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E-book318 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Davlova: una città-stato oppressa dalla povertà e governata da un’aristocrazia tirannica. Le risorse sono scarse e la tecnologia è illegale. E nei bassifondi cova la rivoluzione.

Misha è un borseggiatore comune, finché il suo capo non gli assegna un nuovo lavoro. Facendosi passare per una prostituta, Misha viene spedito a lavorare per uno degli uomini più potenti della città. Ma il suo vero obiettivo è molto più pericoloso: avvicinarsi a Miguel Donato, e trovare qualcosa – qualsiasi cosa – che possa aiutare a far cadere il governo corrotto di Davlova.

Misha si immerge nel mondo decadente dell’aristocrazia, dove gli schiavi sono comuni e dove è possibile trovare anche il piacere più perverso. Anche se è sicuro che l’élite di Davlova sia coinvolta in qualcosa di terribile, le prove sono difficili da trovare, e Misha inizia ad innamorarsi dell’uomo che dovrebbe tradire. Poi incontra Ayo – uno schiavo sessuale costretto da un impianto neurale nel suo cervello a provare piacere per il dolore – e tutto cambia.
Mentre gli abitanti della città bassa si spingono verso una rivoluzione sanguinosa, Misha si troverà preso tra i sentimenti inattesi che prova per Donato, il dovere verso il clan e la determinazione di salvare Ayo.

(Warning) La lettura è riservata a un pubblico adulto. Il testo contiene descrizioni di abusi fisici e psicologici.

LinguaItaliano
Data di uscita6 apr 2021
Liberazione
Autore

Marie Sexton

Marie Sexton lives in Colorado. She’s a fan of just about anything that involves muscular young men piling on top of each other. In particular, she loves the Denver Broncos and enjoys going to the games with her husband. Her imaginary friends often tag along. Marie has one daughter, two cats, and one dog, all of whom seem bent on destroying what remains of her sanity. She loves them anyway.

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    Anteprima del libro

    Liberazione - Marie Sexton

    Pubblicato da

    Marie Sexton

    mariesexton.net

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni somiglianza a persone reali, vive o morte, imprese commerciali, eventi o località è puramente casuale.

    Liberazione - Copyright © 2015

    Copyright © 2014 Release di A. M. Sexton/Marie Sexton

    Traduzione di Lucia C. ed Emanuela Graziani

    Cover Art and Design di Reese Dante

    Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma né con alcun mezzo, elettronico o meccanico, incluse fotocopie, registrazioni, né può essere archiviata e depositata per il recupero di informazioni senza il permesso scritto dell’Editore, eccetto laddove permesso dalla legge.

    Prodotto in Italia

    Prima edizione – Ottobre 2015 – Triskell Edizioni

    Ripubblicata – March 2021 – Marie Sexton

    Riconoscimenti

    Ci ho messo quasi due anni a scrivere questo libro e mi ha pressoché uccisa, quindi non c’è da sorprendersi se sono stata aiutata da un bel po’ di gente.

    Heidi, Troy, Sarah, Annabeth, Gia, Rowan, Kristen, e mio marito l’hanno letto durante la sua creazione. (Probabilmente ce ne sono stati anche altri. Scusatemi se mi siete sfuggiti.)

    Ringrazio tutti loro di essersi presi del tempo per aiutarmi.

    Ringrazio ZAM per avermi aiutata a prendere una decisione fondamentale.

    Ringrazio Karin e Kelly per avermi aiutata a dare una forma alla bozza finale.

    Un grazie enorme va anche a Carter per avermi aiutata a raccogliere idee per la soluzione del mio ultimo, piccolo problema pruriginoso con la trama, per aver ascoltato le mie incessanti lamentele e (specialmente) per avermi spinta ad arrivare fino in fondo.

    Probabilmente non avreste questo libro fra le mani (o non lo stareste leggendo sul vostro dispositivo), se non fosse stato per lui.

    Grazie.

