La società egoista e i residui caratteristici dell'evoluzione
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La società egoista e i residui caratteristici dell'evoluzione - Danilo Paglino
sfaccettature.
INTRODUZIONE ALLA SOCIETA’ EGOISTA
«L'egoismo non consiste nel vivere come ci pare, ma nell'esigere che gli altri vivano come pare a noi».
Oscar Wilde
Osservare il mondo ponendosi migliaia di domande, alimentare il dubbio anziché accontentarsi di soluzioni comode ed immediate, è ciò che sul finire del XIV secolo condusse il filosofo Giordano Bruno ad ipotizzare che l’universo potesse essere infinito. Ma per questa considerazione, insieme ad altre controcorrenti per l’epoca, Bruno venne condannato al rogo dall’inquisizione della Chiesa cattolica; praticamente le sue osservazioni sconvolsero i rigidi schemi di pensiero della casta elitaria di quel tempo, che tra le altre cose, non fu d’accordo ad accettare l’idea di infinito, poiché per allora era più facile considerare che l’universo anche se immenso, fosse comunque misurabile, in quanto prodotto determinato dalla creazione di Dio.
Le idee che durante la storia dell’uomo misero a repentaglio le basi su cui si fondavano fino ad allora certezze e conoscenze, furono quasi sempre temute all’interno delle società, perché venivano giudicate pericolose; la loro insidia stava proprio nello stravolgere credenze e convinzioni che alimentavano e soddisfacevano un bisogno caratteristico, che appare essere intrinseco nell’uomo: avere il controllo sugli eventi.
Con la messa in discussione delle verità ritenute tali, si dà spazio all’incognita e alla imprevedibilità causale, e l’uomo è stato dà sempre bisognoso e desideroso di avere risposte sicure e indiscutibili, come ad appagare un senso di inadeguatezza e precarietà esistenziale. Non accettare a priori idee alternative a quelle in voga, solo perché apparentemente mettono in crisi i bisogni di mantenere il controllo sugli eventi però, significa chiudere le porte al cambiamento, barricare ermeticamente ogni possibilità di conoscenza, all’interno del guscio della presunzione.
Nella teoria deicostrutti personali del 1955, lo psicologo George Kelly, concepì l’uomo come uno scienziato che costruisce e ricostruisce continuamente il proprio universo, con l’intento di migliorare la propria capacità di prevedere gli eventi; l’importante in tutto questo, diventa riconoscere l’invalidazione di una previsione ed accogliere così il fallimento di una aspettativa, per evitare di chiudersi in sé stesso, anziché accogliere apertamente nuove informazioni dall’ambiente.
I bisogni di controllo, intesi come esigenza a mantenere l’ordine su eventi ambientali imprevedibili, probabilmente hanno avuto un preciso ruolo adattativo durante l’evoluzione delle specie; difatti i comportamenti dei nostri antenati erano quasi tutti finalizzati al controllo del territorio di caccia, al controllo del partner e della propria prole da eventuali attacchi da parte di diretti rivali o da predatori vari. La vita sociale all’interno delle comunità si è poi incrementata, proprio perché risultava un utile tornaconto alle esigenze egoiste del singolo individuo ipercontrollante.
I nostri bisogni di controllo possono essere considerati strettamente in connessione alla realizzazione dei bisogni biologici, accade spesso infatti che essi vengono soddisfatti contemporaneamente all’appagamento di bisogni utili alla sopravvivenza, quali la ricerca del cibo, il bisogno di una dimora e di un partner per la diffusione della propria specie; tutti bisogni rintracciabili strutturalmente all’interno dell’area più antica del nostro cervello: il rettiliano.
Per la soddisfazione dei bisogni di controllo sono fondamentali le motivazioni o spinte che inducono gli organismi viventi ad interagire nell’ambiente, assecondando delle tensioni interne; di non meno rilevanza sono poi le modalità attraverso le quali, i comportamenti conseguenti riscontrano successo nella loro fase di adattamento e collocamento spaziale, determinando le nicchie ecologiche nelle quali ogni specie si è evoluta e continua ancora oggi ad evolversi definendo la biodiversità.
Kurt Lewin, pioniere della psicologia sociale, sosteneva che il nostro pensiero fosse il prodotto della interconnessione tra componente genetica ed ambiente di vita; tale concetto lo riassunse nella Teoria del campo del 1951, descrivendo il nostro comportamento come un risultato della interrelazione tra l’unicità della persona stessa e del suo ambiente di vita circostante. Ma per meglio comprendere l’evoluzione dei nostri comportamenti, furono fondamentali gli studi recenti di Vittorio Gallese e della sua equipe di neuroscienziati sui neuroni specchio (ossia una specifica classe di neuroni che si attiva tutte le volte che un individuo compie un azione o vede riproporre la stessa da un altro soggetto), grazie ai quali è stato possibile, tramite le tecniche di neuroimaging funzionale che consentirono di rilevare graficamente le attività cerebrali, constatare concretamente l’importanza del vissuto esperienziale, nel trasformare la biologia del nostro cervello.
