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L'incredibile storia degli imperatori romani
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E-book849 pagine9 ore

L'incredibile storia degli imperatori romani

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I ritratti degli uomini che hanno fatto grande Roma

La Storia è un affresco vivido di uomini e donne in carne e ossa che hanno combattuto, ucciso, odiato, ma anche sognato e amato. In particolare, la storia degli oltre 150 imperatori che si sono succeduti da Augusto in poi offre uno spaccato estremamente ricco e variegato dell’animo umano, tanto delle sue grandezze quanto delle sue meschinità. Questo libro è composto dai ritratti delle vite degli uomini (e di alcune donne) più potenti del mondo romano e bizantino, con curiosità, aneddoti e intrighi, che regalano alla lettura la piacevolezza della narrazione romanzesca. Testimonianze di età antica e medievale, ma anche studi moderni di ricercatori di fama internazionale, letteratura, archeologia, epigrafia, arte, numismatica e papirologia sono alcune delle fonti attraverso le quali è stato possibile ricostruire la vita dei principi. Il volume è strutturato per profili biografici ordinati cronologicamente da Augusto, padre dell’impero romano d’Occidente, a Costantino Paleologo, ultimo imperatore di Bisanzio.

Un libro straordinario, unico nel panorama mondiale
Un viaggio alla scoperta degli uomini che hanno retto le sorti dell’impero, in oltre mille anni di storia

Per la prima volta le biografie di tutti gli imperatori dell’impero di Roma e di quello di Bisanzio in ordine cronologico

Le vite e le vicende che hanno segnato le civiltà di occidente e di oriente narrate come il grande romanzo della nostra storia

«Non sapere che cosa sia accaduto nei tempi passati equivale a restare per sempre bambini.»
Cicerone

«A rigore, non esiste la storia, solo la biografia.»
Ralph Waldo Emerson
Massimo Blasi
(Roma, 1979), dottore di ricerca in Filologia e storia del mondo antico, è autore di numerosi articoli scientifici pubblicati su riviste italiane e straniere, di una monografia insignita nel 2012 del Premio “Sapienza Università Editrice” (Strategie funerarie. Onori funebri pubblici e loro uso politico nella Roma medio e tardo repubblicana, 230-27 a.C.) e con Laura Zadra di una serie gialla ambientata nella Roma di Giulio Cesare (Quel che è di Cesare e I morti non fanno festa). Dopo un periodo alla École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, collabora con l’Università di Roma La Sapienza e insegna materie umanistiche in un liceo romano.
LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2018
ISBN9788822725202
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    Anteprima del libro

    L'incredibile storia degli imperatori romani - Massimo Blasi

    Premessa

    Se ripensiamo ai libri di scuola, la Storia ci appare come una successione polverosa di fatti in bianco e nero, immagini un poco sbiadite di un vecchio film muto. Eppure, per chi la legga con attenzione, la Storia è un affresco quanto mai vivido di persone in carne e ossa che hanno combattuto, ucciso, odiato ma anche sognato e amato. In particolare, la storia degli imperatori che si sono succeduti da Augusto a Costantino xi Paleologo offre uno spaccato estremamente ricco e variegato dell’animo dell’uomo, tanto della sua grandezza quanto della sua meschinità.

    Quando ci si appresta a scrivere un’opera con una simile estensione geografica e cronologica si impone la necessità preliminare di definire il taglio che le si vuole dare. Nel nostro caso, abbiamo scelto di raccontare le vite degli uomini più potenti del mondo romano e bizantino con uno sguardo più attento alle curiosità, agli aneddoti e ai pettegolezzi, al fine di impreziosire il racconto storico-politico.

    Volendoci occupare esclusivamente degli imperatori romani d’Occidente e d’Oriente, abbiamo deciso di lasciare al di fuori della trattazione imperatori, principi e re di regni secessionisti (ad esempio l’imperium Galliarum, il Regno di Palmira e il Regno di Britannia), in quanto non furono imperatori ufficiali, gli imperatori latini di Bisanzio, in quanto sovrani dell’impero latino (dunque né romano né bizantino), e quelli di Trebisonda, che non vennero mai considerati continuatori di Bisanzio (il cui erede fu, semmai, l’impero di Nicea). Sono stati altresì omessi gli usurpatori, i rivali e i principi non autorizzati, vale a dire tutti i comandanti/generali acclamati soltanto dai loro soldati senza la ratifica del Senato (anche quando, eccezionalmente, essi vengono riconosciuti dall’augusto in carica ma sempre e soltanto come associati).

    Il racconto degli imperatori poggia su sicure basi documentarie. Abbiamo infatti consultato testimonianze di età antica e medievale, ma anche studi moderni di ricercatori di fama internazionale. La letteratura, l’archeologia, l’epigrafia, l’arte, la numismatica, la papirologia hanno inoltre contribuito alla ricostruzione delle vite dei principi.

    Il volume è strutturato per profili biografici ordinati cronologicamente da Augusto, padre dell’impero romano d’Occidente, a Costantino xi Paleologo, ultimo imperatore di Costantinopoli. Esso è inoltre corredato di tre appendici: sull’aspetto degli imperatori (Gli imperatori allo specchio), sul modo in cui morirono (Le morti degli imperatori), sugli autori e le opere antiche e medievali citate (Le fonti antiche e medievali); i termini tecnici o difficili impiegati nel testo sono affrontati nel Glossario. La bibliografia che chiude il volume è per forza di cose selettiva: considerata la mole incredibile di studi e ricerche che sono stati condotti sugli imperatori romani e bizantini, non è stato ovviamente possibile dare conto di tutto.

    Salvo quando diversamente indicato, le date menzionate sono da intendersi d.C. e le traduzioni riportate sono opera dell’autore.

    Gli imperatori d’Occidente

    I Giulio-Claudi

    Augusto, il padre (27 a.C.-14 d.C.)

    Augusto piaceva molto alle donne. La sua vita fu costellata di avventure galanti sin dalla giovane età, come scrive l’autore di una Vita di Augusto estremamente di parte, Nicolao di Damasco:

    Nei giorni stabiliti, [in quanto pontefice, Gaio Ottavio] si recava nei templi, di notte, poiché per il bell’aspetto e l’alto rango della sua famiglia, faceva colpo su molte donne. Pur essendo assai ricercato da esse, non fu mai conquistato da nessuna, sia perché da ciò lo distoglieva la madre, sorvegliandolo e non lasciandolo andare in nessun posto, sia perché se ne guardava egli stesso, dato che progrediva nell’età (Nicolao di Damasco, Vita di Augusto 5, 12).

    La protettiva Azia non vedeva di buon occhio le scappatelle del figlio e per contenerle pensò bene di fidanzarlo sin da giovanissimo con una fanciulla di ottima famiglia, Servilia. Era la figlia della matrona forse più intrigante di Roma, anche lei di nome Servilia, a sua volta figlia del celeberrimo oratore Publio Servilio Isaurico e, si raccontava, amante di Cesare. Quel fidanzamento, tuttavia, non portò al matrimonio e la storia di Gaio Ottavio, questo il nome di Augusto quando non era ancora augusto, con quella ragazza di nobili natali finì presto dimenticata.

    È senz’altro la madre Azia la donna che più di ogni altra fu vicina al figlioletto, almeno fino alla sua morte sopraggiunta nel 40 a.C. Lo aveva avuto, insieme a Ottavia Maggiore, dalle nozze di primo letto con Gaio Ottavio, un uomo di Velitrae, oggi Velletri, discendente da una famiglia non particolarmente illustre, destinato a morire giovane e a fermarsi alla pretura, senza giungere al consolato, la magistratura di grado più alto e la più prestigiosa. La sua gens, la Octavia, non era certo paragonabile a quelle antichissime degli Appi o dei Claudi: in breve, a parte la famiglia materna, gli Azi Balbi, nobilissima, e tanti amici quanti nemici, il futuro principe Augusto non poteva vantare molto altro.

    Tra i primi, non si può non ricordare Lucio Marcio Filippo, secondo marito della madre Azia e suo patrigno, o Agrippa, l’antico compagno di studi e di viaggi; tra i secondi Marco Antonio su tutti, l’uomo che aveva intrapreso contro Gaio Ottavio figlio (lo chiamiamo così per distinguerlo dall’omonimo padre naturale) una vera e propria guerra mediatica, fatta cioè di pettegolezzi, botta e risposta e calunnie, nel pieno spirito della Tarda Repubblica, al fine di gettare discredito su quello che, ai suoi occhi di esperto e maturo generale, era solamente un ragazzino indegno di figurare nel testamento di Cesare al posto suo: ricordiamo infatti che alla sua morte, sopraggiunta il 15 marzo del 44 a.C., Cesare aveva onomasticamente adottato tramite testamento Gaio Ottavio figlio, permettendogli cioè di portare il suo nome (e lasciandogli enormi somme di denaro, cosa non da poco quando si voleva scendere in politica!). Era quello ciò che Antonio invidiava al futuro Augusto più di qualsiasi altra cosa, e a buon diritto: perché a Roma il nome voleva dire molto; tutto, se era quello di Cesare.

