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L'indotto indecente
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E-book381 pagine5 ore

L'indotto indecente

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Info su questo ebook

L’autore Rosario Ocera ci presenta dei racconti di fabbriche, sulle fabbriche,
dalle fabbriche; spaccati di una realtà che non è più e di quella che è poi
diventata, avventure urbane di operai e ricercatori, tra spensieratezza e
tristezze, personaggi sempre degni di nota, persone prima che personaggi,
vite vere trasportate con la capacità di indagare di un vero scrittore.
Tra routine e fatica, politica e sotterfugi, economia e sentimenti, si snoda una
storia che fa da cornice a mille storie, fino a definire la Storia, quella di un
periodo importante, quella di adesso.
Ocera ha ricostruito un mondo reale immergendolo nella letteratura, con una
maestria rara per un esordiente, appoggiandosi a una scrittura piana ma non
piatta, mai banale, dove il gusto per la narrazione degli accadimenti si
arricchisce con quello per la scelta lessicale, per una sintassi scorrevole e di
assoluta piacevolezza.
Per tutto quanto finora esposto, sono certo che L’ indotto indecente, sia
un’opera intelligente, che sa affabulare e coinvolgere il lettore.
LinguaItaliano
Data di uscita26 dic 2013
ISBN9788868853334
L'indotto indecente

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    Anteprima del libro

    L'indotto indecente - Rosario Ocera

    Rosario Ocera

    L'Indotto indecente

    UUID: 0b42dc30-6ed9-11e3-8082-27651bb94b2f

    Questo libro è stato realizzato con BackTypo

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    Presentazione

    Prefazione dell'autore

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Biografia

    Presentazione

    L’autore Rosario Ocera ci presenta dei racconti di fabbriche, sulle fabbriche, dalle fabbriche; spaccati di una realtà che non è più e di quella che è poi diventata, avventure urbane di operai e ricercatori, tra spensieratezza e tristezze, personaggi sempre degni di nota, persone prima che personaggi, vite vere trasportate con la capacità di indagare di un vero scrittore.

    Tra routine e fatica, politica e sotterfugi, economia e sentimenti, si snoda una storia che fa da cornice a mille storie, fino a definire la Storia, quella di un periodo importante, quella di adesso.

    Ocera ha ricostruito un mondo reale immergendolo nella letteratura, con una maestria rara per un esordiente, appoggiandosi a una scrittura piana ma non piatta, mai banale, dove il gusto per la narrazione degli accadimenti si arricchisce con quello per la scelta lessicale, per una sintassi scorrevole e di assoluta piacevolezza.

    Per tutto quanto finora esposto, sono certo che L’indotto indecente, sia un’opera intelligente, che sa affabulare e coinvolgere il lettore.

    Davide Roccetti

    Agenzia letteraria Scritture scriteriate

    Prefazione dell'autore

    Questo racconto mi è stato ispirato dalla realtà industriale dell’Automotive Torinese dove per puro caso trovai occupazione alla fine degli anni sessanta e dove ho lavorato bene o male per oltre quarant’anni.

    Durante questo lungo periodo, iniziato da peones e finito come dirigente di scarsa importanza, ho avuto rapporti intimi e continuativi con ben cinque di queste fabbriche, saltuari con un gran numero di altre.

    Tutto questo per fortuna senza infettarmi e contrarre malattie fatali.

    Cosa c’era, guardando dall’interno, in queste imprese?

    Leggendo ciò che racconto, al di la del fatto che si tratta di un romanzo, non si può certo dire che ci fosse gran che da prendere come esempio virtuoso, né tanto meno come modello per il futuro, ammesso che questo mondo riesca a sopravvivere.

    Tuttavia qualcosa c’era e, a distanza di molto tempo, ha acceso la mia fantasia.

    Le descrizioni tecniche che si trovano in questo libro, che sicuramente risulteranno al profano abbastanza curiose se non proprio interessanti, sono indispensabili per entrare in questo circo.

