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Fango sull'anima
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E-book479 pagine4 ore

Fango sull'anima

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Info su questo ebook

Un viaggio molto particolare.
Un viaggio dentro il vero Bangladesh.
La visita in diversi quartieri operai, miseri e squallidi, con i piedi quasi sempre immersi nell’onnipresente fango.
Le cene e i pranzi condivisi con famiglie poverissime, ospiti nei loro microalloggi.
Gli spostamenti sulle strade caotiche e senza regole.
L’incontro con alcuni malati negli ospedali pubblici, descritti nel loro spettacolare squallore.
La visita a diverse scuole - alcune disperse nella giungla, altre schiacciate tra i palazzi della metropoli – finanziate dalle missioni, e l’incontro con gli scolari e le maestre.
Il libro descrive gli innumerevoli incontri con la popolazione locale, poco avvezza alla vicinanza con gli occidentali.

Il viaggio nel viaggio.
Il libro descrive anche il viaggio dentro la povertà dell’animo umano.
Il Bangladesh, paese poverissimo e eccessivamente popolato, offre uno spaccato di un’umanità che lotta per la sopravvivenza, in modo difficilmente comprensibile per chi vive in Europa.
Una sola regola, quella del più forte, a dominare la vita dei bengalesi.
Il lavoro nelle fabbriche con condizioni paragonabili, in Europa, a quelle degli inizi del ‘900.
La schiavitù senza speranze dei conducenti di Risciò (Riksha).
La vita sempre uguale dei contadini delle campagne.
L’islam qualche volta capace di essere intollerante.
Corpi violati e abbandonati urlanti sulle strade di Dacca per raccogliere la carità dei passanti.
Donne rovinate nel viso e nell’anima dall’acido, versato sul loro viso da mariti e padri in un Paese dove la donna ha ancora troppi pochi diritti.
Il protagonista incontra e si scontra con tutte queste realtà e ne discute, anche animatamente, con alcuni missionari.
Dalle discussioni e dalle riflessioni nascerà una nuova consapevolezza. Il protagonista riuscirà a dare un nuovo significato alla parola Libertà. Un significato universalmente valido, nella povertà come nella ricchezza. Una libertà che mette al centro l’essere umano. E che lascerà l’autore con un nuovo dilemma: che fare della propria libertà? Che fare della propria vita?
In questo viaggio l’autore fa i conti anche con i valori cristiani che hanno segnato la sua infanzia, scontrandosi ancora una volta con l’ipocrisia della chiesa che quei valori vorrebbe rappresentare.
LinguaItaliano
Data di uscita6 ago 2013
ISBN9788868552374
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    Anteprima del libro

    Fango sull'anima - Michele Vanzulli

    FANGO SULL’ANIMA

    Michele Vanzulli

    TU NON PUOI FARCI NIENTE

    Non puoi decidere se pioverà o meno.

    Tu non puoi farci niente.

    Ma quando piove, se hai un ombrello, se lo apri, sopporterai meglio e quando il sole tornerà a splendere sarai pronto a goderti i suoi raggi.

    E potrai decidere se sotto il tuo ombrello ospiterai qualcuno che l’ombrello non ce l’ha, mentre la pioggia gli sta entrando nelle ossa, fino a fargli male.

    Ecco il nostro potere. Possiamo aprire il nostro ombrello anche per qualcun altro.

    Ognuno lo può fare con il proprio ombrello.

    Ma abbiamo anche un altro potere. Quello di unirci e andare sotto la pioggia con tanti ombrelli, offrendo riparo a molti.

    Ma quello che tentiamo di fare qui è aiutare le persone a procurarsi il proprio ombrello e poi guidarle ad offrire col cuore un passaggio a chi l’ombrello ancora non ce l’ha.

    Perché comunque continua a piovere.

    E tu non puoi farci niente.

