La Bestia di Sannazzaro: Lomellina, inverno di guerra 1917
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Anteprima del libro
La Bestia di Sannazzaro - Alessandro Reali
UNO
Nicola
Nicola Necchi, quindici anni e basette da uomo, lo sapeva, lo sapeva bene che non era una buona idea mettere il naso fuori di casa, in sere come quella. Il freddo penetrava nella carne fino alle ossa e la nebbia, compatta, nascondeva l’antico borgo di Sannazzaro de’ Burgondi: un gruppo di case sulla costa degradante verso la piana del Po, in direzione di Voghera e delle prime colline.
Ma lui, Nicolino, non aveva nessuna voglia di restarsene in casa, accanto al fuoco, ad ascoltare le prediche di sua nonna, mentre Ida, sua madre, riposava al piano superiore, in quell’unica stanza dove dormivano tutti insieme, nella stamberga della corte nel Quartiere, così chiamato perché un tempo lì si radunavano le guarnigioni di soldati.
Aveva in corpo la voglia di andare, fare, scoprire e capire, perché era quasi un uomo e suo padre se l’era portato via la maledetta guerra, nel maggio di quello stesso 1917, sul fronte del Carso, nella decima battaglia dell’Isonzo, e poi non ci credeva nemmeno un po’ alle superstizioni di sua nonna che, ogni volta che usciva di sera per recarsi dall’avvocato Persico, gli diceva: Stai in guardia, Nicolino! È proprio nelle notti come questa che la Bestia viene su dai boschi di Po per sbranare gli sprovveduti, i viandanti che non sanno che la notte è il regno del Diavolo
.
Ma va’ là, nonna…
era il suo commento.
Negli ultimi mesi la vita di Nicola era molto cambiata.
Precisamente da un mattino di primavera, quando il maresciallo Vailati, mento aguzzo, pizzetto nero e sguardo da lupo di montagna, era arrivato a casa loro e, con la voce di quelli delle colline di Varzi, aveva detto a sua madre: suo marito è tra i dispersi.
No! Per piacere, no!
, urlava la madre di Nicola senza nemmeno aprire la bocca. Non aveva più voglia di ascoltare certe parole. Alla fine erano sempre le stesse, come se potessero bastare a giustificare un’assurdità grande come la guerra. Poche settimane prima era stata la volta di suo cognato, lo zio di Nicola, l’uomo che gli aveva insegnato a pescare con le reti. Era toccato sempre al maresciallo Vailati l’ingrato compito: Fausto Necchi, il fratello di suo marito, purtroppo, risulta tra i dispersi del piroscafo che riportava in Italia i malati e i feriti dalla Libia. Voci non confermate riferiscono che molti nostri soldati, in preda al delirio causato dalla febbre tifoidea, si sono buttati in mare convinti di essere stati silurati da un sottomarino nemico
.
Ida, appresa la notizia della morte del cognato, non aveva detto una parola. Con movimenti lenti, da automa, aveva vuotato il braciere, strizzando gli occhi neri, da uccellino, come se stessero per scoppiare oltre le orbite racchiuse in un viso altrimenti sereno, giovane e maturo al tempo stesso; poi aveva aggiunto un ceppo secco nel camino sconnesso e raschiato, con la solita cura, il paiolo dove cuocevano la polenta. Solo allora, con le spalle avvolte in uno scialle, era montata sulla scaletta cigolante e, una volta di sopra, vestita com’era, col grembiule pesante e le calze di lana, si era infilata sotto la coperta e lì era rimasta a guardare il muro, immobile, senza versare una lacrima.
Da quel giorno scendeva solo per andare di corpo, nel cesso in mezzo al cortile, e mangiare qualcosa. La nonna, la vecchia Maria, una donna forte, che gli anni, la fatica e il dolore avevano levigato come un sasso, uno di quelli lisci e bianchi che si trovano sul greto del Po, la osservava pensando che il tempo, solo il tempo avrebbe potuto arginare il grande dispiacere che paralizzava sua figlia, mentre Nicola, in silenzio, guardava sua madre con rabbia e pietà, ricordando suo padre e suo zio Fausto e pensando a quella guerra che se li era divorati. Altro che la Bestia!