Già osservando la modalità a strati con cui si è evoluto per linee generali il nostro sistema nervoso, potremmo avere molte risposte su come esso nel tempo si sia relazionato costruttivamente nell’ambiente. Per esempio l’area dei riflessi e degli istinti necessari alla sopravvivenza e cioè l’antico cervello rettiliano, è sovrapposto dal più recente cervello paleomammifero implicato nei processi emotivi, funzionali alle relazioni sociali, e successivamente dal cervello neomammifero collocato ad uno strato ancora superiore e più evoluto, pertanto specializzato nei raffinati processi razionali e nel linguaggio. Questi tre livelli generali di organizzazione del nostro cervello quindi, non si sono strutturati in maniera fortuita, ma sono la storia dello stretto rapporto tra individuo ed ambiente; oltretutto le tre aree principali del nostro cervello, andrebbero esaminate attraverso un approccio olistico e non riduzionistico, proprio perché esse non possono essere considerate compartimenti stagni, ma aree interdipendenti, sviluppatesi lungo il continuum evolutivo che oggi produce l’infinità di comportamenti più e meno prevedibili, che contraddistinguono noi uomini come specie complessa. Sono le esperienze vissute all’interno di un ambiente in continua metamorfosi, a far si che tutto il nostro sistema nervoso mentre si adatta ad esso, tenta contemporaneamente di plasmarne i contenuti, in una rincorsa adattiva ed egoista, alternata da fallimenti e successi casuali, che pongono l’individuo nella sua unicità, alla perenne ricerca di un’identità precisa.
Ci siamo evoluti con la paura di poterci trovare improvvisamente senza cibo e senza una fissa dimora dove ripararci dal freddo e dai predatori; oggi inconsapevolmente conviviamo ancora con questa paura atavica, che ci relega all’interno di una condizione egoista. L’opportunismo che caratterizza gli uomini nelle società, ha una origine arcaica e biologica, che genera di continuo comportamenti egoisti che sono parte integrante della nostra natura, al punto che diventa quasi impossibile distaccarcene.
In un tempo remoto, per sopravvivere era sicuramente molto più determinante di oggi, riconoscere in maniera quasi automatica i segnali dell’ambiente; i nostri antenati dovevano mettersi al riparo da qualsiasi indicazione che poteva somigliare all’attacco di un predatore o individuare velocemente l’eventuale preda da soggiogare per alimentarsene, prima che essa poteva darsi alla fuga. Questi comportamenti istintivi, che ci hanno permesso di essere competitivi nel nostro ambiente di vita, oggi ci appartengono ancora e ci vengono trasmessi in parte geneticamente, e in parte vengono da noi imitati; essi mantengono la loro matrice adattiva ed egoista e vengono espressi tramite i residui caratteristici dell’evoluzione: condotte quasi mai vantaggiose al bene comune e decontestualizzate, che continuano però da noi discendenti ad essere meccanicamente ed automaticamente riproposte nell’ambiente, ma in forma velata e culturalmente ristrutturata, rispetto alle primitive modalità vincenti di adattamento, da cui esse si sono evolute.
In questo senso la cultura possiamo intenderla come evoluzione dell’egoismo individuale, una ristrutturazione di precedenti modelli egoisti, una modalità esclusiva e condivisa di appagare i bisogni di controllo della casta elitaria di una popolazione. Sta di fatto che proprio attraverso i princìpi sociali e morali su cui si fonda la nostra società, vengono espressi i residuicaratteristici dell’evoluzione, qui intesi come azioni finalizzate a far mantenere lo status di potere su una massa.
L’imitazione di un modello di riferimento o capobranco, nelle prime fasi dello sviluppo di un mammifero neonato, risulta essere un comportamento indispensabile alla sua sopravvivenza nell’ambiente di vita; nel corso della maturità accadrà poi, che mentre alcuni schemi comportamentali innati o appresi, non più necessari all’adattamento egoista verranno abbandonati, altri invece diverranno utilitaristici oltretutto, al fine di poter essere accettato all’interno di una comunità controllante.
Attraverso il ragionamento deduttivo a priori, oggi tendiamo ad interpretare la realtà in maniera economica; usufruiamo di grandi abilità nel sintetizzare i nostri ragionamenti, così come avviene con i pregiudizi e con gli stereotipi, mantenendo sullo sfondo integro l’egoismo che ci spinge all’azione. In genere nel mondo animale d'altronde, l’abilità istintiva di sintesi, mantiene una funzione altamente strategica in termini di competizione per la sopravvivenza e diffusione nell’ambiente.
Tra gli uomini, l’omologazione a cui ci spinge la moda sociale e a cui noi naturalmente tendiamo, al fine di poterci sentire parte integrante di una comunità, diventa un grave ostacolo al sano percorso di individuazione e di analisi critica della realtà e quindi di re-attualizzazione; anche perché gli individui di una società, tanto più sono simili tra loro, a cominciare dal modo di pensare, tanto più essi diventano controllabili e manipolabili da parte di una élite che detiene il potere di accesso diretto ai bisogni considerati necessari.