    A tutti quelli che sono alla ricerca del significato della propria esistenza

    A Katia, perché non si stanchi mai di cercare

    A Lara e Luca, perché possa essere utile alla loro crescita

    Al coraggio del cambiamento, dentro il cuore di ognuno

    Un grazie particolare a Giovanni

    CAPITOLO 1 – Acque tumultuose

    I pullman si muovono sfacciati, lottano e vincono. Dominano nella quotidiana guerra che ogni giorno si combatte per le strade del Bangladesh.

    Sferragliano sui congestionati viali della capitale, aprendosi la via con le urla dei butta dentro e con gli infiniti colpi di clacson dell’autista.

    Sfrecciano sfiorando persone e riksha (NOTA 1), biciclette e caprette, lungo le strade che, tra buche e inondazioni, collegano Dacca con i remoti villaggi immersi nel verde.

    Ogni pullman parte all’alba, anzi, prima dell’alba, quando ancora i primi raggi di sole non hanno cominciato a riportare la luce sulla vita difficile e combattuta di milioni di bengalesi.

    A bordo del pullman l’autista, il butta dentro e il bigliettaio.

    L’autista è un guidatore abile, impavido e audace.

    È un lottatore.

    Si fa strada nel traffico senza regole di Dacca e sa di avere un vantaggio.

    La forza delle dimensioni.

    Come uno squalo, naviga nel mare di furgoncini, auto, bici, riksha sapendo di essere un pesce grosso, vorace, temuto da tutti e senza altro avversario se non i propri simili e qualche grossa orca marina, quei maledetti camion indiani, vecchi, lenti e puzzolenti, ma in caso di impatto sempre capaci di dire la loro.

    L’autista è unito da un filo invisibile con il suo secondo, il butta dentro.

    E dimenticate i bus delle città europee, quei bus che hanno il vezzo di fermarsi solo in posti predeterminati e riconoscibili nonché la strana abitudine di seguire un itinerario prestabilito.

    In Bangladesh si parte da un posto per arrivare in un altro, ma qui finiscono le certezze.

    Il pullman viaggia con la porta di accesso sempre aperta. Spesso la porta proprio non c’è.

    E lì, appeso a qualche misterioso accrocchio, sta il butta dentro.

    Si sporge dalla porta con quasi tutto il corpo e urla la destinazione mentre il bus si avvicina a capannelli di persone ferme sul ciglio della strada.

    Poi urla all’autista, che rallenta e, a volte, si ferma.

    Allora la gente, come un fiume ribollente, sale e scende, mentre il pullman scoppietta nella breve attesa.

    E riparte non appena il rimbombo di qualche manata, assestata dal butta dentro sulla malconcia carrozzeria, arriva alle orecchie dell’autista.

    Le manate sono un codice. L’impavido autista ed il suo secondo comunicano così, con urla e cazzotti sulla lamiera del già malconcio torpedone.

    E mentre il mondo intero si riversa nella pancia del bus, inizia la sinuosa attività del terzo.

    Il bigliettaio.

    Si apre la strada nello stretto corridoio del pullman, sempre pieno all’inverosimile.

    Non sapresti dire come, ma scivola tra le persone accalcate e si fa consegnare l’obolo per avere il diritto ad essere scarrozzati su quelle strade infide e pericolose.

    E ti chiedi, come farà a farsi pagare dai passeggeri aerei?

    Si, quelli che viaggiano sul tetto, lanciandosi all’arrembaggio delle scale laterali e, dopo aver scalato la fiancata dello squalo, si acquattano in quegli angoli dotati di ampia vista sul mondo che scorre, angoli alquanto affollati e, certamente, assai pericolosi.

    Eppure si viaggia così. Anche per ore. Macinando chilometri, sobbalzando a ogni buca e a ogni dosso e aggrappandosi a ciò che si riesce se capita una frenata più forte del dovuto.

    In alcuni bus, però, esiste un luogo di tranquillità. È la zona riservata alle donne.

    Già, perché le donne non da molto possono andarsene in giro da sole.

    Quel posto è li davanti, di fianco all’autista.

    Tre, sei posti, messi di traverso rispetto al senso di marcia.