    1

    Il Festival era sempre un giorno redditizio per i ladri. La ricca gente tatuata scendeva dalle proprie case a schiera sul versante della collina per festeggiare nelle piazze di Davlova, mischiandosi con noi di umili natali come se ci stesse facendo un favore. Gli animi si eccitavano e la birra scorreva fredda, e mentre il sole compiva il suo arco attraverso il cielo turchese, le opportunità sbocciavano come i fiori di campo nei giardini dei templi. I nati-puri pensavano di possedere la città, ma quaggiù non erano altro che facili prede.

    I bambini dei clan si lavoravano la folla: chiedevano l’elemosina, borseggiavano, individuavano i bersagli per i loro compagni più grandi. Il clan di Anzhéla era presente in gran numero, ma noi preferivamo i vicoli alle strade. Nel profondo dei posti in ombra, tra gli edifici torreggianti di Davlova, molti uomini perdevano la borsa o la vita. Molte ragazze perdevano la verginità, sebbene di solito non di proposito. Le opportunità venivano colte. Le fortune fatte. Ovviamente, per trarre il profitto maggiore, un uomo deve essere pronto a sporcarsi le mani.

    O le ginocchia.

    L’uomo che questa volta mi aveva condotto nel vicolo puzzava di cipolle e figa. Non ero la prima puttana che aveva pagato quel giorno. Sperai per il bene della donna che fosse stato un po’ più sobrio quando era toccato a lei. Non sapevo se fosse per via dell’alcol o perché non gli piaceva quello che stavo facendo, ma ci impiegò più tempo del dovuto. Avevo le ginocchia indolenzite e la mandibola dolorante quando mollò il suo carico.

    Lo guardai tornare barcollando verso la strada mentre si richiudeva la lampo dei pantaloni sopra la sua pancia grassa e fischiava tra i denti, troppo ubriaco per evitare i mucchi di robaccia nel vicolo. Non mi preoccupai di seguirlo. Li facevo sempre pagare in anticipo, in parte perché avevo imparato a mie spese quanto potesse essere impossibile ricevere il denaro da uno sfigato dopo che era venuto, ma anche perché mi dava la possibilità di vedere da dove il bersaglio tirava fuori i soldi. E mentre stavo in ginocchio con il suo cazzo in bocca e le sue mani fra i capelli, di solito riuscivo anche a sentire quanto fosse spesso il suo portafoglio. Quel tizio era ricco sfondato. Dalla tasca posteriore gli spuntava fuori un pezzo di stoffa viola, che segnalava la posizione del suo portamonete, marchiandolo per il mio clan.

    Non hai idea di quanto finirà per costarti quel pompino.

    Il suo portamonete era ancora al sicuro nella sua tasca, ma non per molto. Non era una buona idea che ne scoprisse la mancanza non appena uscito dal vicolo, perché poi avrebbe capito che ero stato io. Non avrebbe dovuto far altro che prendere una delle guardie della città e indirizzarla verso di me. Il metodo della nostra squadra garantiva che non avrebbe mai saputo chi gli aveva preso il denaro. Ma uno degli altri lo avrebbe trovato durante il pomeriggio. Avrebbe aspettato che usasse il portamonete ancora una volta, poi gli si sarebbe avvicinato furtivamente alle spalle e glielo avrebbe sfilato, liscio come la seta.

    E i soldi che mi ero fatto nel vicolo? Quelli potevo tenerli per me. Il portamonete rubato e il suo contenuto sarebbero andati ad Anzhéla, ma lei non ci portava rancore per un po’ di attività personale extra.

    Mi strofinai la faccia, cercando di liberarmi dell’odore di lui e della donna che si era scopato prima, ma si era appiccicato alla mia pelle. Nemmeno la puzza di putrido e piscio del vicolo sembrava poterlo battere.

    «Signore, ha un penny per me?»

    Mi voltai e vidi un bambino, con la sua piccola mano sporca tesa verso di me. Probabilmente aveva meno di cinque anni ed era più magro di quanto dovrebbe essere qualsiasi bambino della sua età. Il suo stomaco stava iniziando a gonfiarsi a causa della fame. Sfortunatamente non era l’unico in quelle condizioni. Non qui nei fossati.