    Così, tutti potranno partecipare alla giostra, ed entrare nel tunnel degli orrori dove appariranno quei mostri, tutt’altro che virtuali, talvolta orrendi e comici o addirittura grotteschi, che appaiono e spariscono in una girandola sorprendente.

    Un contesto affascinante di personaggi stravaganti e di ripetute situazioni stralunate anche se tradotte dallo specchio deformante della narrazione.

    Pur tenendone conto, il racconto potrebbe comunque costituire un inedito contributo per la comprensione dei fattori più intimi che hanno portato al disastro dell’Indotto e dei principali Stilisti Carrozzieri di Torino.

    Ringrazio vigliaccamente qui e subito tutti coloro che, del tutto inconsapevolmente, hanno contribuito alla concretizzazione di questo libro, ma ricordo che ogni riferimento a persone o fatti reali è puramente casuale.

    Tutti gli altri li potrò ringraziare personalmente.

    Capitolo 1

    Era il primo aprile 1969 e il pesce consisteva nel fatto che proprio quel giorno iniziavo a lavorare.

    Per carattere, vedevo ogni novità come una nuova avventura da vivere con entusiasmo.

    Messo piede all’interno dell’azienda, come in un sogno irreale del quale al risveglio non ricordi nulla, ero stato accompagnato da qualcuno attraverso lunghi corridoi fino al reparto dove avrei dovuto prendere servizio.

    Dopo avermi presentato a colleghi distaccati e curiosi nello stesso tempo di cui ricordo vagamente le strette di mano, il mio capo diretto, un certo Dott. Marlo, mi condusse in una specie di sgabuzzino vetrato il cui spazio era quasi completamente occupato da una macchina chiamata Instron. Li c’era anche un tavolo di formica, una sedia e uno scaffale metallico con porte scorrevoli e piano superiore rivestito di vipla verde. Lo scaffale FIAT.

    Io non sapevo ancora che si chiamava così, né sapevo che se ne trovavano in tutti gli uffici e le fabbriche di Torino.

    Credo che li costruisse la Olivetti o una sua consociata.

    Marlo mi disse che ero stato assunto in sostituzione di un altro giovane che si era dimostrato molto molto bravo, ma che si era licenziato dopo solo sei mesi di servizio.

    Mi aveva indicato l’Instron e spiegato che si trattava di un dinamometro multifunzione col quale questo mio predecessore aveva fatto cose meravigliose, andandosene poi senza raccontare a nessuno come si manovrava.

    La misteriosa macchina era quindi l’ultimo acquisto tra le attrezzature del laboratorio e rappresentava un vero gioiello tecnologico dal costo di ben venticinque milioni di Lire.

    Il silenzio che seguì a quest’affermazione lasciava intendere la sua istituzionale preoccupazione sul fatto che io avrei dovuto metterci le mani.

    Lui parlava approfittando delle pause che erano imposte dall’arte di fumare la pipa per scegliere con cura le parole.

    Pensai subito a quel molto molto bravo detto a proposito del mio predecessore: gli era uscito di proposito?

    Ripensandoci poco dopo, sembrava che le sue parole celassero una velata sfida e molta diffidenza nei miei confronti.

    Marlo aveva circa quarant’anni, era alto e aveva un fisico atletico. Ricordava nell’aspetto il classico militare americano con i capelli molto corti e i lineamenti regolari. Le maniche del camice rimboccate evidenziavano l’abbronzatura che si intonava perfettamente con l’orologio subacqueo che portava al polso.

    Molto meno con quella dell’uomo di scienza che mi sarei aspettato di trovare.

    Nello scaffale, continuò, potevo trovare l’intera documentazione tecnica della macchina e probabilmente anche le istruzioni per l’uso ma non ne era certo.