    Nella guerra di calunnie che segnò i primi anni della vita politica del giovane, almeno quelli tra il 44 a.C., anno della morte di Giulio Cesare, e il 30 a.C., quando Marco Antonio perse la vita ad Alessandria d’Egitto, un anno dopo la battaglia di Azio, mettendo così la parola fine alle guerre civili che imperversavano da una quarantina d’anni, circolarono molti aneddoti sulle origini dell’uomo destinato a cambiare la Storia: alcuni buoni, altri meno, tutti molto probabilmente falsi. Essi rappresentano tuttavia uno spaccato prezioso per conoscere meglio il padre dell’Impero.

    Così, «la casetta dei suoi avi alla periferia di Velitrae, assai modesta e simile a un piccolo magazzino», nella quale egli nacque il 23 settembre 63 a.C., sotto il segno del Capricorno (come ricorda, ad esempio, il rovescio di una moneta del i secolo a.C. conservata nel Castello Sforzesco di Milano, sulla quale figura l’animale) e nell’anno della congiura di Catilina (e del consolato di Cicerone che avrebbe passato i successivi vent’anni a ricordare che era stato merito suo se allora la res publica non era stata rovesciata!), divenne l’oggetto di un bizzarro aneddoto. Tanto il luogo era ormai sacro che più di un secolo dopo Svetonio, biografo dei Dodici Cesari, scriveva: «È ormai radicata opinione che a chi vi entri senza seri motivi venga addosso una specie di orrore e paura», al punto che il nuovo proprietario del casolare, andatovi a dormire, «ne fu buttato fuori da un’improvvisa e inspiegabile forza; lo si trovò poi quasi inanimato, con tutto il suo letto, davanti alla porta» (Vita del Divino Augusto 69). Si direbbe che il genius loci, cioè lo spirito protettore del luogo che evidentemente abitava ancora l’avita casa di Augusto, intendesse tenervi a debita distanza chi non ne fosse degno. In una parola: tutti.

    In simili e altri eventi miracolosi gli antichi dicevano che vi si poteva sperare e intravedere la futura grandezza e la perpetua fortuna del principe. Poco importa se alla base di tali notizie vi sia il liberto, nonché storico, dello stesso principe, Giulio Marato (fonte, vien da pensare, un tantino di parte…).

    Così, quando in tempi remoti un fulmine aveva colpito le mura di Velitrae, si pensò che quel segno divino indicasse la supremazia di un veliterno su Roma, tanto che il villaggio intraprese una guerra contro l’Urbe (guerra che, però, le costò gravissime perdite). Ci sarebbero voluti molti anni prima di capire che in realtà esso faceva riferimento alla futura nascita di Augusto. Solo dopo la sua ascesa, infatti, il prodigio venne correttamente interpretato (o, almeno, così si credette). Ancora, pochi mesi prima della nascita di Gaio Ottavio figlio, a Roma si verificò un prodigio di natura non meglio precisata dalle fonti: esso fu però inteso come il segno dell’imminente arrivo di un re. Di conseguenza, spaventato dal fenomeno, il Senato vietò che tutti i ragazzini nati quell’anno venissero allevati, ma la protesta dei futuri padri impedì che il progetto si traducesse in decreto. Dai tempi della cacciata di Tarquinio il Superbo, non si dimentichi, l’accusa di ambire all’instaurazione di un regime monarchico (in latino, regnum capere) era forse la più grave che potesse essere rivolta a un romano. L’episodio è chiaramente di matrice antiaugustea, vale a dire costruito ad hoc da quella frangia che non vedeva di buon occhio Augusto e la sua figura di principe, formalmente istituzionalizzata dal 27 a.C. con la fondazione del Principato, perché vi scorgeva piuttosto una minaccia all’assetto repubblicano. Assetto che Augusto, ben attento alla propria immagine, mostrò sempre di rispettare e conservare. Mostrò, perché si trattò sempre di un rispetto di sola facciata: in realtà, procedeva allo svuotamento delle vecchie magistrature e alla creazione di un potere assoluto.

    Ma il prodigio forse più celebre connesso alla sua nascita è riportato da un greco d’Egitto, esperto di astrologia e divinazione, Asclepiade di Mende, nel suo Trattato sugli dei (in greco, Theolegoumenoi). Una notte Azia si recò in un tempio per una cerimonia in onore di Apollo e lì si addormentò. Durante il sonno venne penetrata da un serpente, animale sacro al dio, e al risveglio si purificò come se avesse fatto l’amore col marito. Si accorse, però, che sulla pelle aveva una macchia a forma di serpe. Subito tentò di lavarla via, ma invano. Dopo nove mesi nacque Augusto. Sempre lei è la protagonista di un altro episodio miracoloso: prima di partorire sognò che le sue viscere venivano portate in alto, fino alle stelle, per poi ridiscendere su tutto il creato. Non diversamente, il marito Gaio Ottavio padre sognò che nel ventre della moglie era sorto lo splendore di un sole. Per entrambi quei sogni erano stati mandati dagli dei ad annunciare il dominio di loro figlio sull’Ecumene. Questa volta si tratta, chiaramente, di racconti filoaugustei, che dovevano cioè enfatizzare la grandezza del principe, la sua divinità, giocando sul fatto che dal 42 a.C. Giulio Cesare era diventato un dio, più precisamente un Divus. Logico, dunque, che anche Gaio Ottavio figlio fosse divino: con Apollo che aveva messo incinta la madre e lo zio Divo che lo aveva adottato era inevitabile.

    Naturalmente, questi aneddoti presero a circolare solo in un secondo momento, e cioè in seguito all’apertura del testamento di Giulio Cesare e alla scoperta che il defunto dittatore aveva nominato il ragazzo suo erede (tra il 15 e il 20 marzo del 44 a.C.). Prima di allora, infatti, chi fosse o cosa facesse Gaio Ottavio non importava a nessuno. Si tratterebbe, dunque, di prodigi retroattivi, inventati a posteriori. Non c’è da sorprendersi se un buon numero di essi si riferisce alla nascita: fu allora che tutto ebbe inizio.

    Si racconta che quel 23 settembre il Senato fosse riunito per discutere della delicatissima congiura ordita da Lucio Sergio Catilina. Gaio Ottavio padre era arrivato in ritardo perché la moglie aveva partorito; così, l’astronomo esperto di divinazione Publio Nigidio Figulo (lo stesso Figulo che poi sarebbe stato spinto al suicidio da Cesare per via delle sue idee poco… cesariane), appresa l’ora della nascita e fatto un breve calcolo, sembra che abbia detto che era nato il padrone del mondo. Una conferma, almeno per gli uomini del tempo, della veridicità di quella (provocatoria?) previsione potrebbe essere rintracciata in ciò che si sarebbe verificato di lì a qualche anno: Gaio Ottavio padre comandava l’esercito romano in Tracia e lungo il percorso decise di fare una deviazione per rendere visita al celebre oracolo di Liber pater, un dio agreste e molto antico assimilato al greco Dioniso. Venne quindi accolto dai sacerdoti del culto e, secondo il rito, versò del vino sull’altare; all’improvviso si levò una grande fiamma che salì fino al cielo, lasciando tutti senza parole. I sacerdoti spiegarono che un prodigio del genere si era prodotto solo un’altra volta: con Alessandro Magno. Bisogna ricordare che Alessandro rappresentava per i Romani, ma non solo, il padrone del mondo per eccellenza: non è un caso se da lui Gneo Pompeo, genero e rivale di Giulio Cesare, prese il cognome appunto di Magno. Così anche Augusto veniva assimilato al macedone più grande della Storia. Come se ciò non bastasse, la notte successiva Gaio Ottavio padre fece un sogno, uno dei tantissimi sogni che costellano la storia romana: vide il figlioletto nelle vesti di Giove Ottimo Massimo, re degli dèi, assiso su un carro ornato di alloro e trainato da sei coppie di cavalli bianchissimi; stavolta l’assimilazione andava ben al di là di quella con il macedone! La nascita di Augusto, dunque, veniva presentata come l’avvento di un re, fatto temutissimo ed esecrabile: difficile non scorgervi la mano di chi osteggiava la politica del principe.