    Una ghettizzazione, certo. Ma che dà diritto ad una relativa pace, nella pancia di quello squalo sempre sconquassata da decine e decine di corpi accalcati e sudati.

    E poi non è obbligatorio mettersi lì, per le donne.

    Non più. Ma se quei posti esistono, qualche donna ci si siede.

    Tra loro quel giorno ne sedeva una.

    Una ragazza, forse.

    Coperta, drappeggiata con un lungo vestito nero.

    Un vestito che le nascondeva ogni parte del corpo, lasciando scoperti solo due occhi rapidi e curiosi.

    Davide era seduto nella pancia dello squalo.

    Come sempre, la sua presenza diveniva un interessante diversivo nella giornata dei bengalesi che lo incrociavano.

    Con la sua pelle chiara, i lineamenti europei, i vestiti all’occidentale.

    Era come un marziano che serenamente camminava tra stuoli di terrestri incuriositi e sorridenti.

    Il Bangladesh non è una meta turistica.

    E i bengalesi non hanno il sacrosanto diritto di emigrare, uscire, vedere il mondo.

    Il passaporto, per loro, non è un diritto.

    Lo puoi avere se hai studiato. Ma studiare, in Bangladesh, è ancora affare per pochi.

    Davide non passava quindi inosservato. Era una rarità. E lo si vedeva.

    E un europeo che sale su di uno squalo è merce ancora più rara.

    Quei pochissimi che vanno in Bangladesh, dipendenti di ONG, ambasciate, consolati o delle poche imprese che si buttano nell’enorme fabbrica che sta diventando quel lontano paese, sfrecciano a bordo di auto o pullmini privati.

    Ma Davide voleva vivere il Bangladesh.

    Non vederlo scorrere dal vetro di un finestrino.

    E quella mattina aveva preso il bus.

    Lui, Nicola e Padre Francesco stavano andando a fare visita a una famiglia. Li aspettavano per pranzo. E i due italiani non sapevano proprio cosa aspettarsi da quell’incontro.

    Dobbiamo scendere annunciò Francesco.

    Davide e Nicola guardarono fuori dai finestrini. Non si capacitavano di come Francesco potesse distinguere un posto da un altro. A loro sembravano tutti uguali.

    Grandi marciapiedi pieni di un’umanità multicolore e disordinata.

    Botteghe in lamiera e legno.

    Terra e fango ovunque.

    Andiamo, fece eco Davide, alzandosi e facendosi strada nel congestionato corridoio, seguito da vicino dall’amico.

    Dovevano raggiungere la portasempreaperta del bus.

    Ma non era impresa facile. Ogni centimetro del corridoio era occupato da persone curiose e odorose.

    Ma, come d’incanto, piccoli varchi si aprirono e i tre arrivarono accanto alla porta.

    Davide precedeva i compagni. Era pronto a scendere, in piedi, appeso a qualcosa di sporgente.

    Il pullman si fermò, con una frenata brusca che fece ondeggiare tutti.

    Una coda, un’immancabile coda.

    Davide allora cominciò a guardarsi in giro. Notò tre donne sedute nella loro zona – ghetto.

    E tutte e tre erano intente a guardarlo.

    Come tutti, come tutte.

    Due avevano i capelli nascosti da un foulard colorato, ma qualche ciocca se ne andava qua e là, ondeggiando al ritmo del pullman, che lentamente aveva ripreso la sua marcia. Per poi fermarsi subito.

    Una delle tre era decisamente più coperta. Ed era vestita di nero, senza colori, quei colori che dipingono una nazione spesso triste e una città solitamente grigia.

    Solo gli occhi erano scoperti. E guardavano Davide. Con timidezza. Con curiosità.

    Tutte le donne lo stavano guardando.

    Ma il viso delle altre due, pieno di curiosità e avido di sguardi, non attirava l’attenzione di Davide come gli occhi della ragazza coperta di nero.

    Davide incrociò lo sguardo con quegli occhi. Per un attimo, un lungo attimo, i due giovani si fissarono.

    Occhi verdi lui, e intorno un mondo aperto e pieno di possibilità.