Comunque lui era un ragazzo in gamba, come gli diceva spesso l’avvocato Persico, e alla leggenda della Bestia di Sannazzaro – che i vecchi raccontavano risalisse alla notte dei tempi – ci credeva poco o niente. Anche se alcuni vecchi del Quartiere, soprattutto il padre di Nani, uno che diceva di aver conosciuto di persona il ciclista Gerbi, il Diavolo Rosso di Asti, raccontava che nel febbraio del 1894 due fratelli di Sannazzaro erano stati trascinati in una marcita dietro cascina Malavini, e lì sbranati da un mostro simile a un cane gigante, con zanne e fauci capaci di sfigurare completamente i due malcapitati.
La Bestia di Sannazzaro, appunto.
Così, nella sera cupa, mentre Maria, con gli occhi opachi catturati in una rete di vene celesti, lo osservava attraverso la finestra che offriva uno scorcio del Quartiere – perdendolo subito di vista a causa della nebbia – Nicola, lasciava il suo rione, percorreva via Roma fino alla piazza dei due caffè, svoltava a sinistra in via Cairoli e poi, in fondo, risaliva fino allo splendido palazzo Pollone e, poco prima dell’osteria di Filomena, entrava nel portone al principio di via Cavour dove si trovava la bella dimora dell’avvocato Domenico Persico.
Un uomo massiccio senza essere grasso, l’avvocato. Parecchio stempiato, si rifaceva lasciando crescere i candidi capelli oltre il collo, su una delle giacche di velluto che aveva il vezzo di indossare quasi ogni giorno. Gli occhi erano piccoli e puri fino alla cattiveria, azzurri come un cielo terso, apparentemente indifferenti a qualsiasi tipo di perturbazione o nuvola temporalesca.
Persico trascorreva gran parte delle giornate tra le pareti del suo studio impregnate dell’aroma e dell’aspro fumo del trinciato forte che fuoriusciva dalla grossa pipa in radica, di cui teneva sempre stretto il cannello tra le labbra, troppo grandi e sproporzionate.
In paese si parlava di lui con un misto di rispetto e timore. Gli si riconosceva il coraggio. Si criticavano la stravaganza e il passato non proprio immacolato.
Per Nicola era semplicemente affascinante. Il suo punto di riferimento che, tra un colpo di tosse e l’altro, gli raccontava mille aneddoti sulla storia di Sannazzaro e sui suoi abitanti. Gli parlava spesso di suo padre, amico personale dei Cairoli e del pittore Faruffini che ricordò l’amico Ernesto nella famosa tela (la battaglia di Varese dei Cacciatori delle Alpi) esposta al museo pavese del Risorgimento, quando la Lomellina era ancora sotto il Regno di Sardegna e il prode Garibaldi si recava a Gropello, menzionata con due P dal Carducci, diceva l’avvocato, in visita ad Adelaide Cairoli di cui le malelingue sostenevano fosse l’amante.
Per non dire di un altro prozio, il Mattoide
, come lo chiamava affettuosamente l’avvocato: uno che aveva accolto a braccia aperte Napoleone, a Porta Ticinese, era sceso a Modena e Reggio per incontrare i Cispadani, e poi, fulminato da un lampo sulla via del ritorno, lui, anticlericale convinto, aveva scelto di metter radici proprio in quel piccolo paese abbarbicato su una ridicola costa a guardare da lontano il Po, dove gli abitanti del centro si raccoglievano intorno alla bella chiesa dei SS. Nazario e Celso, quelli del Quartiere alla massiccia e rossa San Bernardino, e quelli dell’Allea, un lungo viale alberato che in estate sembrava sciogliersi in pennellate impressioniste verdi e azzurre, si davano appuntamento al santuario della Madonna della Fontana.
