, si interessa alla vita della gente comune e si avvicina ai gesuiti, tanto che Ignazio di Loyola diventerà suo confessore. Nel 1550, a ventisette anni, lascia definitivamente la città prima per l’Emilia e poi per le sue terre in Abruzzo (morirà a Ortona), tra un incarico diplomatico imperiale e l’altro, tra cui governatrice dei Paesi Bassi. In totale trascorre nell’Urbe dodici anni, non moltissimi, ma quanto basta per giustificare i segni onomastici elencati all’inizio. Quando Margherita arriva quindicenne a Roma trascorre un breve periodo a Palazzo Cesi per poi trasferirsi a Palazzo Medici, che ha ereditato dal primo marito. Basterà poco, viste la sua personalità e la sua fama, a farlo diventare per tutti Palazzo Madama, che ovviamente non può che affacciarsi su piazza Madama. Anche la villa rinominata Madama fa parte dell’eredità di Alessandro de’ Medici. Come la macchia che la circonda. Il Castrum Sancti Angeli trasformato in

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