    Di simile natura sono anche i prodigi legati alla sua infanzia. Tutti sottolineano l’aura mistica e divina del bambino. Ad esempio, quando era piccolo e non camminava ancora, una notte scomparve nel nulla e al mattino fu ritrovato su una torre altissima, mentre dormiva, il viso rivolto al sole che sorgeva, astro simbolo di Apollo (lo stesso dio che, secondo Asclepiade di Mende, aveva messo Azia incinta…). Quando poi era un poco più cresciuto, avrebbe ordinato di tacere alle rane che, nella villa di Velitrae, gracidavano senza sosta e quelle si ammutolirono, non riaprendo bocca mai più. O ancora, una volta, lungo la via Campana, un’aquila gli rubò un pezzo di pane, per portarlo in cielo e subito restituirglielo dopo l’alto volo. Di nuovo, come il sogno con le viscere della madre, anche in questo caso qualcosa che è connesso a lui è portata in alto, per di più dall’uccello simbolo di Giove, a rappresentare lo straordinario destino dell’uomo. Ma uno dei prodigi più famosi si sarebbe verificato molto più avanti, nel 44 a.C., quando tornava a Roma, perché aveva appreso della morte dello zio Cesare e del testamento nel quale l’uomo lo nominava suo erede. A raccontarlo, tra gli altri, Velleio Patercolo, autore del i secolo particolarmente sensibile al fascino del principe Tiberio e, dunque, del padre di quello Augusto: «[…] mentre egli entrava in città, il disco del sole, curvato in forma di cerchio sopra la sua testa, come un arcobaleno, sembrò mettere una corona sul capo dell’uomo che di lì a poco sarebbe divenuto così grande» (Velleio Patercolo, Storia romana 2, 59, 6).

    Quando fu grande abbastanza per girare a Roma da solo, poi, si racconta che il console Quinto Lutazio Catulo, seguace del dittatore Lucio Cornelio Silla, incontrandolo per la prima volta, riconobbe in lui il ragazzino che aveva visto ben due volte in sogno. Una prima in cui Giove gli consegnava le insegne della res publica, e una seconda in cui il giovane sedeva in grembo al dio: a Catulo, che ordinava di farlo scendere subito, Giove si era opposto, lasciando così intendere che il ragazzino veniva cresciuto per la salvaguardia dello Stato. Anche Cicerone lo vide in sogno: Gaio Ottavio figlio scendeva dal cielo sul Campidoglio, appeso a una catena d’oro, e riceveva da Giove una frusta; da convinto repubblicano, Cicerone doveva temere le mire politiche del nipote di Cesare (e a ragione, se pensiamo che venne assassinato dietro ordine suo e di Marco Antonio!).

    Veri o, più probabilmente, falsissimi, tali prodigi costituivano le armi della guerra fredda combattuta tra Augusto e i suoi avversari nell’agitato torno di anni che va dal 44 al 31 a.C. Alla base, l’invidia di Marco Antonio e l’ostilità dei repubblicani che vedevano nell’erede di Cesare una minaccia alla res publica. Gaio Ottavio figlio seppe difendersi ad arte, ma per quanto abile fosse alcuni colpi andarono a segno. Uno più degli altri: l’accusa di provenire da una modesta famiglia municipale. La gens Octavia, come ricordato, non era illustre quanto le altre i cui esponenti sedevano in Senato da generazioni e tantomeno possedeva tra gli antenati dei consoli o dei trionfatori: Gaio Ottavio era solo un Octavius, l’ultimo arrivato in una famiglia di Velitrae. In seguito dunque all’adozione testamentaria da parte di Giulio Cesare, egli aveva assunto il nome di C. Iulius Caesar Octavianus, ma i suo avversari lo chiamavano solo Octavianus, provocandolo deliberatamente, poiché il suffisso latino -anus ricordava la provenienza: nel caso di Ottaviano, dalla famiglia degli Ottavi. Il giovane preferiva ovviamente il nome di Cesare, proprio perché lo metteva in linea di continuità con lo zio, ma di fatto non poté mai impedire che lo chiamassero nell’altro modo. Dura lex sed lex.

    Il fatto che la famiglia paterna fosse poca cosa offrì il destro a diffamazioni anche pesantissime e, per giunta, falsissime. Secondo alcuni, infatti, tra gli antenati del principe ci sarebbero stati bottegai di cordami, profumieri e mugnai, secondo altri addirittura prostituti e agenti di cambio, vale a dire qualcosa a metà tra cambiavalute e usurai.

    A onor del vero, per la gens Octavia non abbiamo notizie di membri illustri. Quanto alle calunnie, Svetonio, l’autore che riporta tutte queste insinuazioni, pare stupito: fatica a immaginare il padre del grande Augusto nelle vesti di un galoppino elettorale e trafficante politico in giro per il Campo Marzio e conclude che l’uomo era in realtà ricco, tanto che aveva intrapreso una carriera politica ed era arrivato sino alla pretura. Sulla ricchezza insiste anche Nicolao di Damasco (Vita di Augusto 2, 3), che scrive: «I suoi avi, ormai famosi per ricchezza e onestà, gli lasciarono i loro beni, che però i tutori preposti dissiparono». A essa egli associa, secondo lo spirito panegiristico con cui compone la sua opera, onestà e povertà, tratto distintivo quest’ultimo di tutti gli uomini virtuosi romani (è il mito della paupertas, povertà), quasi sempre palesemente fasullo, come lo è anche il luogo comune dei tutori che dissipano i beni di un giovane promettente.

    Un fondo di verità, comunque, c’è sempre nei racconti, anche in quelli meno credibili: considerato che Gaio Ottavio padre era un pretore, dunque un membro del Senato, poteva benissimo essere un affarista. Dunque, la famiglia paterna sembrerebbe essere stata almeno ricca. Quando egli morì, nel 59 a.C., peraltro assai presto, lasciò il figlioletto Gaio Ottavio di soli 4 anni e la sorella Ottavia Maggiore alle cure della madre Azia e del suo secondo marito Lucio Marcio Filippo, l’uomo con il quale la donna si era risposata dopo una breve vedovanza. È Filippo l’altra figura che, insieme ad Azia, sarà al fianco di Gaio Ottavio figlio, traendo numerosi benefici dal matrimonio con la madre di quello, non da ultimo il consolato del 56 a.C. Ancora una volta è Nicolao di Damasco (Vita di Augusto 3, 5-6) a parlarne: «Da Filippo [Gaio Ottavio figlio] fu allevato come da un padre […] la madre e suo marito vigilavano su di lui».

    Fu infatti sempre Lucio Marcio Filippo a consigliare Gaio Ottavio per il meglio e ad aiutarlo nei difficili inizi che seguirono il cesaricidio (tentò di fargli avere l’appoggio di Cicerone, a quel tempo l’uomo forse più influente in Senato). Malgrado la perdita del padre naturale, dunque, Gaio Ottavio figlio non fu solo: aveva Azia e Filippo con sé e anche un’altra figura alla quale volle follemente bene: la nonna materna, la sorella di Giulio Cesare, Giulia, con la quale trascorse parte della fanciullezza. A rafforzare il loro legame contribuì il trasferimento di Gaio da lei. Le ragioni che portarono la protettiva (e anche un poco ingombrante) Azia ad allontanare il figlio dalla casa avita non sono note. Alcuni storici sospettano che il ragazzino avesse problemi con la madre per via delle seconde nozze di quella con Filippo, ma sembrerebbe da preferirsi una diversa interpretazione: la donna potrebbe averlo affidato alla vecchia Giulia, per introdurlo nella casa di Cesare con la speranza che l’uomo lo adottasse o forse perché sapeva che intendeva farlo. A quel tempo, ricordiamo, Cesare era prossimo alla campagna gallica e, anche se non poteva immaginare quanti anni sarebbe durata, di certo sapeva che, lontano da Roma e dalla moglie, non avrebbe mai generato un figlio. Cesare e Azia avrebbero dunque potuto trovare un accordo vantaggioso per entrambi e decidere così di comune accordo che il ragazzino sarebbe cresciuto con la nonna Giulia nell’attesa del suo ritorno.

    Alla morte dell’anziana donna, nel 51 a.C., Gaio Ottavio figlio fece ritorno alla casa materna: Azia temeva forse per la sua incolumità a causa delle tensioni tra il lontano Cesare e Pompeo Magno e della guerra civile che solo l’anno prima aveva insanguinato la via Appia con la morte del tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro? Non lo sappiamo. Resta che, dal punto di vista della donna, come di tutti a quel tempo, Cesare era ormai dato per vinto contro Pompeo e non aveva più molto senso lasciare il figlio in casa sua. Poteva persino rivelarsi pericoloso.