    Occhi neri lei, e intorno un mondo nero e chiuso, con poche, davvero poche, possibilità.

    I due mondi si stavano osservando, fino a che Davide non distolse lo sguardo.

    Non riusciva a sostenere quello della donna, che da timido e curioso si era trasformato in uno sguardo fiero. Anche se in un angolo, la curiosità era lì, a reclamare il suo ruolo.

    Davide sentì addosso anche gli occhi delle altre due ragazze. Le guardò.

    Le osservò, lasciandosi guardare e studiare.

    Ma era avido degli occhi della ragazza nera.

    E tornò da loro. Con un certo timore.

    Lei lo fissava. Non distoglieva lo sguardo. Neppure per un attimo.

    Occhi vivi. Occhi fieri. Occhi indagatori.

    Davide si chiese cosa stesse pensando.

    Cosa si domandasse su di lui.

    Cosa potessero significare per lei quell’incontro e quello sguardo così prolungato.

    Lei che, con tutta evidenza, era una mussulmana osservante, che viveva in una famiglia osservante, in un paese povero, pieno di tradizioni culturali e religiose che avvolgevano le persone, e soprattutto le donne, in destini già scritti.

    Il pullman non ripartiva.

    E il loro gioco continuò.

    Tra i due era lui che più di frequente distoglieva lo sguardo, come timoroso di invadere un mondo sconosciuto o di creare problemi a quella donna, così immersa negli usi di quel lontano paese.

    Come se il suo sguardo, notato da altri, potesse essere motivo di rimprovero o punizione per lei, che continuava invece a fissarlo, così insistentemente, così stranamente.

    Ma forse erano soltanto sue fantasie. Fantasie di uomo occidentale, pieno di boria e di sicurezze.

    Sicurezze che si sarebbero sgretolate, avvolte dal fango che presto avrebbe ricoperto i sandali di Davide e Nicola, portate via dalla sofferenza di un popolo che, di lì a poco, avrebbe avvolto i due italiani.

    Ora Davide ne era certo.

    Tutti stavano guardando quel gioco di sguardi, e così decise di non giocare più.

    Cercò qualcosa fuori, sulla strada e, fingendo interesse, si mise a fissarlo.

    Ma lo sguardo della ragazza bussava alle sue tempie.

    Chiamava, reclamava attenzione.

    Davide intuiva forse almeno uno dei pensieri della donna. Il pensiero che forse mai più, in tutta la sua vita di donna mussulmana osservante, in un paese mussulmano, poteva ripetersi un momento come quello.

    Ma anche per lui le cose non stavano diversamente.

    Avrebbe voluto rivolgerle un sorriso, scambiare due parole, conoscerla.

    Era curioso. Terribilmente curioso.

    Ma poi?

    I loro mondi erano irrimediabilmente lontani, separati da fiumi straripanti e ruggenti.

    Acque vorticose che portavano tradizioni differenti, culture con poco o niente in comune, lingue reciprocamente incomprensibili

    E su queste acque, pochi e traballanti ponti.

    Come poteva lui avventurarsi su quelle acque, saltare su uno di quei ponti e provare a percorrerlo?

    In pochi minuti? Lì, su quel pullman, sotto gli occhi attenti di tutti?

    Poi venne spinto in avanti.

    Era arrivato davvero il momento di scendere.

    Gettò un rapido sguardo agli occhi della donna. Uno sguardo veloce ma penetrante.

    Avrebbe voluto, con quello sguardo, comunicarle tutto il suo interesse per lei e il suo mondo, tutta la sua curiosità e la sua voglia di conoscere e condividere.

    E così, finalmente, il suo viso si distese, e Davide regalò alla ragazza un sorriso sincero.

    Ma gli occhi di lei rimasero lì, immobili, fieri e severi, a fissarlo, senza ricambiare il sorriso.

    Allora lui distolse lo sguardo, senza provare nulla, nemmeno delusione.

    Scese dallo squalo.

    Due, tre passi, ed ecco raggiunto il ciglio della strada.