    A quel punto, mi tese la mano come un divo del cinema di fronte ad uno dei suoi ammiratori e gli uscì un sorriso sforzato.

    «Buon lavoro»

    Dato poi un rapido sguardo all’orologio per farmi capire che non aveva troppo tempo per me, se ne andò frettolosamente lasciando dietro di se il forte aroma del tabacco Clan che gli bruciava nella pipa.

    Era il tipo di tabacco che le mogli ti consentivano di fumare in casa perché aveva un profumo gradevole.

    Già, perché allora, oggi a solo pensarci sembra una cosa che fa spavento, più della metà delle persone fumavano e quindi, a seguito dell’espressione di una volontà popolare vincente, si poteva fumare in faccia a chiunque, anche negli uffici pubblici dove, tra l’altro, gli uomini non avevano il problema di ubbidire alle mogli.

    Il personaggio, questo Dottor Marlo, per prenderla sportivamente, più che il mio futuro capo diretto mi era sembrato il capitano della squadra avversaria durante i cerimoniali che precedono un match.

    La stretta di mano era stata qualcosa di simile al rituale di apertura di un incontro.

    Rimasto quindi solo con questi pensieri, vidi che nello stanzino c’era anche un cestino da ufficio per la spazzatura e, sopra il tavolo, appeso al telaio del muro vetrato, un calendario ancora girato al mese precedente.

    Dietro al calendario, di là dai vetri che delimitavano lo stanzino, si vedeva un grande ufficio. Una larga scrivania in legno massiccio con un’alta poltrona di pelle nera da un lato e due più piccole sull’altro.

    La poltrona dirigenziale con lo schienale trapuntato incuteva rispetto anche se il suo proprietario non stava li seduto.

    Sulla scrivania c’erano due telefoni grigi, di cui uno con molti tasti di collegamento, un attaccapanni con porta-ombrelli incorporato e una grande pianta di ficus in un angolo.

    Quello era l’ufficio del direttore tecnico, ovvero Il Dott. Camaleri, di cui mi aveva parlato Detrandi e la cui presenza, in quel momento, era evidentemente necessaria altrove.

    Pensai che l’Instron, quando lui era in ufficio e lo vedeva attraverso i vetri, costituiva lo sfondo perfetto per i suoi pensieri.

    Mi domandai se pure io avessi la stessa funzione.

    Mi avvicinai alla finestra e vidi che si affacciava sul cavalcavia di Corso Francia, trafficato di auto nei due sensi.

    Il rumore giungeva molto attutito e, per un attimo, pensai che quello che si vedeva al di la dei vetri era il mondo del quale facevo parte anch’io fino al giorno prima e che, improvvisamente, era diventato una specie di universo parallelo.

    D’altro canto io stavo andando nella giusta direzione: era infatti per guadagnarmi da vivere che mi trovavo li e qualcuno, alla fine del mese, avrebbe retribuito la mia prestazione d’opera dandomi dei soldi.

    Questa sarebbe stata una gran bella sensazione anche perché da quel giorno sarei diventato economicamente indipendente dai miei genitori.

    Dentro di me si combattevano quindi due diversi sentimenti.

    Da una parte lo stimolo che derivava dall’inizio di una nuova avventura che, in più, corrispondeva a una nuova fase della mia vita e, dall’altra, una certa malinconia per la fine di quella precedente.

    La mia nuova fase era costituita dall’opportunità di lavorare per l’importante azienda Vallino SpA, che, come avevo letto su un depliant, era stata gloriosamente fondata negli anni trenta dall’omonimo Cav. Vittorio Vallino.

    La biografia raccontava che il cavaliere in quegli anni aveva incominciato producendo artigianalmente bocce sintetiche, si, proprio quelle che servono per praticare lo sport preferito dagli anziani e poi, partendo di lì, aveva creato una industria sempre più orientata al mercato automobilistico.