    E così, a soli dodici anni, prima di tornare dalla madre e da Filippo, Gaio pronunciò l’elogio funebre per la nonna, davanti a tutta Roma, nel Foro. Che si fosse offerto lui, dato l’antico affetto che lo legava alla donna, o che fosse stato il gruppo cesariano a decidere, con l’intento di commuovere maggiormente la folla e così avvicinarla al lontano Cesare (ogni giorno sempre più minacciato dal rivale Pompeo deciso a privarlo del favore popolare), Gaio si esibì pubblicamente per la prima volta. E fu un successo. D’altra parte, sembra che egli si fosse distinto già prima per la sua eloquenza (Nicolao di Damasco, Vita di Augusto 3, 4): «Verso l’età di nove anni Ottavio suscitò la grande ammirazione dei Romani, perché dimostrava in così giovane età altezza di ingegno».

    Tutto merito dell’accurata formazione umanistica che gli era stata impartita. Come i rampolli di buona famiglia, anche lui aveva studiato le lettere greche e latine, entrambe indispensabili alla carriera futura di oratore (il mestiere delle famiglie bene). Tuttavia, delle due lingue preferiva di gran lunga il latino, non osando scrivere in greco che brevissime citazioni, ricopiandole parola per parola e inviandole a familiari e a generali. Conosciamo dunque poesie e tragedie scritte di suo pugno, tra cui l’Aiace, il cui protagonista, avrebbe detto lo stesso Augusto a chi glielo domandava, «si era gettato sulla spugna» anziché sulla spada (un modo per dire che era morto a furia di… cancellature!). Delle sue opere non restano che titoli: La Sicilia, Epigrammi, Risposte a Bruto a proposito di Catone, Esortazioni alla filosofia, Sulla sua vita. In tutti i casi, l’autore tendeva a leggerle agli amici più intimi, durante i banchetti, o a tenerle per sé, forse perché consapevole delle proprie scarse doti letterarie. Il povero Aiace, d’altronde, ne era la prova.

    A seguirlo nella complessa formazione fu di sicuro uno schiavo, poi liberato: tale Sfero. Del pedagogo si sa ben poco, ma dovette rappresentare un punto di riferimento per il futuro principe; infatti alla sua morte, sopraggiunta nel 43 a.C., venne salutato con un funerale pubblico, un onore che potremmo accostare agli odierni funerali di Stato. Senz’altro eccessivo, in considerazione dell’umile condizione sociale del defunto (tutti coloro che ricevevano simili funerali erano generalmente consoli o, comunque, senatori), verrebbe da pensare che il buon Sfero fosse stato piuttosto onorato con un funerale privato, per quanto sontuoso. Le ragioni di quella che parrebbe una menzogna storiografica sono difficili da cogliere, ma forse possono essere rintracciate nel tentativo da parte di alcuni di infangare Gaio, allora chiamato Cesare figlio per l’adozione in nomen da parte dello zio Cesare: quell’anno, ricordiamo, egli aveva soffocato nel sangue la guerra civile di Perusia, sacrificando sull’altare del Divo Cesare ben duecento nobili senatori locali e cavalieri responsabili della rivolta. Diffondere dunque la falsa notizia del funerale di Stato per un semplice pedagogo da parte di un uomo che aveva massacrato dei decurioni avrebbe di sicuro fatto gridare allo scandalo: simili disparità di trattamento non erano di certo viste di buon occhio.

    Quando Sfero morì, Cesare figlio aveva ormai raggiunto la tanto ambita paideusis (in greco, formazione) di cui aveva bisogno, il presupposto alla grandezza futura dell’uomo, almeno secondo l’ottica del tempo. Un peso dovette averlo anche la madre Azia, come ricordano gli autori antichi, in particolare Nicolao di Damasco, a sua volta insegnante (di Erode), dunque piuttosto sensibile al ruolo giocato dalla paideusis nella formazione della classe politica (un’idea, questa, che in Grecia era già stata ampiamente teorizzata da Isocrate). È Tacito, storico romano a cavallo tra il i e il ii secolo, a sottolineare il ruolo della donna nella formazione del figlio in un celebre passo: «Abbiamo appreso che Cornelia, madre dei Gracchi, Aurelia, madre di Cesare, Azia, madre di Augusto, hanno presieduto all’educazione dei loro figli e ne segnarono il destino di uomini nati a comandare» (Tacito, Dialogo sugli oratori 28, 5).

    L’accostamento di Azia alle altre due grandissime donne, nelle fonti esempio assoluto di virtù femminile, lascia capire con quanta benevolenza si guardasse alla madre di Augusto e la si ritenesse artefice della grandezza del figlio. Fu dunque anche merito suo se Augusto divenne un uomo pudicus, letteralmente che si astiene da piaceri di qualsiasi genere, dalla tavola al lusso, una qualità talmente emblematica del primo principe che Tacito, quando si riferiva a lui, parlava di sanctitas ac verecondia, una religiosa verecondia.

    Naturalmente, visti i nemici che lo circondavano da quando aveva accettato il testamento di Cesare, non mancarono accuse di impudicitia, cioè di libidine. Veniamo così a sapere che era un effeminato, almeno secondo il giudizio dell’ostile Sesto Pompeo figlio del Magno, e che Marco Antonio andava dicendo che se la intendeva con Cesare per farsi adottare, per non parlare di quello che suo fratello Lucio Antonio, l’uomo al centro della famigerata guerra di Perusia del 43 a.C., raccontava sui suoi incontri amorosi con Aulo Irzio, luogotenente di Cesare, durante la campagna ispanica. Ancora, correvano voci su una noce infuocata che il giovane si passava sulle gambe per ammorbidirne i peli. In realtà, erano in molti a credere che fosse tutto vero e, forse, un fondo di verità doveva esserci. Scrive infatti Svetonio che una volta a teatro tutti pensarono che un attore facesse allusione a lui, nell’intonare il verso: «Vedi tu quel cinèdo [omosessuale] come regola l’orbe col dito?» (Svetonio, Vita del Divino Augusto 68).

    Si ha tuttavia notizia di trasgressioni anche di segno opposto. Pare infatti che l’uomo giacesse con donne sposate, fatto che neppure lui stesso negava con gli amici più stretti, anche se riferiva quelle trasgressioni non tanto alla libidine, quanto al calcolo politico, dal momento che quei rapporti gli sarebbero serviti a carpire i segreti dei mariti delle adultere. Ma forse si tratta di un modo per contrastare l’accusa di impudicitia: a Roma il vizio era visto ben peggio del calcolo.

    Il sospetto che libidinoso lo fosse per davvero, tuttavia, rimane: basta leggere un’epistola che Marco Antonio avrebbe scritto all’allora Cesare figlio, quando erano ancora in buoni rapporti:

    E tu [Augusto], vai a letto con la sola Drusilla? Ti pigli un accidente, se non è vero che, quando leggerai questa lettera, sarai andato a letto con Tertulla o Terentilla o Rufilla o Salvia Titisenia… o tutte quante. Che importanza ha dove e con quale donna uno fa l’amore? (Svetonio, Vita del Divino Augusto 69).

    Erotomane o mero calcolatore (o entrambe le cose?), Cesare figlio era destinato a grandi opere e i senatori presero a guardarlo con timore quando, il 18 ottobre del 48 a.C., si verificò in Senato un prodigio spaventoso. Il giovane aveva abbandonato la toga pretesta per assumere quella virile, secondo il rito di passaggio all’età adulta, ed era stato nominato pontefice per volere di Cesare. In quell’occasione la toga era scivolata ai suoi piedi e i senatori subito vi scorsero il segno della loro futura sottomissione all’uomo. E così sarebbe stato. Tutti dunque lo avevano iniziato a temere, tutti tranne sua madre. Nicolao di Damasco scrive infatti che:

    tuttavia, sebbene iscritto tra gli adulti secondo la legge, la madre gli proibiva di uscire di casa […] e lo costringeva a condurre la stessa vita di un tempo e a dormire dove aveva sempre dormito. Era quindi adulto solo per legge, in pratica era sorvegliato come un ragazzo (Nicolao di Damasco, Vita di Augusto 4, 10).

    La mamma è sempre la mamma. Ma di quel comportamento protettivo il figlio non si lamentò mai. Anzi, trascorreva con piacere il tempo in sua compagnia, al punto da prendere a Roma una casa accanto a quella di lei e del suo secondo marito, e tendeva a dare ascolto a quello che la donna aveva da dire su ogni cosa: quando, ad esempio, voleva raggiungere lo zio Cesare in Africa, si trattenne perché la madre era contraria. Di fronte, però, alla richiesta di lei di accompagnarlo in guerra, si rifiutò. Dopotutto, sarebbe stato impensabile.