    Davide allora si voltò.

    Le tre donne erano girate verso di lui. Lo guardavano.

    Camminava a fatica, arrancando tra una pozzanghera e un cumulo di rifiuti, senza distogliere lo sguardo dal pullman che lentamente ripartiva.

    Guardava le donne.

    Guardava intensamente la ragazza vestita di nero.

    E, quasi a voler rimediare all’inconsistenza di quell’incontro, alzò la mano, in segno di saluto.

    Una delle altre due allora ricambiò il saluto, sollevando il braccio e sorridendo.

    Ma niente, nemmeno un’increspatura nelle ciglia di lei. Solo lo sguardo fisso, uno sguardo che Davide poteva solo immaginare fiero e impassibile, ora che non poteva più sentire da vicino il pungolo di quegli occhi.

    Lo squalo si allontanava sempre più e sempre più strada separava il giovane italiano dalla donna in nero.

    Il fiume scorreva veloce o tumultuoso.

    E ponti, all’orizzonte, proprio non se ne vedevano.

    Cosa possono un singolo uomo e una singola donna di fronte alla forza di quelle acque?

    CAPITOLO 2 – La decisione – Tre mesi prima

    Seduto di fronte al proprio computer, Davide stava lavorando.

    Era maggio e tutte le piante fuori dalla finestra erano in fiore.

    Ma Davide non le stava guardando.

    Era intento a mettere ordine tra i faldoni che, senza un apparente criterio, affollavano la sua scrivania.

    Ad un tratto squillò il telefono, facendolo sobbalzare.

    Nicola, il suo caro amico di mille avventure, voleva parlare con lui. Chiedeva tempo.

    Fissarono un appuntamento per pranzo.

    Poco dopo, alle 13.00 in punto di quella giornata tiepida e soleggiata, Davide e Nicola stavano seduti al tavolo di vecchio rovere nella solita osteria, affacciata sul lungo viale alberato.

    Nicola era davvero strano, appariva eccitato.

    Aveva trangugiato l’aperitivo e parlava, parlava, saltando da un argomento all’altro, senza ordine.

    Davide lo fissava, in attesa che quel fiume disordinato di parole trovasse la propria via verso uno scorrere lento ed ordinato, facile da seguire.

    Ed ecco.

    Vado in Bangladesh

    Ad agosto. In missione

    Cosa? disse divertito Davide, Dove vai? In Bangladesh?

    E a fare cosa? Cosa c’è da fare laggiù? Cosa c’è da vedere?

    Bah. Non lo so di preciso rispose Nicola, incurante del tono canzonatorio dell’amico, Ho parlato a lungo con Francesco. È un missionario che vive da anni là e mi ha invitato a trascorrere qualche settimana con lui.

    E come lo hai conosciuto? domandò Davide, spinto da un’improvvisa curiosità.

    Ad una serata organizzata da amici comuni per raccogliere fondi. Pensa, non volevo neanche andarci. Poi, però, è stato bellissimo.

    Nicola fece una sosta, sorseggiando un po’ di vino rosso, mentre si sporgeva per controllare se la cameriera stesse portando il primo.

    Aveva fame, Nicola. Ma la sua fame per quel viaggio lasciava Davide senza parole.

    Nicola non era mai così avventuroso.

    Amava viaggiare. Ma di solito lo faceva in posti sicuri e confortevoli.

    E quel voler andare in uno dei paesi più poveri del pianeta incuriosiva l’amico.

    E’ stato davvero interessante riprese Nicola, dopo aver gustato il vinello, ascoltare Francesco parlare del Bangladesh e della vita delle persone laggiù.

    Pensa, un paese più piccolo dell’Italia e con quasi il triplo degli abitanti

    E quasi tutti poveri

    Davide conosceva la passione di Nicola per i dati statistici.

    Ma a lui interessavano molto meno.

    La sua mente fu pervasa dalla necessità di porre mille domande.

    Non capiva la propria curiosità, ma la assecondò.