    Questa impresa sarebbe infine diventata addirittura leader nella produzione di volanti, plance portastrumenti, sedili, e anelli di tenuta in gomma per alberi rotanti.

    Sapevo poi, anche se sul depliant non era riportato, che il vecchio cavaliere, a seguito di penosi fatti, era stato recentemente ritirato a vita privata, se così si può dire, e il suo posto era stato preso dal Dott. Grimaldi che ne aveva sposato la figlia e pertanto rappresentava la proprietà.

    Per me invece, al di la di tutto, il numero uno di quell’azienda era sicuramente l’ing. Detrandi.

    L’ing. Detrandi era il padre di Renato che, guarda caso, giocava insieme a me nella squadra juniores di tennis dello Sporting Club Torino.

    Dopo il diploma in Chimica Industriale che io ero riuscito a strappare con i denti ma senza sacrificare le domeniche tennistiche e le serate della musica, mi ero rivolto rispettosamente a lui per fare domanda di assunzione. Avevo ottenendo un:

    «Vedrò che cosa posso fare, in cambio di qualche ora di tennis che tu vorrai dedicarmi la domenica.»

    Così mi disse, scoprendo tutti i denti in una caratteristica smorfia che doveva essere interpretata come un sorriso benevolo.

    Malgrado la mia giovane età, mi ricordo di aver pensato a quanto fosse raro trovare qualcuno disposto a fare qualcosa senza chiedere qualcos’altro in cambio.

    Ingenuamente pensai anche che, forse era meglio così perché, nel caso che le cose si fossero evolute in modo positivo, mi sarei sentito un pochino meno debitore.

    Era evidente che in questa specie di baratto, seppure di valore simbolico, io avrei dovuto pagare in anticipo e così mi adattai a far divertire l’ingegnere più di una volta sui campi rossi del circolo che frequentavamo e che era in ogni suo aspetto il migliore della città.

    Questo luogo, sebbene oggi sia irriconoscibile, rappresenta per me la cornice indimenticabile di quello che è stato, forse, il periodo più bello della mia vita.

    Tanti meravigliosi ricordi sono legati a quel paradiso verde rosso e azzurro che, in seguito, non avrebbe più fatto parte di me.

    Li avevo trascorso le mie ultime vacanze scolastiche estive.

    C’era un folto gruppo di ragazzi della mia età, figli dei soci, e insieme formavamo un gruppo di rompiscatole che animavano i bordi della piscina olimpica giocando con le pistole ad acqua o devastando la quiete delle salette interne della club house dove, per lo più gli anziani, si dedicavano al bridge.

    Noi passavamo le giornate, oltre a rompere le scatole, giocando a tennis, facendo i tuffi e praticando tutti gli sport possibili compreso il calcio, il ping pong e il biliardo.

    Verso sera, negli angoli più nascosti del parco che includeva alberi secolari, facevamo i cretini con le ragazze al suono della chitarra che, in un modo o nell’altro, riuscivamo sempre a far entrare sebbene fosse proibito.

    Io infatti,oltre a rappresentare il circolo nei tornei giovanili, avevo anche un altro ruolo importante. Suonare lo strumento sebbene fosse bandito dalle leggi locali.

    Alcuni di noi, i più scatenati, facevano collezione delle lettere di richiamo ufficiali che il club era tenuto ad inviare a seguito delle proteste dei soci, soprattutto quelli anziani.

    I temuti soci sostenitori e fondatori, alcuni dei quali facevano parte della ristretta cerchia dei probi viri che giovani non erano più e sembravano risoluti nell’impedire agli altri di esserlo.

    Fu così che mi feci le ossa e, senza rendermene conto, avevo già passato da un po’ il testimone a quelli che un attimo prima erano soltanto dei bambini che ci guardavano con ammirazione.

    Giocando con l’ingegnere, sia per il rispetto che lui incuteva, ma soprattutto perché sul campo si potessero realizzare un minimo di scambi, rallentavo molto i miei tiri affinché fossero alla sua portata.