    L’impressione che si ha leggendo le fonti è che l’armonia tra di loro sia esagerata e che, nella realtà, le cose non fossero così idilliache. Tuttavia, bisogna capire che Azia giocò un ruolo determinante nella vita del figlio: non si trattò solo del sostegno che, insieme a Filippo, seppe dargli in diverse occasioni, ma del sangue che gli passò. Era lei il vero discendente di Giulio Cesare! Il figlio doveva dunque alla donna tutta la nobiltà che aveva e la stessa legittimazione della discesa in politica. Enfatizzare quel legame risultava di primaria importanza per chi veniva continuamente attaccato a causa dei propri natali. Ecco allora che Azia, l’anello di congiunzione tra un giovane ambizioso di Velitrae e il grandissimo Cesare, veniva a essere una figura centrale nella propaganda. E se c’era una cosa in cui il figlio era straordinariamente versato, quella era la politica.

    Come suo zio, naturalmente, che, dopo aver concluso la guerra civile contro Gneo Pompeo Magno, nel 47 a.C. lo fece nominare prefetto delle Ferie Latine (praefectus Feriarum Latinarum). Si trattava di una carica straordinaria con la quale Gaio Ottavio figlio sostituiva a Roma i consoli nel giorno in cui quelli si trovavano sul monte Albano per celebrare appunto le ferie latine, festa che si teneva una volta l’anno, tra gennaio e marzo, e sacra a Giove Laziale, occasione più unica che rara per far notare il giovane dai senatori e dal popolo tutto. Fu sempre lui che, per dargli quella visibilità così importante in una società altamente competitiva come quella romana, l’anno successivo gli permise di sfilare al suo fianco a Roma durante la processione trionfale per la vittoria sull’Africa e sul re Giuba. Inutile dire che il ragazzino non se lo lasciò chiedere due volte e che anzi prese parte anche ai banchetti che la conclusero. Da parte sua, Cesare sembrava adorare quel ragazzo, forse anche perché sapeva che l’unico suo figlio maschio non poteva certo avere un posto a Roma: Cesarione, infatti, era nato dall’unione con Cleopatra, una regina e, per di più, una straniera!

    Ormai il legame tra i due si andava consolidando e quindi Gaio Ottavio decise di seguire lo zio nelle campagne militari, ma senza fortuna: in Spagna, ad esempio, dove Cesare era impegnato nella guerra contro i figli del defunto Pompeo, arriverà a guerra conclusa. Poco male, diremmo noi, dal momento che l’arte della guerra non sarebbe mai stata quella nella quale il futuro augusto avrebbe eccelso. E così, al suo rientro nella Capitale, egli venne accolto da una figura per noi, almeno in parte, misteriosa: Amazio. Misteriosa perché ci è dato sapere poco sull’uomo che sosteneva di essere il figlio di Gaio Mario, il famoso capo dei popolari (gruppo politico meno legato agli interessi della vecchia classe politica rappresentata invece dagli ottimati) che aveva perso la vita nella sanguinosissima guerra civile contro Lucio Cornelio Silla Felix, l’uomo baciato dalla Fortuna. Ora, sostenere di esserne il figlio (cosa sulla quale non vi è certezza, tanto che gli storici chiamano Amazio anche Pseudo-Mario, cioè falso Mario) significava ribadire un rapporto di parentela con lo stesso Giulio Cesare, dal momento che Gaio Mario era stato sposato a una zia del dittatore. In una città in cui la consanguineità, naturale o acquisita, pesava come l’oro, era decisamente importante per un uomo come Amazio, deciso a farsi il rappresentante della plebe, poter affermare un punto di contatto con il politico forse più amato dalla gente: marketing avanti Cristo. Leggiamo che Gaio Ottavio figlio, al tempo ancora questo il suo nome, forse avvisato dalla premurosa Azia, non rifiutò l’accoglienza che Amazio gli offriva davanti a tutti, ma che gli consigliò di non dire di essere figlio di Mario almeno finché non avesse potuto parlarne direttamente con Cesare. In breve, il giovane si tirò fuori dall’impiccio con grande abilità; una manovra degna del grande diplomatico che sarebbe stato e che, forse, già era. Nulla di sorprendente, dunque, se quando nel 45 a.C. intraprese un viaggio in Illiria si verificò un fatto straordinario.

    Poiché Giulio Cesare, dittatore, lo aveva nominato suo comandante della cavalleria al tempo in cui si accingeva a intraprendere la guerra contro i Parti, i nemici dei Romani per eccellenza (come potevano esserlo stati i Cartaginesi in età scipionica), Gaio Ottavio figlio si era recato ad Apollonia insieme a Marco Vipsanio Agrippa, di fresco graziato da Giulio Cesare solo perché era l’amico del nipote, e al buon pedagogo Apollodoro di Pergamo. Durante quello che, a prima vista, doveva essere un viaggio-studio, fecero visita al famoso osservatorio di Teogene. Teogene era un astrologo, ma anche un astronomo, di fama mondiale: come ebbe fatto l’oroscopo di Ottavio, si prostrò ai suoi piedi: vi aveva letto, evidentemente, il destino grandioso che lo attendeva. Durante il soggiorno Gaio Ottavio venne raggiunto dalla notizia della morte di Giulio Cesare e del testamento nel quale veniva adottato: Teogene ci aveva preso. Era dunque tempo di tornare a Roma e realizzare il destino che tanti prodigi gli avevano preannunciato sin da quando doveva ancora nascere.

    Grazie così al nome di Cesare, che adesso poteva portare, seguito dai sostenitori più stretti quali Agrippa e un etrusco di origini regali, tale Mecenate, il talent scout che avrebbe un giorno diretto il circolo di intellettuali allineati con la politica di Augusto, nonché appoggiato anche da altri non meglio noti, egli incontrò la gente che contava, nel tentativo di ottenerne il sostegno contro Marco Antonio. Tra questi, un perplesso Cicerone che sembrava chiedersi: ma era davvero quel ragazzino l’erede che Giulio Cesare aveva scelto? Malgrado, comunque, le perplessità, peraltro legittime, e le manovre di Antonio, grazie a una legge curiata Cesare figlio ottenne la ratifica del testamento. Da quel momento, era lui il successore di Giulio Cesare, almeno in senso politico, poiché dinastico non poteva (ancora) esserlo a Roma. Si scatenò quindi quella subdola guerra fredda di cui si è detto: per Marco Antonio era difficile accettare di aver servito Giulio Cesare per anni ed essere stato ricompensato con l’esclusione dal testamento. E così, per riconquistare l’opinione popolare, sempre più favorevole verso Cesare figlio (fosse anche solo perché portava quel nome!), dopo un primo vano tentativo (di fatto, una legge del giugno 44 a.C. con la quale egli chiedeva lo scambio della propria provincia, la Macedonia, con un’altra), decise di prendere sotto il proprio controllo la Gallia Cisalpina: era la provincia più cesariana di tutte perché strettamente connessa con la grandiosa opera militare di Cesare e, dunque, in termini di pubblicità, la più adatta a presentare chi la governava come l’erede politico del defunto. Però Cesare l’aveva lasciata a Decimo Bruto, tra l’altro uno dei cesaricidi, e la cosa dovette essere inaccettabile per Antonio. Fu così che esplose la guerra di Mutina, l’attuale Modena: da una parte stavano Antonio e gli eserciti ribelli al suo comando; dall’altra l’assediato Bruto e gli eserciti della Repubblica inviati dal Senato in suo soccorso e affidati a due consoli, Aulo Irzio e Gaio Vibio Pansa Cetroniano, ai quali si era aggiunto un giovane di scarsa esperienza militare ma di già grande prestigio: Cesare figlio. Il ruolo che egli vi rivestì fu, ancora una volta, straordinario. Ma soprattutto inquietante…

    Durante la battaglia, infatti, sembra che avesse eliminato i consoli, approfittando della confusione. La voce è, ovviamente, priva di conferme perché, come si è detto, a scrivere la Storia sono i vincitori e mai i vinti: se dunque Cesare figlio ebbe una parte nella fine dei due magistrati, si guardò bene dal farlo sapere. Comunque andarono le cose, Irzio e Pansa morirono. Il primo, pare, ucciso nella mischia generale, il secondo avvelenato dal medico curante Glicone. In letto di morte Pansa, sosteneva Cesare figlio (ma probabilmente non è affatto vero), avrebbe affidato a lui il comando dell’esercito repubblicano (l’incontro è una delle pagine forse più rappresentative della propaganda augustea).