    Sospirai interiormente e diedi un’occhiata in giro, esaminando gli angoli più riparati e gli ingressi incassati intorno a noi, cercando altri disgraziati. Era possibile che avesse degli amici. E anche se non li aveva, potevano esserci altri mendicanti nei dintorni. Se avessi dato qualcosa a uno di loro, mi sarebbero stati tutti addosso. Avevo già abbastanza poco di mio. Ma l’unica persona che vidi era in fondo al vicolo, avvolta in una coperta tra due mucchi traballanti di spazzatura, e o stava dormendo o era morta.

    Tornai a guardare il bambino che mi stava osservando con gli occhioni sgranati. C’era sempre la possibilità che mi stesse ingannando e che lavorasse per un clan. Ma no. Un mendicante addestrato avrebbe notato la mia esitazione. L’avrebbe sfruttata a suo vantaggio. O, meglio ancora, avrebbe aperto i rubinetti e si sarebbe messo a piangere. Ma quel bambino non lo fece. Non si aspettava che lo aiutassi. Sembrava sconfitto.

    Quando si trattava di adulti, riuscivo a ignorarli. Ma era più difficile con i bambini. Forse perché una volta c’ero stato io al loro posto.

    Frugai nella tasca e tirai fuori un po’ di ferro.

    «Tieni.» Glielo posai sul palmo.

    «Grazie, signore…»

    «Non sono un signore. Ascolta, conosci il vecchio teatro, giù dopo Roxy Lane?»

    Inclinò la testa, pensando. Nel frattempo, la moneta era ancora nella sua mano, il braccio teso davanti a lui. Sarebbe stato un bersaglio facile per qualsiasi bambino dei clan. Ma non dopo esserlo diventato a sua volta. Allora avrebbe imparato. «È quell’edificio con i mostri sul tetto?»

    «È quello. Vai laggiù. Resta lì davanti per un po’. Vedi che succede.»

    Era confuso dalle mie parole, ma era tutto ciò che ero disposto a fare. Certo, avrei potuto portarcelo io stesso. Ma c’erano dozzine di altri bambini per le strade che non avevano ancora trovato un clan. Forse centinaia. E altrettanti che stavano già lavorando per una squadra. Nemmeno Anzhéla poteva salvarli tutti.

    Finalmente emersi dalle fredde ombre del vicolo nel chiasso vivace del festival. Jabin mi stava aspettando dall’altro lato della strada. Non parlammo, ma gli feci il segnale che significava tutto bene. Si toccò la falda del cappello indicandomi di aver capito e tornò a lavorarsi la folla.

    In apparenza, il festival di quell’anno sembrava come tutti gli altri. La temperatura si stava alzando. I mattoni bianchi che pavimentavano le strade erano abbastanza bollenti da poter cuocere delle frittelle dolci. La piazza era un forno aperto, ronzante di mosche, intasata di persone e puzzava di sudore e birra e delle salsicce vendute da mercanti unti e grassi. Le donne nate-pure, in vestiti riccamente ornati, spingevano i loro bambini tra la folla. Gli schiavi e i servi si trascinavano dietro di loro. I mariti stavano in gruppi, a fumare sigari stranieri e a ridere rumorosamente per battute private.

    Ciò che quei buffoni tatuati non sembravano notare era il sentore di odio e di risentimento che ribolliva sotto i loro nasi. Le risposte infuriate dei mercanti. L’ostilità delle puttane. Le lamentele ovunque sul fatto che vivevamo nel sudiciume e nello squallore perché a quei bastardi privilegiati piaceva così. La piazza era stata ripulita dai rifiuti e dalla merda di cavallo per il festival, ma era disseminata di quadrati di carta di un giallo vivace, come coriandoli fuori misura. Se uno qualsiasi dei nati-puri si fosse preoccupato di leggere ciò che dicevano quei volantini, si sarebbero ritirati di corsa dietro il loro muro e avrebbero serrato i cancelli. Avrebbero raddoppiato la guardia. Sicuramente non sarebbero stati così arroganti, o così espliciti nel loro disprezzo.