    Fu così che a un certo punto, mentre eravamo entrambi vicino alla rete per raccogliere le palle, lasciandomi assolutamente di stucco, mi disse:

    «Sai, visto da fuori dal campo, mi sembrava che tu tirassi molto più forte!»

    Trascorso qualche tempo da quando inoltrai la domanda di assunzione, una mattina arrivò la chiamata, per cui, sbrigate in fretta le formalità necessarie, eccomi lì.

    Aprii lo scorrevole dello scaffale e questo si scoprì zeppo di fascicoli stampati, cartelline colorate piene di fogli scritti a mano, placchette di gomma, pezzi di schiuma poliuretanica gialla simile alla gommapiuma, minuteria da ferramenta senza senso, il tutto avvolto da un discreto strato di polvere.

    L’Instron, cioè la macchina che occupava quasi tutto lo spazio disponibile all’interno dello sgabuzzino, silenzioso, immobile e incombente, sembrava osservare i miei primi movimenti impacciati.

    D’altro canto, pensai, malgrado la sua sagoma incombente e per la verità un po’ inquietante, si trattava solo di un dinamometro, e cioè un apparecchio che misura le forze resistenti.

    La macchina color grigio, era munita di due grosse ganasce in alto e di due piani sovrapposti in basso: tutto questo mi ricordava quanto avevo studiato a proposito delle misure fisico meccaniche, come, a esempio, il carico di rottura dei materiali e la portanza dei corpi elastici.

    Le ganasce servivano per afferrare i provini di gomma da tirare fino a strapparli e i ripiani per sottoporre altri provini di forma differente a un graduale schiacciamento.

    Una scrivente a pennino, probabilmente, serviva a disegnare dei diagrammi con le misure degli sforzi compiuti.

    Niente a che vedere con le attività di un laboratorio chimico ma questo non rappresentava certo un problema perché, come spesso pensavo, forse la Fisica a me piaceva di più che la Chimica.

    In ogni caso ormai era fatta e, per dirla con linguaggio da studenti, avrebbe trovato ulteriore applicazione la famosa Legge di Deaglio: «Se non entra di punta, entra di taglio!»

    Non ce ne voglia l’illustre professore che in quegli anni era il magnifico rettore dell’università di Torino.

    Conservavo ancora il camice bianco che usavo a scuola durante i laboratori. Di questi mi ricordavo l’odore particolare da farmacia che non se ne andava neppure dopo i lavaggi e che mia madre diceva di sentirmi addosso al mio ritorno, anche se io non me ne accorgevo più.

    Nel laboratorio della Vallino tutti i tecnici impiegati portavano lo stesso camice. Questo fatto mi sembrava stranamente consolante forse perché ero già abituato a quella divisa.

    Gli operai, invece, ce l’avevano nero. In seguito vidi che i capi reparto in fabbrica avevano la giacchetta nera da cavaliere del Lavoro, gli amministrativi erano vestiti civili, qualche volta casual, mentre i grandi capi erano sempre in giacca e cravatta.

    Per fortuna non c’erano militari.

    Tuttavia, fin dai primi momenti avevo avuto l’impressione che la struttura funzionale fosse impostata in modo assolutamente gerarchico.

    L’Instron era completamente ricoperto da pulsanti, levette e spie rosse verdi e gialle tutte al momento rigorosamente spente.

    Pensai che si sarebbero tutte accese quando, come un orribile mostro preistorico di un film di fantascienza, si sarebbe risvegliato con chissà quali conseguenze.

    Molti pulsanti e levette portavano una targhetta metallica nera avvitata con delle scritte in inglese. Ne identificai una particolarmente comprensibile. Portava la scritta on / off.

    Presi un fascio di cartelle dallo scaffale e le depositai sul tavolo. La prima cosa che potevo fare era cercare di trovare le istruzioni d’uso della macchina. Cominciai così a girare i fascicoli dando uno sguardo al contenuto.