La nostra società egoista può essere intesa come un circolo vizioso mutante, un fenomeno in cui cambiano i protagonisti ma mai i suoi significati simbolici; una dimensione caratterizzata dalla cieca imitazione di modelli e dalla consacrazione di miti, dalla piena alienazione del singolo e dal suo rinnegamento del sentimento sociale, dall’urgenza di realizzare falsi bisogni, dal perpetuarsi di comportamenti compulsivi ed ipercontrollanti che nel tempo si rigenerano e cambiano forma come virus, tenendo distante l’individuo dalla autentica conoscenza di sé stesso.
CAPITOLO 1
L’EGOISMO TRA PARENTESI
«Potremmo forse conoscere qual è l’arte che migliora l’uomo stesso, se non sapessimo chi siamo noi stessi?».
Socrate
L’oracolo di Delfi, nell’antica Grecia, portava inciso sulla facciata del tempio dedicato al dio Apollo la scritta «gnôthi seautón», che in italiano si traduce «conosci te stesso».
Socrate, uno dei più influenti esponenti della tradizione filosofica occidentale, ne trasse grande ispirazione, ritenendo che solo chi avesse avuto la conoscenza dei propri limiti nel mondo, sarebbe potuto essere definito saggio. Inoltre secondo Socrate, compito del filosofo non era quello di portare al popolo verità assolute, ma stimolare gli uomini tramite il dialogo, affinché da soli rintracciassero la verità incondizionata. Tale processo da lui fu definito: arte della maieutica.
La maieutica metaforicamente è anche detta l’attività della levatrice, poiché tramite essa, il buon filosofo non condiziona le idee del popolo con la sua arte retorica, ma fa in modo che in esso le idee si compiano autenticamente ed autonomamente, allo stesso modo di come fa una levatrice che assiste una madre durante il parto. Seguendo il metodo socratico, ogni esperienza nel mondo, può avere in sé la funzione di esortare gli uomini a spendersi in riflessioni e pensieri, che generalmente non appartengono al loro uso quotidiano, stimolando la creatività. In questo modo è possibile adoperarci affinché le certezze di cui disponiamo quasi in modo automatico, possano essere abbandonate, iniziando ad approcciarci alle cose che ci circondano da perfetti principianti; questa prova di umiltà sarà determinante per accedere all’autentica conoscenza di sé stessi.
Iniziare a pensare in modalità alternative rispetto a come generalmente avviene è dispendioso in termini di energie mentali, ma sicuramente offre in cambio due opportunità: la prima è quella di non omologare i propri pensieri a quelli già prevalenti e in uso all’interno di una cultura; la seconda è quella di fare esperienze attraverso nuove prospettive da dove poter osservare il mondo.
Epoché è un termine composto dalle parole greche antiche epì, che in italiano si traduce sopra, ed achei, ossia tenere; per questo motivo epoché si riferisce generalmente a tenere al di sopra o trattenere il proprio giudizio dai fatti del mondo. Nei primi del Novecento il filosofo Edmund Husserl, con il concettodi epoché fenomenologica, indicò la possibilità che ognuno di noi può avere, di mettere tra parentesi le abitudini della propria vita, responsabili per altro, di non lasciarci rapportare al mondo con la necessaria obiettività e il debito distacco.
La nostra relazione verso la realtà, può diventare analisi critica, solo al momento in cui noi stessi saremmo disposti a metterci in gioco, a lasciarci attraversare da eventi, teorie e fatti narrati senza avere a monte alcun preconcetto, astenendoci quindi dalla nostra predisposizione a formulare giudizi a priori.
Nella corrente letteraria naturalista di fine Ottocento per esempio, lo scrittore aveva il compito di trattare la realtà così come appariva innanzi ai suoi occhi, facendo in modo che fossero gli stessi fatti narrati a commentarsi da soli, senza nessun altro filtro d’intermezzo.
Un tale stile narrativo può risultare freddo ed asettico, in particolare a quei soggetti abituati a fidarsi delle interpretazioni della realtà fatte da altri o da loro stessi per mezzo di preconcetti, al fine di assecondare il loro bisogno intrinseco di rendere il mondo circostante meno imprevedibile e più controllabile.
Certamente sarebbe una missione impossibile quella di approcciarsi al mondo in maniera assolutamente libera da condizionamenti ambientali, tuttavia possiamo provare ad essere consapevoli di quello che succede quando entriamo in relazione nell’ambiente, attraverso la meta-analisi; anche questo è un termine di etimologia greca, composto dalla preposizione meta che in italiano si traduce oltre, ed anàlisys che si riferisce alla scomposizione in elementi semplici. Un’analisi dell’analisi di ciò che ci accade giornalmente, considerando tutti limiti delle