Un gran bel paese, senza dubbio, circondato da risaie, melighe, boschi di pioppi, canali, ringraziando Camillo Benso conte di Cavour e, molti secoli prima, i monaci benedettini detti Sigmarii (termine di origine longobarda che significa vincitori di paludi
), gonfi d’acqua limpida con le rive coperte da robinie spinose. Una terra piatta dove non si contavano le cascine – ciascuna era un microcosmo – gestite spesso da fattori arroganti e salariati in miseria, e impreziosite dalle splendide dimore delle ricche famiglie borghesi, come i Cordolini, i Rapetti, i Pollini, gli Antona Traversi, i Deaglio, i Bignami e i Rovescala, proprietari del maestoso palazzo nascosto nel verde del bosco dei Levi.
DUE
Lo studio dell’avvocato Persico
In un angolo nero di fuliggine c’era il barnass, la piccola pala di ferro utile a raccogliere la cenere del camino. Uno di quei camini d’una volta, incorniciato nel marmo scuro striato di vene bianche e rosa. Sulla parete di fronte, dietro la poltrona di pelle rossa piuttosto logora, spiccava un ingenuo ritratto dell’eroe dei due mondi realizzato dallo stesso avvocato Domenico Persico molti anni prima, copia del famoso quadro di Silvestro Lega del 1861, che raffigurava un Garibaldi riflessivo, in camicia rossa e fazzoletto bianco azzurro al collo.
Sulla destra, un tavolino di legno sul quale c’erano pipe, giornali e una tabacchiera di ceramica e, di fianco ad esso, una libreria in rovere alta fino al soffitto, piena zeppa di volumi buttati lì alla rinfusa, usurati dalle mani grandi dell’avvocato che non si stancava mai di prenderli, consultarli e riporli a caso. Di lato, un’altra ingenua copia a firma Persico: questa volta si trattava della Partenza del Garibaldino, tela intimista e popolare di Gerolamo Induno.
Quello era il magico rifugio di Nicola. Una specie di nido caldo e accogliente dove trascorrere le lunghe sere invernali, un alito confortevole contro la cruda realtà della sua esistenza, dispensatore della consapevolezza – raggiunta attraverso le parole dell’avvocato e la consultazione di volumi, giornali e riviste – di un mondo che esisteva e si apriva oltre il suo villaggio di campagna.
Il ragazzo, seduto sulla sua
poltrona, sfogliava a caso una delle Domeniche del Corriere
illustrate da Achille Beltrame e, ogni tanto, alzava lo sguardo e scrutava il fuoco come se volesse rendere concreto il magnifico odore della legna che ardeva. Poi volgeva lo sguardo alla parete rivestita di libri, su tutte quelle copertine dure, marroni, grigio azzurre, rosso cupo o gialline, che celavano incredibili mondi di nozioni misteriose, stimolanti viaggi sconfinati che lui, ne era certo, prima o poi avrebbe intrapreso.
L’avvocato Domenico Persico sedeva alla scrivania, tra fogli di appunti, calamai, due pipe, un altro vaso per il tabacco e una ciotola di terracotta dove lo stesso finiva una volta ridotto in cenere.
A una certa distanza dagli occhi cerchiati da occhialetti rotondi, reggeva tra le mani il suo libro preferito, I promessi sposi di Alessandro Manzoni, che narrava le peripezie di due innamorati nella Lombardia del XVII secolo.
– Nicola, devi sapere – disse l’avvocato a bassa voce – che questa Lucia Mondella è come l’acqua cheta che rompe i ponti. Tu impara a diffidare delle donne come questa, così morbide, delicate e pure. Mentre il Renzo, il promesso sposo, è un entusiasta che ci capisce poco, di femmine e di tutto il resto. Il personaggio che mi piace più di tutti è il padre Cristoforo, con i suoi peccati e la sua fede.... che poi... Ma ti ho mai raccontato di mio zio Balestrieri il Mattoide
? Sì, vero? Fa niente, te lo racconto ancora. Ogni volta le avventure assumono i colori del momento in cui vengono narrate, devi impararla questa regola, Nicolino.