    Mezz’ora e due portafogli dopo, individuai di nuovo Jabin. Era appoggiato a un muro, all’ombra, e mi osservava con un’intensità che significava che voleva parlarmi. La cosa mi sorprese. Io e Jabin ci guardavamo spesso le spalle l’un l’altro quando lavoravamo, ma preferivamo farlo separatamente.

    Mentre mi facevo strada tra la folla per avvicinarmi, lui tirò fuori una sigaretta dalla tasca e se la portò alla bocca. «Ne hai già letto uno?»

    Non avevo bisogno di chiedere di cosa stesse parlando. «Ovviamente.»

    «Questi ricchi cazzoni non ne hanno idea, vero?»

    «Probabilmente no.» Il festival era l’unico giorno dell’anno in cui il denaro dalle colline arrivava in gran quantità fin dentro ai fossati. Chiunque stesse stampando quei volantini pensava che fosse ora di fare qualcosa contro quello squilibrio. Sempre più spesso gli uomini mascherati, con indosso tuniche gialle, stavano agli angoli delle strade a predicare contro la collina e il Consiglio che governava Davlova. Quando erano apparsi la prima volta, un anno prima, la gente si era messa a ridere all’idea della rivoluzione. Ma sia il cibo che il lavoro erano diventati insufficienti. I ladri erano più diffusi e i peggiori indossavano le uniformi della guardia cittadina. Negli ultimi tempi, nessuno rideva più al pensiero di una rivolta.

    Tirai fuori un accendino dalla tasca, lo aprii con un colpetto e lo accesi. Solo pietra focaia e una rotella, così non violava il divieto contro la tecnologia. Avvicinai la fiamma a Jabin in modo che potesse piegare la testa verso di essa. Era tutta solo una copertura. Era un rischio parlare dove tutti potevano vederci, e la sigaretta ci dava una scusa per farlo, anche se sarebbe stata una cosa veloce. La prima regola del clan di Anzhéla era non farti beccare. La seconda regola era non fatevi beccare insieme.

    «Che succede?» chiesi mentre chiudevo l’accendino con uno scatto.

    Si riappoggiò contro l’edificio e buttò fuori il fumo. «La boss ha bisogno di vederti. Messaggio consegnato. Sbrigati.»

    «È ancora presto. Ci sono un sacco di portamonete da fregare.»

    Alzò di nuovo le spalle e fece cadere la cenere con un colpetto. «Sono solo il messaggero.»

    Così passai attraverso la folla e mi sbrigai, come aveva detto Jabin. Anzhéla non inviava spesso messaggi per le strade. Era più sicuro aspettare fino a quando non ci fossimo tutti radunati a casa. Aveva suscitato la mia curiosità, anche se non così tanto da non prendermi qualche minuto lungo la strada per liberare un paio di portafogli belli pieni dai loro padroni ubriachi. Niente trucchi nei vicoli, questa volta, niente segni per il clan. Solo un borseggio rapido mentre li superavo. Dopotutto, non volevo che le mie abilità si arrugginissero.

    Guardai in tutti i vicoli mentre passavo, in guardia contro altri ladri o membri di clan rivali nascosti nelle ombre degli edifici o dei bidoni della spazzatura. La piazza era un territorio libero ma, nei fossati, camminare sulla parte sbagliata della strada poteva causare una rissa. Tenni la mano vicino al coltello sul mio fianco. Però la fortuna era con me. O forse era soltanto che tutti i ladri stavano lavorando più vicino al festival. Vidi molta gente disperata, ma nessuno che sembrava bramoso di mettermi alla prova.

    Mi sentii sollevato quando finalmente arrivai a Roxy Lane.