    E dove andresti a dormire? Quante vaccinazioni dovrai fare? Quante ore di volo? E il visto di ingresso? Quanto costa il biglietto aereo?

    E poi: Quanti sono i cristiani? Non è un paese mussulmano?

    Nicola alzò le braccia come per arrendersi e poi, con fare imperioso, portò avanti la mano destra con il palmo rivolto verso Davide.

    Stop! urlò. Ma sei impazzito?

    la risposta alla maggior parte delle tue domande è: e io che ne so?

    Però ci vado. Parto il primo di agosto.

    Cadde il silenzio, sul tavolo di vecchio rovere.

    Le foglie, fuori, ballavano al ritmo del lieve vento primaverile.

    Davide fissava l’amico mentre addentava con voracità la carne cucinata al sangue e sommersa da una montagna di patatine fritte.

    Aveva un viso soddisfatto. Radioso.

    Nicola era sempre stato un tipo tranquillo.

    Non certo uno che di punto in bianco potesse lasciare tutto per qualche settimana ed andare in uno dei paesi più poveri al mondo.

    In testa Davide aveva solo una domanda: perché? cosa spingeva l’amico a fare un viaggio simile?.

    Ma sapeva che non poteva esistere una risposta semplice a questa domanda.

    Il pranzo finì velocemente. Parlando d’altro.

    Nicola uscì senza pensare a pagare e Davide mise mano al portafogli.

    Certo l’amico aveva la mente da tutt’altra parte.

    Nicola era alto e calvo. Ma se avesse avuto i capelli probabilmente in quel momento ci avrebbe infilato le dita arrotolandone i ricci.

    Si salutarono dandosi appuntamento per uno dei giorni seguenti.

    Davide guardò l’amico allontanarsi.

    Arrivato all’angolo, in fondo alla via, Nicola si girò e salutò sventolando la mano destra.

    Poi svoltò l’angolo del viale alberato.

    Una foglia si staccò dalla pianta accanto a Davide.

    Sospinta da un soffio di vento cominciò a volteggiare e Davide si perse in quella danza sinuosa, osservandone l’inesorabile caduta.

    Lentamente, volteggiando a destra e poi a sinistra, la foglia raggiunse il suolo.

    Davide pensò alle mille foglie che ogni stagione cadono senza che lui si fermasse a osservarle.

    Ma che lui le guardasse, oppure no, le foglie cadevano comunque.

    Anche se era primavera.

    Improvvisamente percepì la propria vita come una vita vuota.

    Si sentiva come quella foglia che, mentre cadeva, nessuno la vedeva.

    La sua vita stava scorrendo e lui era come una fogliolina, anonima, sospinta dal vento, in balia del vento.

    Fu un attimo.

    Cercò nelle tasche il telefonino. Scorse con ansia la rubrica fino a trovare il numero di Nicola e sentì squillare il telefono dell’amico.

    Ma gli squilli si susseguivano a vuoto.

    Poi, finalmente, la voce di Nicola echeggiò nella cornetta.

    Ma non ebbe il tempo di rispondere, che venne investito da tre parole quasi urlate: vengo anch’io!.

    CAPITOLO 3 – Prepararsi

    Davide era seduto al tavolino sul balcone di casa sua.

    Una leggera brezza primaverile faceva ondeggiare i rami e le foglie degli alberi dei giardini vicini.

    Tutto intorno il canto degli uccelli e solo in lontananza il rumore della città.

    Davide stava leggendo fogli ancora caldi di stampante, accumulati in modo disordinato sul tavolo.

    Internet aveva risposto con prontezza e abbondanza alla sua ricerca.

    Digitando Bangladesh erano apparse milioni di notizie e ora Davide le leggeva velocemente, prendendo appunti.

    Aveva anche ordinato una guida turistica sul paese asiatico. Ma l’aveva trovata solo in inglese.

    Neanche hanno sentito il bisogno di tradurre la guida. Incredibile. In Bangladesh non ci va proprio nessuno, aveva pensato.

    Si addentrò nelle pagine di quel piccolo libro pieno di informazioni.

