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Luoghi segreti e misteriosi del Friuli
Luoghi segreti e misteriosi del Friuli
Luoghi segreti e misteriosi del Friuli
E-book169 pagine2 ore

Luoghi segreti e misteriosi del Friuli

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Alla scoperta dei tesori gelosamente custoditi di una terra magica tra il mare e la montagna

Il Friuli è una regione che, apparentemente, non ha bisogno di presentazioni. Chi non conosce lo Zoncolan, la mitica montagna del Giro d’Italia, o la colonia romana di Aquileia? Eppure, questa regione nasconde molto altro. Il Friuli cela una vera e propria rete di storie, lingue e culture che spesso gli stessi friulani ignorano. Lontano dalle mete più gettonate, la regione è ricca di borghi dal fascino straordinario, che la maggior parte dei turisti supera senza nemmeno guardare, e di piccole nicchie naturalistiche capaci di fare la gioia di ogni appassionato di escursioni. E ognuno di questi luoghi porta con sé le proprie leggende. Flavia Valerio e Alberto Vidon ci conducono lungo i sentieri segreti del Friuli, facendoci scoprire gli angoli più magici e nascosti di questa terra contesa tra mare e montagna.

La bellezza di una regione, tra borghi, castelli e scenari naturali incontaminati

Tra i luoghi segreti:

Monti
Cave del Predil: la miniera dove non si scava più
Resia: alla scoperta di un mondo a sé
Ampezzo: dove ci sono montagne un tempo c’era il mare
Meduno: scalpelli e bombe

Pianura e litorale
Sacile: una piccola Venezia
San Vito al Tagliamento: filari di gelsi, fili di seta, scuole
Marano lagunare: storie di una fortezza persa e ripresa
Torviscosa: una città dal niente, in un batter d’occhio

Città
Gorizia: non c’è confine che tenga
Udine: beffe, mascherate e burattini
Pordenone: tutto cambia

Ultima tappa
Osoppo: una sorta di sintesi delle storie
Flavia Valeriolaureata in Filosofia, e Alberto Vidon, laureato in Storia, insegnano nella scuola media superiore. In ambito didattico hanno curato diversi progetti di ricerca e iniziative di carattere storico-culturale, riservando particolare attenzione alle vicende e ai luoghi del territorio friulano. Nel 2018 hanno pubblicato Giulio Savorgnan. Il gentiluomo del Rinascimento e le fortezze della Serenissima, biografia storica dell’ideatore della città stellata di Palmanova.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2021
ISBN9788822756749
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    Anteprima del libro

    Luoghi segreti e misteriosi del Friuli - Flavia Valerio

    Monti

    La miniera dove non si scava più

    Cave del Predil

    Ci si arriva da Plezzo, in Slovenia, o da Sella Nevea oppure da Tarvisio, di cui è una frazione, ma sempre attraverso strade che si inerpicano fino a 900 metri, in quel dente orientale del Friuli che si incastra tra due confini di stato.

    Il suo nome indica l’attività che forse già in età romana ma certamente dall’xi secolo vi si è svolta per un millennio: l’attività del cavare, dell’estrarre dalla montagna piombo e zinco. Il termine che completa la denominazione, Predil, si riferisce alla prossimità con il passo. Dallo sloveno proviene l’altro nome di Cave del Predil, Rabelj, assonante con il tedesco Raibl e il friulano Rabil. Diversi nomi per una località che bisogna andare a cercare, perché marginale rispetto alle vie più battute, persa nei boschi di faggi e abeti.

    È una piccola conca delimitata dal Monte Re, dalla cima delle Cinque Punte – una mano che solletica le nuvole – e attraversata dal torrente Rio del Lago le cui acque se ne vanno lontano, nella Drava, per perdersi nel Mar Nero.

