Il Centurione _ Versione Epub
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Faticosamente approda a una nuova esistenza, ma gli eventi, l'amore per l'irrequieto figlio lo costringono a riprendere le armi suo malgrado...
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Il Centurione
INDICE
Capitolo I
Attio Cordo Valente chiese di essere congedato al termine della seconda campagna in Gallia, quella condotta contro i Belgi e i Nervi¹.
La richiesta stupì tutti perché quale centurione primipilo² aveva una posizione invidiabile e una brillante carriera da coronare.
Aveva la prescitta anzianità di servizio e quel taciturno soldato rimase fermo nel suo proposito nonostante le pressioni e gli inviti a restare.
A malincuore Caio Giulio Cesare gli consegnò la pergamena del congedo dinanzi alla X Legione schierata per salutarlo.
Il comandante, sempre così sobrio e misurato, pronunciò per Attio singolari parole di stima e di affetto, tanto che il severo centurione si commosse e a fatica trattenne una lacrima. Benchè attendesse quel momento da oltre vent’anni, se ora Cesare avesse insistito forse lui lo avrebbe seguito di nuovo.
Dopo gli onori ufficiali il suo congedo fu salutato dagli sfottò e dagli abbracci dei commilitoni, dispiaciuti di perdere un compagno che, nonostante avesse fatto carriera, era sempre stato un punto di riferimento per tutti e per alcuni un amico.
Attio era di carattere burbero e schivo, parlava solo se interpellato ma da molti anni la sua opinione veniva chiesta spesso, anche nel Consiglio di Cesare, perché col buon senso e l’esperienza sapeva valutare il pro e il contro di ogni questione.
Con un tono pacato che tanto contrastava coll’aspetto selvatico e spaventevole per via della cicatrice che gli deturpava il volto, aveva sedato le discussioni e indicato a molti comandanti le soluzioni più ragionevoli. In molti avevano chiesto il suo discreto consiglio e Cesare stesso lo interpellava su questioni logistiche, sul morale dei soldati, su punizioni o ricompense da assegnare.
Attio si pronunciava con franchezza, a volte con brutale ironia, e questa schiettezza a volte assai temuta era diventata proverbiale.
Da molti era detestato ma tutti lo rispettavano per il coraggio e le capacità dimostrate. La sua carriera era stata cristallina: legionario, soldato scelto, signifero e tutta la trafila da centurione svolta per esclusivi merito e valore. Non valore di soldato audace e animoso, ma feermezza di chi, anche nei frangenti più disperati, non aveva mai ceduto e aveva retto; lo testimoniava col corpo coperto di cicatrici.
Dopo il congedo partì per l’Italia con Cesare, che tornava per tenere le sessioni giudiziarie. Il viaggio fu tranquillo e veloce; prima di recarsi nella pianura padana per prendere possesso del fondo assegnatogli, Attio volle tornare al paese natio, Ferentino, tra i selvaggi monti Ernici.
Vi mancava da oltre tre lustri e, come paventava, la madre era morta.
L’urna cineraria era stata deposta nella piccola tomba di famiglia, al cui esterno fece apporre una piccola stele per ricordare lei e il marito, suo padre morto da tanto tempo.
Venduta la casa paterna, limasti pochi e lontani parenti, scomparsi gli amici di un tempo, Attio si sentiva ormai un estraneo in quella cittadina ove tuttavia veniva additato come una persona importante.
Seppe che Azia, la sorella minore, si era sposata e viveva a Verulae; era l’unica persona cara rimastgli e subito partì per cercarla. Ritrovò una donna astiosa e infelice, invecchiata e con un nugolo di figli dall’aria ottusa. Fu trattato freddamente e decise di ripartire senza neppure attendere il ritorno dai campi dello sconosciuto cognato.
Regalò alla sorella un sacchetto di sesterzi ed alcune pezze di stoffa; ammorbidita lei gli consegnò i Lari familiari da lei conservati dopo la morte della madre e la vendita della casa.
Azia aveva due anni meno di lui, che ne contava quarantasei, ma sembrava una vecchia scorbutica e lo trattava come un estraneo.
Ripartì subito e senza rimpianti alla volta di Rimini, ove aveva fatto inviare il grosso del bagaglio, le armi e dove un conoscente doveva condurgli il figlio Teuto, avuto da una schiava Teutone³ morta nel darlo alla luce.
Il viaggio a dorso di mulo lungo la via Flaminia non fu sereno come era stato il ritorno dalla Gallia; Attio era inquieto e dubbioso per il futuro che lo attendeva, che gli pareva ben più complicato e incerto rispetto al noto servizio nell’esercito.
Rivolgeva mute invocazioni agli dei affinchè non dovesse rimpiangere la scelta fatta e fosse felice l’incontro col figlio semisconosciuto.
Giunto a Rimini, presso la locanda convenuta trovò i bagagli, il figlio e il conoscente che ve lo aveva condotto. Quel tizio lo attendeva da due giorni e fu lieto di eclissarsi non appena riscosso il compenso pattuito.
Attio rimase solo con un adolescente magro e timoroso; quello era suo figlio? Era così cresciuto e cambiato che non lo riconosceva.
Otto anni erano trascorsi da quando lo aveva affidato a un veterano del Piceno, suo amico, che lo aveva cresciuto in campagna con una certa severità. Attio non poteva tenerlo con se e quella gli era parsa la soluzione più opportuna.
Ora sedevano nella taverna semideserta in un silenzio carico di diffidenza. Teuto non riconosceva il padre, di cui tanto gli avevano parlato e di cui conservava solo uno sbiadito ricordo, in quell’uomo massiccio, burbero e terribile a vedersi. La folta barba con cui Attio tentava invano di coprire l’orribile cicatrice che dalla tempia destra scendeva sino al mento, lo rendeva ancor più severo e cupo.
L’ex soldato percepiva il timore del fanciullo e cercava di mitigare il cipiglio da centurione sfoderando un incerto sorriso ed estraendo dal bagaglio i doni comprati al figlio. Non si erano abbracciati nè avevano scambiato una parola, Teuto sorrise ai gesti del padre e poi la sua attenzione fu assorbita dagli inattesi regali.
Attio lo osservava compiaciuto ed intenerito, pensava: Il ragazzo é sano e vigoroso, pur se magro. Ha carnagione e capelli chiari come quelli della madre, solo gli occhi sono scuri come i miei
.
Rimasero tre giorni in quella locanda presso la porta meridionale di Rimini. L’ex soldato ultimava i preparativi: acquistò un carro da trasporto, due bovini, una coppia di schiavi, attrezzi, sementi e una certa quantità di derrate. Gli schiavi, un uomo e una donna non giovani nè particolarmente robusti, li aveva preferiti per il prezzo contenuto e perché l’uomo, di nome Ebone, sapeva leggere e scrivere. Li aveva visti piena di buona volontà perchè ansiosi di non venir separati; quando, cedendo alle loro preghiere, li aveva acquistati entrambi, lo avevano ringraziato inginocchiandosi e raccomandandolo agli dei per la sua umanità.
Quando tutto fu pronto, all’alba del quarto giorno caricarono il carro, aggiogarono i bovini e tutti e