    E si mise a fare un confronto tra l’Italia e quel lontano paese che sopravvive sulle acque del fiume Padma, acque prepotenti ed insidiose.

    L’Italia è grande circa il doppio del Bangladesh. Ma il Bangladesh ha ben 150 milioni di abitanti. L’Italia solo 60.

    I dati cominciarono subito a rincorrersi e a incrociarsi.

    Una cosa era chiara: Davide stava per recarsi in un paese davvero povero e molto, molto diverso dal suo.

    Un paese mussulmano.

    Dove meno dell’uno per cento della popolazione è di fede cristiana.

    Un paese dove l’analfabetismo arriva al 60% e dove il salario medio annuo è pari allo stipendio di una settimana di lavoro di un qualunque operaio o impiegato italiano.

    Ma Davide non percepiva, seduto al suo tavolo, sorseggiando il suo italianissimo caffè, quanto sterili fossero quei dati.

    Non aveva idea di quanto quel mondo, così lontano e diverso, avrebbe inciso nel profondo del suo cuore.

    Non cifre, ma persone.

    Non carta, statistiche, dati, ma vita toccata con mano, qualche volta addirittura condivisa.

    Intanto aveva fatto il biglietto aereo, ingurgitato le pastiglie delle vaccinazioni e richiesto il visto.

    Si era messo in contatto, grazie a Nicola, con Francesco, il missionario che li avrebbe ospitati durante il loro soggiorno.

    Era pronto.

    O almeno così pensava.

    CAPITOLO 4 – Davide

    Di altezza appena sotto la media, corporatura ben proporzionata, occhi verdi, Davide aveva 35 anni.

    Sfoggiava, sotto capelli arruffati e un po' disordinati, una bella barba sapientemente incolta, con tonalità di rosso e arancio che incuriosiva e che, pensava lui, conferiva un certo tono.

    Insegnava inglese alle scuole superiori.

    Davide era una persona irrequieta, e lo si vedeva da come si muoveva, da come parlava.

    Sempre in movimento, in ogni istante inondava il mondo con un fiume di parole.

    Alla sua età non si poteva certo dire che avesse deciso cosa volesse fare da grande.

    Certo insegnava. E amava quel lavoro.

    Ma ancora non vi trovava la sicurezza economica di cui aveva bisogno.

    Ancora non vi trovava l'ambiente idoneo ad accogliere la sua voglia di fare, di organizzare, di migliorare il mondo che lo circondava.

    Tutto era così relativo. Tutto così ingessato e burocratizzato.

    Davide era socio di diverse organizzazioni umanitarie e spesso dedicava il proprio tempo libero a giocare con bambini affetti da disabilità.

    Amava viaggiare.

    Viaggiava appena poteva, in ogni modo, con ogni mezzo.

    Non ultimo, stando sempre in prima linea quando si trattava di accompagnare classi in gita scolastica.

    Soprattutto se si doveva andare in giro per l'Europa.

    Era estroverso e conosceva molte persone.

    Con alcune condivideva i pensieri e sogni.

    Ma mancava quella relazione totalizzante, che gli avrebbe permesso di sentirsi unito con qualcuno.

    Non si sentiva completo.

    Non riusciva a mettere ogni esperienza che riempiva la sua vita nel giusto ordine.

    La sua vita era come un insieme di cubi, spesso belli e colorati, che non si univano mai l'uno all'altro in una costruzione armoniosa.

    Erano piuttosto cubi svincolati l'uno dall'altro e Davide sentiva di avere bisogno di un filo conduttore per farli interagire e costruire quindi un edificio pieno di un complessivo significato.

    Ma mancava qualcosa.

    E Davide sentiva che quell'imminente viaggio in uno dei paesi più poveri del pianeta poteva aiutarlo a trovare quel filo.

    In realtà, lo sperava.

    CAPITOLO 5 - Verso oriente

    Davide era seduto al gate 25 dell'aeroporto di Dubai.

    Nicola, seduto accanto a lui, ascoltava della musica con l'mp3.