    Qui sono state costruite abitazioni per una comunità che è cresciuta e poi si è ridotta seguendo il ritmo di produzione della miniera. è un po’ strano trovare, in un piccolo paese in mezzo ai monti, magazzini, officine, palazzine a diversi piani, simili a quelle che si vedono nelle città. Molti edifici sono abbandonati o parzialmente abitati ma sono lì, le finestre protette da assi per difenderli dagli inverni, quasi in attesa che qualcuno ritorni. Sono costruzioni di metà Novecento, sorte accanto alle vecchie case di impronta austriaca, basse, ben piantate a terra con i loro muri spessi e solidi. Non ci sono recinzioni a segnare le proprietà, a incidere sul terreno le differenze, perché non c’è spazio per le distinzioni e una vita così dura richiede la presenza di una collettività, tanto fuori dalla montagna quanto dentro.

    Cave si mostra in un gioco di contrasti di colori (il rosso-giallo della roccia e il verde degli alberi), di stili (la piccola chiesa antica e la grande chiesa moderna, di cemento), di natura e tecnica.

    Sulla montagna, coperta di vegetazione alla sommità ma scorticata in basso, i varchi – come bocche spalancate attraverso cui penetrare nel cosmo sotterraneo fatto di buio, di rumori sordi, di pietra, di acqua che filtra –, i paramassi, le costruzioni, i vagoncini, anticipano tutti il racconto del lavoro che il Parco geominerario illustra portando i visitatori nelle profondità.

    Quando Cave era la sua miniera, il dentro e il fuori si riflettevano, vivevano le medesime fatiche e ansie, ascoltavano i medesimi rumori. Come quel boato spaventoso che nel 1910 inghiottì l’ospedale demaniale, risucchiandolo e lasciando al suo posto una voragine colma dell’acqua del Rio. O il giornaliero suono delle sirene che annunciavano lo scoppio delle mine esplose in rapida sequenza e graffiavano l’aria sospendendo il tempo. O ancor più quelle che segnalavano un incidente nel ventre del monte: a quel suono acuto seguiva, fuori, l’angosciata attesa.

    E poi c’erano i colpi di tensione, le risposte sismiche che la montagna, scavata, bucata, trapassata e svuotata della sua materia, dava al lavoro dell’uomo, rilassamenti della roccia simili a piccoli terremoti che hanno coperto perfino il boato di quello grande del 1976.

    La storia della miniera è la storia di un’umanità sepolta in un corpo in cui ha scavato oltre un centinaio di chilometri di gallerie su una ventina di livelli, 500 metri in altezza e oltre 250 in profondità, un vero e proprio saliscendi. E in quel corpo i minatori si muovevano e vivevano, vi si immergevano per portare alla luce un miscuglio di piombo e roccia inerte, da setacciare altrove, dove c’era lo spazio per costruire gli impianti di purificazione.

    Si dice che agli inizi dello sfruttamento in età moderna i minatori dovevano essere di dimensioni fisiche ridotte e con una struttura robusta per potersi inoltrare nei cunicoli sotterranei, come i nani delle favole; e si dice che provenissero dall’area veneta e per questo vennero soprannominati nani veneti. Poi italiani, austriaci, slavi hanno lavorato fianco a fianco, accomunati dalla stessa esperienza.

    Sono stati soprattutto gli imprenditori d’oltralpe a sfruttare le risorse minerarie. Von Rechbach, Struggl, Ewer, Großmeier e Grüwald dal xvii secolo si sono spartiti la montagna, con la coltivazione tutta sviluppata nella parte alta.

    Alla fine dell’Ottocento lo Stato austriaco assunse buona parte della gestione diretta, dando un’impronta industriale allo sfruttamento. Avviò la coltivazione verso il basso, costruì una centrale elettrica per azionare l’argano di estrazione del pozzo Clara e fornire elettricità anche alle abitazioni.

    La realizzazione di una galleria di scolo permise di far defluire le acque infiltrate all’interno della miniera, collegando Cave con Bretto, la slovena Log pod Mangrtom, località del comune di Plezzo. Con una commistione linguistica che testimonia l’amalgama di parlate, l’opera venne dedicata al Kaiser Francesco Giuseppe i. Attraverso questo condotto lungo quasi cinque chilometri prima scorsero le acque di percolazione e poi transitarono soldati austriaci con armi e munizioni per preparare nel 1917 l’attacco a Caporetto. Passarono centinaia di migliaia di uomini e tonnellate di viveri senza che nessuno se ne accorgesse.