    Sebbene lo stato d’animo che mi pervadeva credo potesse essere assimilabile a quello che si prova il primo giorno di prigione nel tentativo di ambientarti nella tua cella, il fatto di di non aver fatto nulla di male e il fascino della novità che stavo vivendo, ne mitigava fortemente gli aspetti negativi.

    I documenti contenuti nelle cartelle erano costituiti per lo più da risultati di prova raccolti in schemi fatti a mano dove erano allineati centinaia di numeri. Questi avevano un senso secondo quanto era riportato in testa alle colonne, e cioè le unità di misura che mi erano note e che ne rendevano decifrabile il significato in senso stretto.

    Mancava sempre, tuttavia, qualsiasi tipo di riferimento alle motivazioni delle prove eseguite, come pure delle osservazioni in merito ai risultati ottenuti.

    Non sarebbe stato facile capirci qualcosa in breve tempo.

    Ripensai ancora al «molto, molto bravo» riferito all’autore di questi lavori imponendomi di non farmi delle idee o trarre apprezzamenti affrettati.

    In breve mi concentrai completamente nell’esame delle carte finché, ad un tratto, ebbi la sensazione di una presenza ancora più incombente dell’Instron che avevo alle spalle.

    Alzai lentamente gli occhi passando dal piano del tavolo alla parete di vetro e sobbalzai lievemente.

    Addossata a questa, proprio davanti a me, appariva una lunga sagoma umana in giacca e cravatta con gli occhi attaccati al vetro e fissi sui fogli che avevo davanti.

    Da seduto mi sembrava gigantesco.

    Per un attimo i miei occhi incontrarono i suoi, ma lui, senza dire parola, si girò improvvisamente verso la grande scrivania dove posò la borsa e, mentre si sedeva, sentii risuonare la sua voce secca.

    «Signora!» disse con tono autoritario

    La testa dell’unica donna che avevo visto nell’ufficio, una signora minuta, già faceva capolino sulla porta.

    «Mi cerchi Carezzi, Granetti, Bertino, Mani, e, al telefono, Gamarra, Vidal e Domaini!»

    Era proprio lui, il Dott. Camaleri.

    Dopo un attimo il suo ufficio era pieno di personaggi, alcuni dei quali mi erano stati appena presentati. Silenziosamente questi si erano disposti a semicerchio, ma non intorno alla scrivania bensì lungo le pareti in vetro dell’ufficio.

    Mi venne improvvisamente in mente, tra tutte le stupidaggini che si dicevano tra studenti, quella che più o meno suonava così:

    «Tutti con la schiena appoggiata al muro, se volete pararvi il culo!»

    Io facevo finta di continuare a lavorare sulle carte che avevo sul tavolo, in realtà ero attentissimo alla scena che si svolgeva proprio di fronte a me e che rappresentava qualcosa di assolutamente inedito.

    Camaleri li guardava in faccia uno per uno.

    «Allora?» Il tono della sua domanda era consono ad una persona abituata a comandare ma, nello stesso tempo, mi sembrava tradisse la forte considerazione che aveva dei suoi collaboratori.

    Nelle mani di uno di loro, apparve improvvisamente il bracciolo della portiera di un’auto.

    «Ecco, dottore.»

    Si avvicinò alla scrivania e rispettosamente glielo porse con una specie di inchino.

    «Ah, fantastico!» Esclamò Camaleri dopo aver incastrato gli occhiali da sole alla sommità della fronte.

    Continuava a rigirare il bracciolo tra le mani, esaminandolo meticolosamente.

    «L’hai messo il DV 1?» Io immaginai che fosse uno dei componenti del materiale col quale era stato realizzato l’oggetto, ma, ciò che mi colpì di più, fu una specie di lampo diabolico che sembrò balenare negli occhi del tecnico.