    Così Cesare figlio, liberata Mutina e respinto Marco Antonio, chiese ai senatori di essere nominato console e, di fronte al loro puntuale quanto comprensibile rifiuto, marciò sulla città. Fu allora che ottenne il consolato e la condanna dei cesaricidi: dopo infatti il perdono che Cicerone aveva loro garantito, la cosiddetta amnistia (in greco, dimenticanza), per mettere tutti d’accordo (dato che molti suoi colleghi erano parenti degli assassini), si tornava all’idea iniziale di punirli con la morte. D’altra parte, chiedere le loro teste era dovere morale di ogni cittadino e, più di ogni altri, del figlio adottivo della vittima. Ecco che Cesare figlio veniva a essere dunque una figura di primo piano sulla scena politica. Si imponeva, per scongiurare un’altra guerra civile dopo quella recentissima tra Cesare e Pompeo, un accordo con Marco Antonio, il rivale. L’accordo arrivò grazie all’abile mediazione di un uomo dai modi gentili, ma dalle non poche ombre: Marco Emilio Lepido. I tre, insieme, brindarono al Triumvirato, nel 40 a.C., una magistratura ufficiale ben diversa dall’omonimo accordo (ma tacito) tra Cesare, Crasso e Pompeo del 60 a.C., con la quale, per cinque anni, ottenevano i pieni poteri al fine di riorganizzare la res publica. Ovviamente, col sangue dei loro nemici.

    Sembrava dunque che l’astro di Cesare visto passare in cielo in occasione dei Ludi della Vittoria di Cesare di fine luglio 44 a.C. si fosse posato davvero sul capo di Cesare figlio, l’uomo che quei Ludi li aveva naturalmente voluti e diretti, ma non per annunciarne la rovina come, secondo Cassio Dione, storico del iii secolo, alcune malelingue non mancarono di far notare, ma l’ascesa. Infatti, per Cesare figlio era tempo di vendicare a nome del popolo romano l’uccisione del Divo padre. Bruto e Cassio, però, erano fuggiti in Oriente, il primo in Macedonia e il secondo in Siria, e una nuova guerra costava cara alle casse di Roma. Come racimolare i soldi? Semplice: con le liste di proscrizione.

    Le liste di proscrizione erano uno dei sistemi di finanziamento preferiti dai dittatori sanguinari e Cesare figlio, negli anni dell’ascesa al potere, non le disdegnò, anzi. Si trattava di liste con i nomi di quelli che, per un motivo o per un altro, erano considerati pericolosi per lo Stato e che, pertanto, venivano condannati a morte, col risultato, cosa ben più importante, che i loro averi finivano nelle casse pubbliche. Naturalmente i proscritti tendevano a nascondersi e allora, per stanarli, erano previsti incentivi assai allettanti: al tempo delle liste redatte da Cesare figlio e nelle quali i nomi di Bruto e Cassio figuravano senz’altro al primo posto dei ricercati, i most wanted dell’Antichità, un cittadino riceveva 25.000 dracme attiche se portava la testa di uno dei proscritti mentre uno schiavo solo 10.000, ma in aggiunta otteneva anche la liberazione e la cittadinanza. Difficile resistere. La guerra, pagata col sangue dei Romani (spesso ingiustamente) accusati di essere dei cesaricidi o di aver prestato aiuto a uno di loro, si concluse a Filippi, nell’ottobre del 42 a.C., col suicidio di Bruto e Cassio e il compimento della ultio Caesaris, la vendetta di Cesare.

    Purtroppo non fu l’ultima guerra civile che Roma dovette intraprendere. Di lì a poco, nel 40 a.C., seguì la forse poco famosa guerra di Perusia. Ancora una volta, i soldati andavano ripagati, preferibilmente con delle terre, e secondo alcuni Cesare figlio avrebbe scelto per i suoi le migliori, lasciando gli scarti ai soldati di Marco Antonio. Tutte terre, va da sé, confiscate ad altri Romani. Tra questi c’era anche il poeta Virgilio, che perse l’avito podere nel mantovano e che non mancò di cantare quella che dovette essere una vera e propria disgrazia di famiglia in una sua celeberrima Bucolica (ma poi lasciò correre, tanto che divenne il poeta più augusteo di tutti, il cortigiano al quale toccò il compito di scrivere l’Eneide e di cantare il destino grandioso del suo principe, lo stesso che gli aveva portato via il fondo). Fu incaricato delle confische un uomo che le fonti descrivono come spregevole: Publio Alfeno Varo, un fedelissimo prima di Giulio Cesare e poi di Cesare figlio, detestato dai poeti Catullo (che lo definì crudele) e Orazio (che, giocando sul nome di quello, Varus, lo chiamava Vafer, in latino astuto o cavilloso, riferendosi alla conoscenza del diritto che l’uomo aveva e che sfruttava a proprio vantaggio).

    E allora, anche la guerra di Perusia fu una vendetta, ma stavolta ai danni di Cesare figlio. A guidarla furono Lucio Antonio, il fratello di Marco Antonio, e l’allora moglie di quest’ultimo Fulvia, una donna che le fonti descrivono come una generalessa, ritta a cavallo e intenta a dare ordini ai soldati. Malgrado l’aiuto richiesto, Marco Antonio, ancora in Oriente, non intervenne: non voleva offrire all’ormai rivale Cesare figlio il destro per muovergli contro una guerra, consapevole che il collega non aspettava altro. Così, senza l’appoggio delle truppe di Marco Antonio, Lucio e Fulvia persero. Cesare figlio risparmiò loro la vita, ma non quella dei trecento senatori locali e cavalieri che li avevano sostenuti: li fece quindi sacrificare sull’altare del Divo padre come fossero carne da macello. Si trattò, forse, del crimine peggiore commesso da Cesare figlio, tanto che il monumento ai caduti per la libertà fatto erigere a Nursia, oggi Norcia, venne subito abbattuto per suo ordine (si trattò del cosiddetto incidente di Nursia). Il massacro divenne presto uno scandalo destinato a seguire Augusto come un cane fedele, tanto che il principe fece di tutto per tenerlo nascosto. Un uomo come Augusto, che prima di molti altri aveva compreso l’importanza della comunicazione e, usando un termine moderno, della propaganda, non era rimasto passivo ma, consapevole che a scrivere la Storia fossero i vincitori, nella sua personale versione di quegli eventi nascose quanto non voleva che giungesse ai posteri. E ci riuscì. Per noi, infatti, è difficilissimo trovare informazioni sulla guerra di Perusia: disponiamo giusto di qualche breve passaggio di Asinio Pollione, al tempo un oppositore di Cesare figlio, trasmesso da Appiano, l’autore dell’opera nella quale si parlava di quei turbolenti anni, La Guerra Civile. Poi, il silenzio.

    Come spesso accadeva a Roma, a rotture politiche corrispondevano divorzi e nuovi matrimoni. Così, dopo il 40 a.C., Cesare figlio divorziò da Clodia, la figlia di Fulvia, donna sulla quale era ricaduta la colpa della guerra di Perusia (un vero e proprio capro espiatorio), e per rinsaldare i suoi rapporti con l’erede di Cesare, Marco Antonio ne sposò la sorella Ottavia. A sua volta Cesare figlio sposò Scribonia, una parente di Sesto Pompeo, il figlio del defunto Magno nonché l’uomo che, grazie alla flotta di cui disponeva al largo della Sicilia, il cosiddetto granaio di Roma, poteva affamare la Capitale. Un matrimonio oculato, diremmo. Tutto sembrò dunque andare per il meglio almeno finché, pare, l’amore non bussò alla porta di Cesare figlio.

    Era il 39 a.C. e a Misenum, oggi Capo Miseno, i Triumviri strinsero un accordo col signore dei mari Sesto Pompeo. Fu allora che Cesare figlio vide Livia e se ne innamorò. La donna, nobilissima, era sposata a un altrettanto nobile romano, Tiberio Claudio Nerone, della famiglia senatoria tanto antica quanto potente dei Claudi. Probabilmente Cesare figlio aveva scorto in quella donna il mezzo per ottenere l’appoggio della famiglia sua e del marito. Nerone, che in passato aveva parteggiato per i cesaricidi, aveva qualche peccatuccio da farsi perdonare e allora quale occasione migliore che cedere la propria moglie all’uomo che presto sarebbe divenuto il padrone di Roma? Così, probabilmente in cambio del perdono di quei trascorsi repubblicani, Livia divorziò da Nerone e sposò Cesare figlio, anche se a quel tempo era incinta del secondogenito, Druso. La cosa dovette suscitare non poco scandalo, tanto che prese a circolare un divertente proverbio tra la gente: «Ai fortunati nascono figli dopo tre mesi» (Cassio Dione 48, 44, 5), come a dire che il bambino era di Cesare figlio: davvero una gravidanza rapida e, appunto, fortunata per la donna! L’altro figlio, invece, assisteva impotente alla separazione dei genitori e iniziava a covare una profonda antipatia per quell’uomo che sarebbe stato il suo patrigno. Odio di cui pare non fece segreto quando, cresciuto, sedette sul trono di Roma. Era Tiberio.