    Anzhéla gestiva il suo gruppo da un teatro. Facevano perfino degli spettacoli. Era davvero una buona facciata. Ovviamente il suo piccolo clan di ladruncoli era solo un minuscolo pezzo del suo puzzle. Lavoravo per lei da quando avevo dieci anni. Da quasi tredici anni, ormai, e stavo scoprendo solo ora quanto era vasta la sua influenza. Anzhéla era una donna potente, che i buffoni sulla collina lo sapessero o meno.

    Il bambino che avevo mandato lì quella mattina stava dormendo fuori la porta, raggomitolato nelle ombre contro i mattoni freddi. Gli diedi un colpetto con la punta del piede e lui si svegliò all’istante.

    «Sei tu,» disse.

    «Sì, sono io.» Non era stata mia intenzione essere colui che l’avrebbe portarlo dentro, ma non aveva alcun senso lasciarlo lì fuori, ora che ero tornato. «Seguimi.»

    Non entrai dalla porta principale del quartier generale. Frey mi avrebbe massacrato di botte se fossi stato così stupido. Superai l’edificio, con la sensazione, come sempre, che i gargoyle sul tetto fossero pronti a piombarmi addosso se avessi guardato in alto. Scivolai sotto la recinzione di un ostello malandato, poi attraverso un cancello e dietro a un cespuglio spinoso di rose che non fiorivano mai.

    Sollevai una grata di scarico che in effetti non copriva uno scarico. Feci entrare prima il bambino, poi lo seguii, scivolando giù per uno stretto tunnel fino a una cantina. Da lì, attraversai un corridoio non illuminato e dal pavimento sporco, e alla fine bussai col nostro codice – uno, tre, uno – a una semplice porta di legno chiedendo il permesso di entrare.

    Il nostro covo era deserto in quel momento del giorno. Il ragazzino di guardia alla porta fu l’unica persona che vidi. Lasciai il bambino nuovo con lui e mi incamminai da solo attraverso gli stretti ambienti del nostro nascondiglio fino alla stanza minuscola alla fine del corridoio. Salii una piccola scala a pioli fino a una botola sul soffitto. Bussai di nuovo secondo il codice. Ricevetti in risposta un colpo forte, che significava che la via non era libera. Aspettai, spostando il peso da un piede all’altro. Ora che non ero più sulla strada, al sicuro nella mia casa, di colpo dovevo fare pipì. E non solo, l’odore della puttana precedente del mio bersaglio era ancora tutto sparso sulla mia faccia e sembrò più forte che mai. Resistetti all’impulso di bussare di nuovo. Non ero così ingenuo.

    Alla fine, la botola si aprì e una mano che riconobbi come quella di Frey – tutti quei pesanti anelli d’argento sulle lunghe dita aggraziate – scese dall’apertura per aiutarmi a salire. Emersi in un magazzino buio, e fissai gli occhi privi di allegria di Frey. Eravamo da qualche parte dietro il palco, sulla destra. Dai muri arrivava una musica smorzata.

    «Ci hai messo molto,» dissi a Frey.

    «Fanculo,» rispose lui. Lui, anche se sapevo benissimo che non c’era un cazzo fra le sue gambe, proprio come sapevo che indossava un pezzo di stoffa avvolto intorno al petto per nascondere il seno con cui la nascita lo aveva maledetto. Frey era nato come Freyja, ma avevo visto cosa succedeva agli sfigati talmente stupidi da ricordarglielo.

    «Perché stai facendo la guardia alla porta?» Di solito lo faceva qualcuno più in basso nella nostra strana, piccola gerarchia.

    «Tutti gli altri stanno lavorando al festival.» Frey si passò la mano sulla fronte. Era un gesto che gli era rimasto dai suoi giorni da donna, quando si scostava i lunghi capelli dalla faccia. Ora era rasato e aveva i capelli cortissimi, anche se ciò significava rivelare quegli strani punti pelati dietro l’orecchio destro che suggerivano un impianto neurale.

    Non avevo mai avuto le palle per chiedergli qualcosa a riguardo.

    «Mi è giunta voce che Anzhéla vuole vedermi.»