    «Si dottore!»

    «Ne hai messo troppo!»

    L’esame continuava, ma improvvisamente, fingendo un certo ravvedimento, il tecnico si corresse.

    «No, no, mi scusi, veramente ho messo il DA 23»

    «Fantastico!» lo interruppe Camaleri che si era reso immediatamente conto del tranello nel quale era cascato, poi, vanificandone ogni effetto, subito continuò:

    «Siamo sulla buona strada!»

    Rivolgendosi quindi ad un altro dei presenti che aveva indicato utilizzando il bracciolo stesso come un bastone:

    «E tu?»

    «Ecco la relazione delle prove della settimana scorsa.»

    L’interpellato si avvicinò al tavolo e gli porse alcuni fogli scritti a mano.

    Pensai che era solo il mio primo giorno di lavoro e tutto era già talmente speciale.

    Contrariamente a quanto avevo pensato prima, ero io che attraverso i vetri assistevo ad un film o ad una strana rappresentazione teatrale nella quale, sebbene fossi in bella vista, era come se stessi dietro le quinte. Per il momento non partecipavo alla rappresentazione se non come semplice comparsa.

    Camaleri intanto guardando i fogli che gli erano stati consegnati, si era alzato e si era avvicinato a Carezzi.

    Alzati nuovamente gli occhiali tra i radi capelli neri e le so-pracciglia folte e sottolineando la sua contrarietà con una eloquente smorfia, esclamò:

    «Ma che calligrafia… qui non si capisce niente!»

    Poi, allungando di scatto i fogli a quello dei presenti che gli era più prossimo:

    «Guarda, capisci tu?»

    «Ma, dottore, io… veramente, si» balbettò l’interpellato, ma, prima che potesse cominciare, come sembrava, a leggere, Camaleri, che gli si era posto aggressivamente di fronte improvvisamente gli strappò i fogli dalle mani sibilando:

    «Per forza. Tu, scrivi come lui!»

    In quel momento il telefono sul suo tavolo squillò.

    Alzata la cornetta, lentamente ritornò a sedere, poi improvvisamente gridò:

    «Oiga! Aqui es el dottor Camaleri. Chiero ablar con el segnor Gamarra! Non està? El segnor Vidal? Como non està? Garcia?»

    Contemporaneamente, rivolgendosi ammiccando ai presenti: «Es claro. Son los sinco de la tarde, y son todos in Plaza de toros!»

    Scaraventò quindi giù il telefono, che subito risuonò.

    «Oh, Domaini, buonasera.»

    Il tono della sua voce era cambiato completamente diventando quasi suadente e poi, dopo aver tappato il microfono della cornetta con la mano, rivolto ai presenti ordinò:

    «Fuori tutti!»

    La telefonata proseguì a lungo, ma il volume della sua voce era bassissimo, quasi un bisbiglio, per cui non mi era più possibile sentire, tantomeno capire.

    I suoi occhi, di quando in quando, sembravano fissarmi proprio come se volesse accertarsene.

    All’altra estremità del filo era il capo supremo dei laboratori Fiat che, in quegli anni, costituivano un notevole centro di potere.

    Questo ente era allocato nella sede di corso Agnelli dove si trovavano ancora la maggior parte delle direzioni operative e occupava gran parte del piano terreno e dei sotterranei.

    La funzione dei laboratori era il controllo dei materiali e quindi lì venivano fatti tutti i test chimici e fisico-meccanici.

    I controlli riguardavano tutto ciò che veniva utilizzato per costruire i veicoli Fiat e servivano a dimostrare che le prestazioni fornite erano sufficienti a soddisfare i requisiti tecnici.

    L’ente era suddiviso in sezioni. C’erano quelle dedicate alle parti metalliche, alle materie plastiche, agli elastomeri e agli adesivi.

    I laboratori erano redattori e depositari dei capitolati nei quali venivano illustrate le prove necessarie per la caratterizzazione e la valutazione delle performance dei materiali.