    Trent’anni più tardi, con la firma del trattato di Parigi, la galleria di Bretto venne divisa tra due Stati, quello italiano e quello jugoslavo, e al suo interno un presidio militare vigilò sul confine tra due mondi contrapposti. Al posto di blocco il trenino che trasportava alla miniera i lavoratori jugoslavi era fermato all’entrata e all’uscita per effettuare il controllo, la cancellata di sbarramento veniva rimossa per essere richiusa immediatamente dopo il transito. Così il diaframma di roccia abbattuto per far scorrere acqua e uomini veniva ricomposto per diventare una cortina di ferro sotterranea.

    I rapporti tra i due Stati si ripercuotono su questa frontiera nascosta, che si apre e si chiude seguendo tensioni e distensioni politiche. La riapertura diviene definitiva con l’ingresso della Slovenia nell’Unione europea nel 1991, ma a quel punto la miniera sta per chiudere definitivamente.

    Ora il trenino ha ripreso il suo servizio per i visitatori, non per i lavoratori: il condotto può essere percorso per mezzo chilometro, fino al Camerone di Santa Barbara, protettrice dei minatori. La riattivazione del collegamento con Plezzo potrebbe cancellare la lunga fase di attriti tra Paesi che, da parti opposte, guardano le stesse montagne.

    La fine della Prima guerra mondiale segna il passaggio di proprietà della miniera dal governo austriaco a quello italiano. Assegnando il territorio del tarvisiano all’Italia, nei trattati di pace le potenze vincitrici dimenticano i criteri di confine naturale ed etnico stabiliti nella conferenza di Parigi, ma l’annessione della punta nord orientale permette all’Italia il controllo sulle due frontiere, oltre all’acquisizione della miniera di Raibl col suo piombo e zinco.

    La gestione italiana della miniera è affidata dal governo a Bernardino Nogara, sostenuto finanziariamente dalla società londinese Moreing; nel 1923 Bernardino arriva a Cave per dirigere la miniera che sarà dei Nogara per tre decenni.

    Bernardino non è un uomo qualunque.

    Originario della provincia di Lecco, è descritto come persona posata, riflessiva, tranquilla, versatile, qualità che gli consentono di muoversi abilmente sia nel campo della diplomazia sia in quello della finanza. Viene da una famiglia profondamente religiosa che vanta numerosi sacerdoti e suore. Giuseppe, uno dei fratelli, è nominato arcivescovo della diocesi di Udine proprio pochi anni dopo l’arrivo di Bernardino a Cave, e manterrà la cattedra fino all’anno in cui la famiglia se ne andrà dalla miniera.

    Ingegnere minerario, Bernardino ha lavorato in Galles, in Sardegna, in Bulgaria e in Asia minore. La capacità di districarsi nel complesso mondo orientale gli ha fatto ottenere la nomina a direttore della Banca commerciale d’Oriente, segmento della Banca commerciale italiana di cui diverrà consigliere, e delegato nelle trattative di pace conclusive della guerra italo-turca. Bernardino è stato uomo di fiducia del governo anche nella conferenza di pace del 1919, come consulente economico.

    Una decina d’anni dopo, quando già si trova a Cave, negozierà per il Vaticano i termini della convenzione finanziaria allegata al Concordato. Per nomina di papa Pio xi dirigerà l’Amministrazione speciale della Santa Sede per gestire i fondi versati dal governo italiano in ottemperanza ai Patti lateranensi. Pio xii gli assegnerà anche il compito di convertire l’Amministrazione delle opere religiose in una vera e propria banca, l’Istituto per le opere religiose, lo ior. La sua è dunque una vera e propria carriera come banchiere del papa.

    Il rapporto con la miniera è una questione di famiglia per i Nogara. All’inizio degli anni Trenta il figlio Giovanni ne assume la guida, ma Bernardino continua a controllare a distanza l’impresa. Sono anni difficili, quelli che seguono la crisi del 1929 e il crollo del prezzo dello zinco. Alla recessione l’azienda risponde con misure drastiche: riduzione dei salari del 10% e licenziamenti per un quarto del personale, seguiti dalla chiusura dell’attività per due anni.