    Per parte sua, Cesare figlio ripudiava Scribonia, la donna che aveva sposato dopo il divorzio da Clodia, perché, come scrive Svetonio, «disgustato dalla sua scostumatezza»: in realtà, Livia valeva di più. Così, dopo che nel 37 a.C. a Brundisium, oggi Brindisi, i Triumviri rinnovarono l’accordo che scadeva, procedettero alla guerra contro l’uomo che minacciava di affamare Roma. Per Cesare figlio e Antonio, con gli appoggi matrimoniali che si erano procurati, l’alleanza col figlio minore del Magno era ormai un dettaglio e non avevano più bisogno di lui. Fu nel 36 a.C. che Sesto Pompeo venne quindi sconfitto, a Nauloco, al largo della sua isola, da Marco Vipsanio Agrippa, l’amico di Cesare figlio. In quell’occasione Sesto non fu l’unico a essere messo da parte: toccò anche a Lepido, reo di aver aiutato Sesto. I Triumviri diventavano così due. Lo scontro era ormai inevitabile.

    Anche se era chiaro a tutti che Cesare figlio e Marco Antonio si sarebbero presto affrontati in battaglia, per qualche tempo le cose andarono avanti (quasi) normalmente. Almeno finché Marco Antonio non decise di intraprendere la guerra contro i Parti, allora il nemico pubblico numero uno di Roma. L’idea in sé non avrebbe costituito un problema se Cesare figlio (ma a buon diritto) non vi avesse scorto due minacce: un’espansione del rivale in Oriente, dove peraltro da tempo intratteneva rapporti di varia natura (molto varia…) con Cleopatra vii, regina d’Egitto, e una grandissima pubblicità a Roma, dal momento che quella guerra era stata progettata a lungo dal defunto Giulio Cesare e chi l’avesse condotta sarebbe apparso a tutti come l’erede del dittatore. Ecco allora che Cesare figlio ebbe paura. Non sarebbe capitato molte volte, ma di fronte a quelle manovre di Marco Antonio sentì di poter perdere tutto quello per cui aveva ucciso e tramato. E allora, nel pieno stile, come si è detto, della politica del tempo, lo diffamò, affermando che stava combattendo in Oriente per consegnare le terre conquistate dai soldati romani a una straniera, la sua amante Cleopatra. Fu così guerra civile, ancora una volta. Ma, almeno, si concluse presto: Alessandria d’Egitto venne presa e il 1° agosto 30 a.C. Antonio si suicidò e Cleopatra lo seguì pochi giorni dopo. Si racconta che Cesare figlio, clemente come lo era stato il padre adottivo, li fece seppellire l’uno vicino all’altra. Ma si preferisce credere al celebre: «Ora, amici, è tempo di bevute» cantato da Orazio (Odi 1, 37): più che il dispiacere, fu infatti la gioia a prevalere tra le schiere di Cesare figlio. Cominciava la pax Augusta, il cui monumento simbolo è la celebre Ara Pacis Augustae del 9 a.C., sulle cui pareti esterne vengono raffigurati i membri della famiglia imperiale e i motivi tipici di quella che oggi chiameremmo propaganda del principe, quali, per limitarci ai più significativi, la grotta nella quale sarebbero stati allevati dalla lupa i gemelli Romolo e Remo e il sacrificio del pius Enea agli dèi Penati. Finiva dunque quel periodo di guerre civili e violenze, un’ombra lunghissima per il futuro Augusto che, per dissiparla, scrisse appositamente le Res Gestae, vale a dire l’opera con la quale egli, ormai principe, giustificava il proprio, spesso e volentieri discutibilissimo, operato. Un’opera di riscrittura della storia di quegli anni bui. Segno del genio del padre dell’Impero, un uomo decisamente avanti rispetto ai suoi contemporanei.

    Protagonista unico, come prima cosa Cesare figlio non ripeté lo stesso errore del Divo padre: evitò di dare l’impressione di ambire a un potere monarchico, cosa che, forse a ragione, era stata attribuita al dittatore. La situazione gli dovette però sfuggire di mano, perché osò rivestire il consolato per ben otto anni di seguito, dal 31 al 23 a.C. Una scelta ardita, dato che a Roma era vietato ricoprire quella altissima magistratura per più di un anno di fila. Nel 23 a.C., per una congiura ordita contro di lui ma destinata a fallire, l’allora augusto, questo era il titolo che portava dal 27 a.C., temendo per la propria incolumità, ottenne il rinnovamento della tribunicia potestas (in latino, la potestà tribunizia) di cui disponeva già dal 36 a.C. ma che ora diveniva perpetua; con essa, egli conquistava il potere, tra le altre cose, di essere intoccabile e inviolabile: quello che ci voleva, dopo essere scampato a un attentato! Rinunciò quindi a rivestire ancora il consolato, lasciandolo agli altri, ma prima svuotandolo del suo effettivo potere. Ci era riuscito affidando nel 27 a.C. la res publica al Senato e, in cambio, ricevendo il titolo di Augustus, vale a dire di accresciuto (dal verbo latino augeo), che rinviava anche all’antichissimo augurio con il quale era stata fondata Roma, l’augurium augustum, cosa che faceva di lui un nuovo Romolo: rispetto a qualsiasi magistrato, Augusto aveva la stessa potestas, cioè lo stesso potere, ma più auctoritas, prestigio (o anche autorevolezza), che gli derivava dal complesso delle virtù civiche presenti nella sua persona riassunte nel bel Clipeus Virtutis del 26 a.C. oggi conservato nel Musée départemental Arles antique, in Francia. Egli era, in breve, il primo tra i suoi pari, primus inter pares: appunto, in latino, il senso della parola princeps. In questa rapidissima ascesa, l’ultimo potere che gli venne riconosciuto fu quello proconsolare maggiore e senza limiti su tutte le province, un rinnovamento del semplice imperium proconsulare che già gli era stato conferito nel 43 a.C. in occasione della guerra di Mutina per permettergli di condurre un esercito, lui che non era neanche pretore. Adesso, anche fuori Roma egli era superiore a qualsiasi magistrato. Con l’una, la potestà tribunizia, e l’altro, il potere proconsolare, l’ormai principe Augusto aveva il mondo ai suoi piedi. Come Santo Mazzarino lo ha definito, il principato fu l’epoca della tribunicias potestas posta a fondamento del potere monarchico, e pertanto affiancata all’imperium militare. Bisognava adesso plasmare soltanto la città a sua immagine e somiglianza, per collegare a doppio filo (e inestricabilmente) famiglia e spazio urbano, strategia che aveva per obiettivo il consolidamento dell’opinione pubblica. Non dimentichiamo, infatti, che la città antica era un insieme di quelli che oggi chiamiamo media (dalla parola latina, appunto medium), cioè mezzi di comunicazione, e che Augusto li padroneggiava magnificamente.

    Il più grande mezzo di comunicazione in una città antica era… la città. Roma, in particolare, era una vetrina di primissimo piano capace di veicolare slogan e messaggi attraverso i numerosi edifici e monumenti che ospitava. Quando dunque il 6 marzo 12 a.C. Augusto divenne pontefice massimo, approfittando della morte dell’ex triumviro Lepido, e fece aprire al pubblico una parte della sua Domus del Palatino, consacrandola a Vesta, la dea romana del focolare (quella che, si credeva, il frigio Enea, fuggendo da Troia in fiamme, avesse portato nell’antico Lazio), a tutti fu chiara una cosa: egli abitava sotto lo stesso tetto della dea, come se fosse un suo parente. Ma parenti, almeno secondo la propaganda del principe, lui e Vesta lo erano per davvero: la gens Iulia, infatti, prendeva nome da Iulo-Ascanio, il figlio appunto di Enea. Il nesso tra la dea Vesta e Augusto, dunque, veniva fatto risalire addirittura ai tempi che precedevano la fondazione di Roma. Ormai, i culti della casa di Augusto divenivano culti di tutti e i culti di tutti divenivano quelli della casa di Augusto, come ha messo bene in luce Augusto Fraschetti. Non c’è dunque nulla di strano nella decisione del popolo di conferirgli nel 2 a.C. la nomina onorifica di padre della patria, parens patriae. Augusto era in effetti il padre della patria in quanto discendente di Enea, il padre di Iulo-Ascanio fondatore di Alba, metropoli (ovvero, città madre) di Roma.