    Frey indicò col pollice ingioiellato sopra la spalla «Ti sta aspettando nel suo ufficio.»

    Mi fermai in bagno lungo il tragitto, in parte per svuotare la vescica, in parte per pulirmi un po’. I ragazzi nuovi del clan potevano anche mostrarsi davanti ad Anzhéla puzzando come una puttana di strada, ma quella donna mi aveva salvato la vita più volte di quante ne potessi contare. Optai per mostrarle un po’ più di rispetto. Mi strofinai il volto e le mani e usai un po’ d’acqua per domare i miei capelli ribelli dove erano scappati dalla coda. Infine mi incamminai verso la stanza al secondo piano che un tempo era la sala di proiezione, prima del divieto. Ora era l’ufficio di Anzhéla.

    Lì non c’era bisogno di bussare con un codice, né di sotterfugi. Nessuno non ritenuto degno di fiducia sarebbe arrivato così lontano. Bussai solo per farle sapere che ero arrivato, ma entrai prima che lei potesse rispondere con un saluto.

    «Ho sentito che hai bisogno di me.»

    Si potrebbe supporre che il capo di una delle più grosse associazioni a delinquere di Davlova sia grande e forte. Ci si sbaglierebbe. Anzhéla sembrava una sorta di ninfa, qualche anno dopo il fiore della sua giovinezza. Aveva capelli spessi e scuri, che iniziavano a diventare grigi vicino alle tempie, e mani minuscole. Dalle orecchie le pendevano enormi cerchi ornati con delle perline. Quando mi vide, sorrise e si distese sulla sedia per sollevare i piedi, a cui calzava degli stivali, e poggiarli sulla scrivania. «Ho un lavoro per te.»

    «Stavo già lavorando.»

    Arricciò il naso lentigginoso per farmi sapere cosa ne pensava a riguardo. Non importava che fosse tutto per lei. Aveva un sacco di ragazzi che lavoravano sulle strade. A quanto sembrava si trattava di un affare più grosso. «Talia ha bisogno di una puttana.»

    «Pensavo che Talia avesse delle puttane.»

    «Ha bisogno di te.»

    «Io non sono una puttana.»

    «Ora lo sei.»

    Mi sedetti sulla sedia di fronte a lei, una sedia su cui mi ero seduto un migliaio di volte, e cercai di analizzare a fondo ciò di cui aveva bisogno. Sì, mi prostituivo di tanto in tanto, ma non mi ero mai considerato davvero una puttana. Ero un ladro che sapeva come sfruttare al massimo le opportunità che gli si presentavano. C’era una differenza, non importava quanto piccola. Avevo sempre l’ultima parola su chi servire e chi no. E Anzhéla non mi aveva mai detto che era qualcosa che dovevo fare. Mai.

    «Talia ha delle puttane,» ripetei. «Ne ha tutta una casa piena. Ecco perché lo chiamano bordello.»

    «Non essere rozzo. E non discutere.»

    Chinai il capo, ammutolito dallo sbalordimento. Era la prima volta che mi rimproverava così dopo anni. Cercai di capire come ottenere le risposte che volevo senza farla incazzare. «Bene. Vuoi che vada da Talia? Mi stai vendendo a lei?»

    Tolse i piedi dalla scrivania e ci appoggiò i gomiti per fissarmi. Quando alzai lo sguardo, vidi un accenno di compassione nei suoi occhi. «Io non vendo i miei ragazzi. Questo lo sai.»

    «Allora perché io?»

    Abbassò lo sguardo sul registro sotto le sue braccia, giocherellando con il ciondolo che le pendeva tra i seni. Stava decidendo quanto rivelarmi. «Talia ha un cliente,» disse infine. «E io ho un cliente. Il caso vuole che il mio cliente abbia un particolare interesse nel suo cliente, e che il suo cliente abbia un’inclinazione per le puttane esotiche di sesso maschile.»