    La successiva politica autarchica e l’assegnazione di sussidi governativi permettono di riavviare il lavoro e Giovanni, che si era fatto le ossa operando in Australia, Francia e Inghilterra, riesce a dare nuovo slancio alla produzione modernizzando e meccanizzando gli impianti.

    Una parte rilevante del suo intervento riguarda la trasformazione del paese in un villaggio industriale. Dormitori per gli operai, foresteria per gli impiegati, mensa, cooperativa di consumo – la bottega del paese – fondono la comunità con la miniera, che provvede a ogni necessità dei suoi dipendenti, fino a rendere inimmaginabile una vita diversa, perché la miniera occupa ogni spazio collettivo e personale. Tutti i dipendenti hanno diritto a un certo quantitativo di legna ed elettricità per le abitazioni, ma gli operai ne ricevono di meno e la legna se la devono spaccare. Ci sono le docce pubbliche per gli operai, mentre le abitazioni degli impiegati sono dotate di bagni. Solo gli impiegati possono accedere al giardinetto, però tutti possono fruire della mensa, occupando gli spazi assegnati secondo una precisa gerarchia sociale. Al cinema aziendale gli impiegati vedono il film dalla galleria.

    L’introduzione delle opzioni segna una battuta d’arresto nella crescita dell’impresa. Gli accordi firmati nel 1939 tra Italia e Germania in nome della piena corrispondenza tra confini politici ed etnici prevedono il trasferimento nel Reich delle popolazioni di lingua tedesca. Per Cave significa interrompere quella comunanza che da sempre caratterizzava i rapporti tra lavoratori di nazionalità diversa; per la miniera significa la perdita di centinaia di persone.

    Giovanni cerca di opporsi senza successo, col solo risultato di inasprire le tensioni con le autorità fasciste.

    Nelle complesse vicende del periodo bellico, i sentimenti antitedeschi di Giovanni, che come ragazzo del ’99 aveva combattuto nel primo conflitto mondiale, si acuiscono in seguito al sequestro della miniera imposto dai nazisti, oggetto di attentati e atti di sabotaggio da parte delle forze partigiane italiane e slave. Una resistenza decisa alle forze nazifasciste viene condotta dal Comitato locale di liberazione, alla cui testa si pone lo stesso Nogara, per evitare che la ritirata dei tedeschi si concluda con la distruzione degli impianti.

    Il dopoguerra vede il susseguirsi di riprese e di crisi.

    La guerra di Corea fa schizzare alle stelle i prezzi del piombo e dello zinco, perciò i Nogara sognano in grande, progettando di fare della miniera il fulcro di un’impresa per lo sviluppo e la valorizzazione del territorio. Indebitamenti, crediti non concessi, riassetti societari insufficienti fanno svanire il disegno e nel 1956 costringono alla cessione della società alla Pertusola.

    È ancora Bernardino, ormai ottantenne, a tirare i fili dell’operazione, che tra l’altro estromette il figlio Giovanni dalla direzione della miniera. Bernardino fa parte invece del consiglio di amministrazione della Pertusola come rappresentante del capitale vaticano. Nell’arco di pochi anni la società sarda acquisisce il pieno controllo di Raibl.

    Guerrino Gabino lavora a Cave da dieci anni quando la miniera passa di mano; vuole sapere come la nuova società gestisce i quattro stabilimenti in Sardegna e va a visitarli.

    La tragedia di Marcinelle si è appena compiuta quando Gabino, che ha scelto di rappresentare i minatori come sindacalista, riferisce all’assemblea pubblica quanto ha saputo: salario bassissimo, legato al cottimo, facile licenziamento; i minatori stanno coi piedi in acqua, il ritmo di lavoro è pesante.

    La Pertusola trasferisce a Cave il sistema di produzione Bedaux, applicato nelle proprietà sarde dagli anni Venti. Era stato vietato nel 1934, ma

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