    Ma a chi lasciare tutto quello che il principe, faticosamente e spesso e volentieri andando controcorrente, aveva costruito? Alla sola figlia Giulia? Impossibile: serviva un maschio. E, cosa non trascurabile, un membro della famiglia. Non c’era che una sola soluzione possibile: a governare Roma dopo la sua morte sarebbe stato il marito della figlia. Insieme, essi avrebbero generato un erede che, un giorno, avrebbe preso il loro posto e così via, assicurando così la trasmissione del sangue di Cesare, il Divo, il solo che conferiva il diritto a regnare. Ma le cose non sempre vanno come si vorrebbe. Anzi, praticamente mai. È quello che dovette dirsi Augusto. Come infatti se fosse stata scagliata (da Marco Antonio?) una maledizione contro la sua casa, chiunque veniva scelto come successore moriva. Fu quanto avvenne a Marcello, figlio della sorella di Augusto, Ottavia, scomparso nel 23 a.C.; o ad Agrippa, l’amico di una vita che aveva condiviso con Augusto l’ardua salita al trono; o infine ai figli di costui e Giulia, gli sfortunati Gaio e Lucio. Non rimase che un solo candidato alla successione, un candidato che Augusto, molto probabilmente, non avrebbe scelto, se non fossero morti tutti gli altri: Tiberio, il giovane cupo e silenzioso che il padre Tiberio Claudio Nerone aveva lasciato alle cure di Augusto nel 38 a.C. Augusto gli diede in sposa la figlia Giulia, ormai vedova di Agrippa, e Livia dovette fare i salti di gioia: era suo figlio, un Claudio Nerone, a succedere al marito. Da quel momento in poi, la dinastia regnante sarebbe stata quella dei Giulio-Claudi. Non è dato sapere se la donna ebbe un ruolo nella catena di disgrazie che colpì gli eredi designati, ma verrebbe da pensarlo: Caligola, il principe che avrebbe regnato dopo suo figlio, la chiamava Ulisse travestito da donna tanto era astuta e calcolatrice…

    Una volta chiaro chi avrebbe preso le redini dell’Impero romano, Augusto tornò a occuparsi della sua città. Come egli stesso avrebbe detto, «lasciò Roma di marmo, dopo averla ricevuta di mattoni» (Svetonio, Vita del Divino Augusto 28). Più precisamente, tra i maggiori interventi architettonici e urbanistici vanno ricordati il Macello di Livia e il Portico di Livia, i Saepta Iulia, per votare, e soprattutto il Foro di Augusto, giusto accanto a quello del Divo Cesare con il tempio di Marte Ultore (Marte Vendicatore). Quest’ultimo rappresentò un manifesto programmatico dell’opera politica di Augusto fondata sulla vendetta del padre adottivo (giustificazione ideologica delle sue, anche scellerate, azioni) e sull’emulazione dei grandi Romani. Di costoro venivano esposte nel Foro le statue, perché a tutti fosse chiaro che Augusto era l’ultimo di quella nobilissima schiera che iniziava da Romolo. Naturalmente, ogni intervento di edilizia era firmato da lui o dai membri della sua casa e dai suoi amici (pubblicità ante litteram!).

    Ma una città delle dimensioni di Roma, oltre che costruita, andava anche amministrata e mantenuta. A tale scopo Augusto attribuì a sé e a persone di sua fiducia le curatele degli acquedotti, dei luoghi pubblici e dell’annona (cioè del rifornimento di grano) e le prefetture; tra queste ultime, è da ricordare una delle più importanti, quella dei vigili, dati i frequenti incendi che divampavano nell’Urbe, col compito anche di funzioni che assimileremmo, oggi, a quelle della polizia municipale. Le corti dei vigili erano composte, per gran parte, da ex schiavi di Augusto o della sua famiglia, dunque da persone fidatissime: un elemento di capitale importanza, dato che erano quelle persone a dover mantenere l’ordine in città… e a proteggere la famiglia regnante da eventuali disordini o sollevamenti. Sempre in termini di controllo del territorio, Augusto creò i vicomagistri, in pratica liberti, cioè ex schiavi, che per i vici o quartieri di Roma dal 12 a.C. si occupavano del culto dei (suoi) Lares, i Lares Augusti (Lari, simili agli antenati), e del Genius del principe, una sorta di angelo custode (una trovata brillante, quella di farsi venerare in forma di Lares e Genius, dato che a Roma era proibito nel caso in cui la persona in questione fosse ancora in vita). Ma soprattutto, come Augusto Fraschetti ha ricordato, i vicomagistri (che possiamo vedere sulla celebre Base dei Vicomagistri emersa grazie agli scavi condotti sotto il Palazzo della Cancelleria di Roma) svolgevano un’altra importante funzione: quella che sarà dei portieri fascisti, che nei palazzi in cui vivevano controllavano che tutto fosse a posto (meglio, in linea col regime). Sempre sotto il segno del controllo, era una diversa prefettura che Augusto non creò, ma caricò di un nuovo significato: la prefettura urbana. Basti pensare che Valerio Messalla Corvino, un tempo oppositore di Augusto promosso al rango di suo uomo fidato (nonché coordinatore dell’altro circolo letterario, insieme a quello di Mecenate, dal quale uscirono autori leggermente meno di regime e comunque immensi, quali ad esempio Properzio) rifiutò di essere Prefetto della città (in latino, praefectus Urbi), naturalmente con l’eleganza che si addiceva a un uomo del suo livello, dal momento che non se la sentiva di reprimere eventuali disordini nella violenza e nel sangue. Un compito che richiedeva, evidentemente, un carattere diverso da quello del letterato.

    Infine, Augusto creò corti urbane e pretorie, addette rispettivamente alla protezione dei cittadini e a quella della sua persona: la città, ormai, sembrava sempre più un regno e gli uomini liberi che la abitavano, i cives, sempre più dei sudditi. Moltissime cose erano cambiate, ma la gente sembrava non accorgersene o, se se ne accorgeva, forse non se ne preoccupava, dato che il principato di Augusto fu uno dei momenti più felici della storia di Roma.

    Fuori dalla Capitale le cose non andavano peggio. L’Italia tutta era fedelissima ad Augusto e lo era da quando l’erede di Cesare non portava ancora quel nome. Il giuramento dell’Italia (in latino, coniuratio Italiae) del 32 a.C., di cui Augusto stesso scrisse nelle sue Res Gestae, lo sottolineava: «Spontaneamente tutta l’Italia mi giurò fedeltà» (Augusto, Imprese del Divino Augusto 25).

    Nella guerra contro Marco Antonio e l’infida regina orientale Cleopatra, era lui che l’Italia aveva scelto di inviare come generale e Augusto la ripagò: dopo averla riordinata in undici Distretti, le Regiones, rifece le antiche vie consolari, fondamentali per trasporti, commercio e comunicazioni, e invitò tutti i magistrati locali più alti, e i Decurioni, a recarsi a Roma per le elezioni dei magistrati. L’Italia e Roma erano adesso un tutt’uno. E siccome pubblico e privato non erano più distinguibili, quando si parlava di Domus Augusta, ovvero della famiglia di Augusto, nel 2 e nel 4, alla morte di Gaio e Lucio Cesari (gli eredi designati prima che la scelta ricadesse su Tiberio), la città di Pisa assunse il lutto pubblico, un atto che rispecchiava l’unione di centro e periferia e la fedeltà alla famiglia imperiale avvertita come famiglia di tutti. A testimoniarlo, un documento preziosissimo e assai noto, i Decreta Pisana, ovvero Le decisioni prese a Pisa in quell’occasione.

    Conquistata Roma e l’Italia, non restava che trovare il modo di controllare il resto dell’Impero. Augusto divise così le province in imperiali e senatorie, dove con le prime si intendono quelle ancora calde e nelle quali un presidio militare era necessario, e con le seconde le province pacificate e, dunque, più semplici da amministrare. Per le prime era Augusto in persona a scegliere chi le governasse; in questo modo, il rischio di insurrezioni contro la sua persona sarebbe stato di molto ridotto. Un caso a parte era invece rappresentato dall’Egitto, recente provincia romana (dal 30 a.C.), terra di faraoni dove aveva regnato

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