    Erano inoltre stabiliti i limiti minimi e massimi nei quali dovevano rientrare i risultati dei test perché fossero accettabili.

    I fornitori erano tenuti a presentare la certificazione dei risultati di queste prove fatte sui loro prodotti in modo da garantirne la qualità.

    I capitolati venivano inoltre periodicamente aggiornati tenendo conto dei miglioramenti delle caratteristiche dei materiali in uso apportate dal progresso tecnologico, e inserire quelli nuovi.

    Queste attività imponevano così a tutte le aziende dell’indotto di disporre a loro volta di un ufficio attrezzato per fare le prove richieste, presentare le documentazioni e ottenere i benestare per le forniture.

    Si doveva pertanto stare al passo con i tempi realizzando il cosiddetto miglioramento continuo, che era indispensabile per non finire automaticamente fuori dal range qualitativo richiesto.

    Con tutto ciò, i laboratori Fiat erano in grado non solo di valutare i vari prodotti utilizzati, ma anche di stabilire una graduatoria di merito degli stessi in base ai risultati delle verifiche effettuate.

    E’ quindi evidente come i vari responsabili avessero notevole voce in capitolo sia sull’implementazione della capacità di sviluppo dei fornitori, sia sulle scelte della direzione acquisti al loro interno.

    Destreggiandosi in queste politiche, ne determinavano pure la fortuna o, viceversa, la malasorte.

    Capitolo 2

    Nel frattempo, ero riuscito a trovare e a mettere in ordine la documentazione tecnica della macchina, che, comprese le istruzioni d’uso, raggiungeva le trecento pagine in inglese.

    Con la mia conoscenza scolastica della lingua e forte di quanto avevo imparato dallo studio delle canzoni di Bob Dylan, iniziai la traduzione.

    Nello stesso tempo, applicando un sistema acquisito studiando e che ti aiuta a fissare nella memoria i punti chiave, compilai un estratto di annotazioni da consultare in caso di necessità.

    Non era passata una settimana di lavoro che, un pomeriggio, quella che Camaleri chiamava Signora e che gli faceva anche da segretaria, affacciandosi al mio sgabuzzino mi disse che l’ing. Detrandi voleva parlarmi e pertanto dovevo andare subito da lui.

    Il suo ufficio si trovava in fondo al corridoio del primo piano, dopo quelli dell’amministrazione che avevano tutte le pareti di vetro.

    Percorrendo il corridoio, ti pareva quindi di stare su un ponte sospeso ai cui lati si trovavano gli uffici dove potevi vedere impiegati e impiegate intenti al loro lavoro o a perdere tempo tra una cosa e l’altra. Si sentiva il ticchettio delle macchine per scrivere che allora erano di tipo meccanico e frequenti squilli dei telefoni.

    Allora squillavano tutti nello stesso modo per cui, per lo meno, non ti poteva venire il dubbio che qualcuno dell’ufficio avesse acceso la radio.

    I cellulari e i computer non esistevano ancora.

    In fondo al corridoio, nella penombra silenziosa, si apriva un atrio con la moquette e le pareti rivestite di legno scuro. Oltre all’ufficio di Detrandi, c’era la sala riunioni e le scale.

    Io feci tutto il corridoio cercando di dominare una certa agitazione.

    «Cosa diavolo vorrà da me quell’uomo di ferro color ruggine?» Sapevo benissimo che qualsiasi cosa potessi prevedere sarebbe stata sicuramente smentita.

    Sulla porta del suo ufficio una targa di ottone metteva bene in guardia: «Ing. L. Detrandi».

    Un po’ come dire: «Attenti al cane!»

    Bussai cercando di dosare la forza al livello educato ma non timido.

    Sentii da dentro la sua tipica voce nasale:

    «Avanti!»

    Aprii la porta.

    «Ah, sei tu

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