    Sospirai e mi presi la testa fra le mani. La maggior parte dei cittadini di Davlova aveva gli occhi marroni, la pelle scura e i capelli castano scuro e lucidi. Ma non io. La mia pelle era solo un po’ più chiara della norma, ma la mescolanza innaturale dei geni dei miei genitori mi aveva concesso il dubbioso beneficio di capelli spessi, neri e crespi, e di occhi di un verde intenso. Mi facevano spiccare, il che non era esattamente vantaggioso per un ladro, ma a quanto pare era abbastanza per farmi apparire esotico a qualche sfigato.

    «Non sono una puttana.» Come se ripeterlo un numero di volte sufficiente potesse farlo diventare realtà.

    Lei sospirò. «Misha, so che ti prostituisci.»

    «Scelgo io il bersaglio e ho Jabin o Jimbo nelle vicinanze se ho bisogno di loro. Non è la stessa cosa.»

    «Però sai come farti scopare?»

    Mi sentii arrossire, ma lei non stava facendo la riservata, così ingoiai a fatica e le risposi. «Suppongo di sì.»

    Mi aspettavo che insistesse, ma non lo fece. Non ancora. Invece si alzò e andò verso il buffet sul lato della stanza. Sentii il tintinnio del cristallo. Le gonne lunghe e merlettate le frusciarono intorno alle caviglie coperte da stivali dalla punta d’acciaio mentre attraversava la stanza tornando verso di me. Mi posò di fronte un bicchiere di un liquido ambrato.

    «Bevi.»

    Il bicchiere mi sembrò insolitamente freddo contro la pelle. Lo sollevai e lo annusai. Non era la birra aspra o il vino di mela selvatica che bevevamo noialtri nei fossati. Ma nemmeno whiskey. Era qualcosa di prima scelta e costoso. Qualcosa di cui non conoscevo nemmeno il nome. Aveva il gusto dell’acciaio freddo e mi intorpidì le labbra.

    Anzhéla tornò al suo posto e si appoggiò alla scrivania per studiarmi.

    «È un pesce grosso, Misha. Un pesce veramente grosso. Ho un cliente che vuole delle informazioni, e le pagherà bene. Sono due anni che cerchiamo un aggancio, e finalmente ne abbiamo uno. Tu sei perfetto, non solo per il tuo aspetto, ma perché hai una buona memoria e sai parlare senza suonare come un pezzente. In più, non sei mai stato arrestato.»

    Allungai istintivamente la mano e mi strofinai la nuca, dove le guardie tatuavano dei cancelletti per ogni arresto. La mia era ancora pulita. Niente imperfezioni da vedere per quell’uomo mentre mi scopava. Niente che potesse rivelargli che io ero un criminale.

    «Non posso obbligarti ad andare,» continuò Anzhéla, sfruttando il suo vantaggio, «ma ti sto dicendo: questa è la nostra occasione, ragazzo. Quella che stavamo aspettando. Quella che ci porterà dai fossati alla collina, come abbiamo sempre sognato.»

    «Tutto ciò che devo fare è scoparmelo?»

    Alzò le mani. «Qui non stiamo parlando di una notte, Misha. Questo tizio sta cercando uno fisso, e se riesci a convincerlo ad affidarti quel ruolo, avrai accesso a varie cose.»

    «A cosa?»

    «Alla sua casa? Ai suoi segreti? Non lo so per certo. Ciò che so è che quest’uomo ha dei nemici, e loro sono disposti a pagare per le informazioni. Qualsiasi informazione tu riesca a trovare che potrebbe portare loro un vantaggio.»

    Bevvi un altro sorso di quel liquido. Mi faceva formicolare le estremità, ma sembrava rendere chiarissima la mia vista.

    «Questa prima notte sarà un test, Misha. Non so cosa succederà. Non so cosa ti farà. Se è troppo tremendo, puoi andartene domani, lo giuro, il cielo mi è testimone. Ma se puoi tenere duro...»

    Avrei avuto un biglietto per uscire dai fossati. Via dai vicoli pieni di rifiuti e di disgraziati. Via da una vita di furti e prostituzione per far quadrare i conti.

    Anzhéla mi guardava. Bella come

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