    Qualcosa di insolito colpi l'animo curioso di Davide.

    Una hostess della compagnia aerea stava passando da passeggero a passeggero, mentre loro se ne stavano tranquillamente seduti ad aspettare l'imbarco.

    Sceglieva le sue vittime a caso, o almeno così sembrava.

    Una volta individuate, loro non avevano scampo. Il loro bagaglio a mano veniva aperto, sventrato come una balena appena cacciata.

    Mentre la donna procedeva inesorabile, Davide si accorse che cominciava a temere anche per l'incolumità del suo zaino.

    Poi sorrise.

    Non aveva nulla da nascondere.

    Ma soprattutto, Davide lo aveva intuito, la sua pelle pallida lo avrebbe preservato da quella invasiva quanto illegale ispezione.

    Nella sala, oltre a lui e a Nicola, solo una famiglia di americani sedeva in rappresentanza del mondo occidentale.

    Ma il marito e padre di quella famiglia era di chiare origini bengalesi. E portava la sua famiglia in Bangladesh per le vacanze estive.

    Davide osservava le due figlie della coppia. Belle, alte, con lunghi capelli sciolti sulle spalle, intente a picchiettare i tasti del loro tablet.

    Niente di più lontano dalle minute ragazze che, qualche seggiola più in là, si sottoponevano all'ispezione dell'hostess, con i loro capelli coperti e l'atteggiamento compassato.

    Davide vide per la prima volta quella sorta di rassegnazione collettiva che presto avrebbe riconosciuto come carattere distintivo della popolazione bengalese durante tutto il suo viaggio.

    La hostess, intanto, procedeva implacabile nella sua ispezione.

    Passò davanti ai due italiani e, come Davide aveva ormai ampiamente previsto, non fece loro altro cenno se non un cordiale sorriso.

    Le valigie degli altri viaggiatori cadevano invece vittime della donna.

    Una dopo l'altra, venivano separate dai loro rassegnati proprietari per prendere la via della stiva o, nei casi peggiori, di qualche scaffale in un anonimo ufficio di quel modernissimo aeroporto.

    Poi, improvvisamente, il volo venne chiamato e una massa informe di persone, ora più forte del piccolo potere della hostess, si accalcò al gate, ingombrando in modo caotico l'ingresso al braccio meccanico che l’avrebbe condotta a bordo.

    Un fatto colpì Davide più di ogni altra cosa.

    I bengalesi di ritorno a casa avevano fatto il pieno al Duty Free di Dubai.

    E il loro bagaglio a mano si era moltiplicato.

    A bordo non bastarono le hostess a fronteggiare la massa di sacchetti e borse che avevano invaso, neanche troppo silentemente, il velivolo.

    Ci volle anche il responsabile di cabina per riuscire a far sparire tutti quegli improvvisati bagagli negli appositi armadietti.

    E non fu cosa semplice.

    L'aereo ne risentì. O almeno la voglia di sfoggiare puntualità della efficiente linea aerea. Partirono, infatti, con quasi un'ora di ritardo.

    Ma per fortuna in cielo non c'è traffico, e si può recuperare.

    I due amici, in silenzio e divertiti, osservavano tutto quel movimento, quell'ingegnarsi a spostare, incastrare, spingere.

    Mai si erano visti così tanti sacchetti del Duty Free colorare un cabina di un aereo.

    Ma quando arrivarono a Dacca, compresero.

    Piccolo, spoglio, triste, l'aeroporto di Dacca faceva gli onori di casa. O almeno, ci provava.

    Senza grandi risultati.

    Se Davide avesse dovuto pensare a un aeroporto sovietico in epoca comunista forse lo avrebbe immaginato proprio così.

    Tanti soldati, un unico stanzone, tante persone allineate in rassegnate file per il passaggio della dogana, un innaturale silenzio.

    E un Duty Free davvero curioso.

    Una stanza lunga e stretta, là in fondo allo stanzone, lontana da tutto.

    Una stanza percorsa per tutta la sua lunghezza da un unico, grande, tavolo di legno.

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