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USQUE ad FINEM nessuno mi fermerà
USQUE ad FINEM nessuno mi fermerà
USQUE ad FINEM nessuno mi fermerà
E-book253 pagine3 ore

USQUE ad FINEM nessuno mi fermerà

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Info su questo ebook

Il romanzo ha un contesto storico nei fatti nascosti e negli intrighi politici ,tuttora attuali, che sconvolgono varie parti del mondo,e di cui è difficile conoscere la verità. Il protagonista,che ha scelto la sua strada nella nazione americana,è un medico,un neurochirurgo,e un uomo super addestrato delle forze speciali dell’esercito, che viene a trovarsi in una particolare situazione dove nessuno dei protagonisti deve uscirne vivo. Sopravissuto fortunosamente, viene braccato in varie parti del mondo per mettere a tacere uno scomodo testimone. Attraverso varie avventure riesce a sopravvivere aiutato da belle donne strane e sensuali, mettendo a buon utile le sue varie possibilità di sopravvivenza, date e dalla sua cultura medica e dalla sua preparazione di uomo d’azione esperto nella lotta mortale uomo contro uomo. In seguito a varie complicazioni legate e agli uomini e ai luoghi dove viene a trovarsi, scatta la vendetta contro i traditori infidi e corrotti che non hanno esitato a uccidere per il loro tornaconto personale. E’ la vicenda di un uomo poliedrico e inquieto che si svolge in un mondo da lui scelto ma comunque corrotto senza vie d’uscita. Forse riuscirà a rivivere alla luce del sole,forse no,ma nessuno comunque potrà fermarlo fino alle estreme conseguenze. Ciò che lo sostiene in maniera assoluta è la forza dell’amore e di un sogno scelto e perseguito che non può morire. Il romanzo è ispirato da una storia vera dei nostri tempi.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2015
ISBN9788893156547
USQUE ad FINEM nessuno mi fermerà

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    USQUE ad FINEM nessuno mi fermerà - Francesco Zuanazzi

    Eveline..........................

    Capitolo 1 – Eveline era lontana

    +

    Era un caldo pomeriggio d’estate, ero inquieto e non trovavo la giusta posizione sulla poltrona del 767 che mi portava a Milano, alla Malpensa. Da molto tempo non rientravo in Italia, forse troppo, addirittura non sarei più dovuto tornarci perché ufficialmente ero morto. Che fossi ancora vivo lo sapevamo solo io ed Eveline, la sensuale Eveline della Polinesia, di quel sasso in mezzo all’oceano che si chiama Pitcairn.

    La hostess si avvicinò per chiedermi se desiderassi qualche cosa da bere.

    < Grazie, un Martini gelato con buccia di limone > risposi con tono distaccato.

    Pensavo alle onde alte e violente dell’oceano Pacifico e ai capezzoli di Eveline che diventavano duri, eretti e turgidi appena versavo con lentezza esasperante il Martini ghiacciato sul suo seno. Io quel Martini lo succhiavo dolcemente, avidamente, senza fine.

    Guardai l’ora, erano le diciassette, sarei arrivato a Milano alle diciannove e ventiquattro, ora locale, provenivo da New York, dalla mia tana sepolta nel Bronx dove nessuno avrebbe mai potuto trovarmi. Infatti ero morto. Se qualcuno di mia conoscenza mi avesse trovato sarei morto comunque, ma sul serio. La missione in Guatemala era stata una follia. Organizzata dalla sezione anti-narcos della CIA, in realtà si trattava di liquidare un gruppo di rivoluzionari comunisti che davano molto fastidio al governo locale e soprattutto rischiavano di rinverdire i movimenti antiamericani protetti da Cuba e che si pensava fossero finiti con la morte del Che in Bolivia. Ma non era così. Questi movimenti esistevano ancora malgrado la caduta del muro e della guerra fredda, sovvenzionati da gruppi politici locali con l’aiuto dei narcos che ben vedevano l’occasione di strumentalizzare ai loro fini un’ideologia rivoluzionaria finita per sempre, ma sempre valida per sovvertire le istituzioni democratiche locali con il caos e il terrore. Si trattava di paracadutarsi nella giungla guatemalteca in un certo punto stabilito e con l’aiuto degli elicotteri circondare e fare fuori tutti i terroristi, ma non in maniera ufficiale. Noi ufficialmente non esistevamo, per non creare problemi internazionali e per poter avere mano libera nell’opera di pulizia politica richiesta. L’operazione era tutta americana, ne erano all’oscuro anche le autorità guatemalteche, almeno per quanto se ne sapesse. Mi ero fatto incastrare. Gus Flanagan, il vecchio capo dell’anti-narcos, mi aveva detto, una grigia mattina newyorchese al sessantesimo piano dell’altrettanto grigio grattacielo a fianco del Rockefeller Center:

    < Frank tu ci servi eccome, sei addestrato meglio di un marine e hai fatto il neurochirurgo in Venezuela ai tempi della rivoluzione, salvando un ospedale intero proprio dalla rivoluzione. Hai praticato la neurochirurgia in Tanzania, all’università di Dar es Salaam e in Rodesia, dove hai difeso i tuoi operati a colpi di bombe a mano dalla furia della plebaglia istigata contro i bianchi dalle autorità stesse, cosa vuoi di più? uno come te è un giusto consulente sugli effetti della coca sul sistema nervoso, ci vuole in questa impresa militare e scientifica, chiamiamola così. >

    Gus, gran figlio di puttana. Voleva la supervisione scientifica di un qualche cosa che non aveva niente a che fare con la scienza.

    < Quando uscirai dall’anti-narcos > continuò < ti daremo la direzione di un reparto di neurochirurgia di un ospedale italo-americano,visto che sei anche tu italo-americano e ti chiami Frank Zani, magari qui a New York o in qualche altra parte dell’impero, Baltimora, Los Angeles, che ne dici? >

    Brutto bastardo, gli serviva un effetto di straniamento per coprire il vero scopo della missione, l’offerta però era allettante.

    < Se è per questo penso di potere curare altrettanto bene anche gli americani > gli risposi abbastanza perplesso.

    Lo avevo conosciuto quando facevo la residency in neurochirurgia presso il Presbiterian Hospital a New York dopo la laurea in medicina e chirurgia ottenuta a Padova, la mia città natale. Era ricoverato per un piccolo meningioma, un tumore benigno che fu asportato senza conseguenze. Era stato lui a convincermi a entrare nell’anti-narcos sotto una veste militare. Un giorno mi disse:

    < Facendo il servizio militare volontario negli States non avrai problemi un domani nel richiedere la cittadinanza e, finita la residency, potremo all’occorrenza mandarti in varie parti del mondo come medico e neurochirurgo. Hai chances in più per penetrare nel mondo tenebroso della droga e dei trafficanti. Terminata la specialità, il corso per entrare nell’anti-narcos fu durissimo.

    L’aereo era entrato in una zona di turbolenza, vibrava e sussultava, quasi volesse trasmettere un tacito discorso che proveniva dal profondo delle nuvole e dal fluire impetuoso dell’aria che lo circondava, lo avvolgeva e lo accarezzava. Io avevo finito per fortuna di sorseggiare il mio Martini, Eveline era lontana. E’ strana la vita, fai il medico e in particolare il neurochirurgo e il tuo compito è aiutare gli altri a risolvere i loro problemi, mentre quando fai certi corsi segreti e labirintici diventi una macchina programmata per uccidere. Non sapevo nemmeno io perché mi ero trovato in questa situazione contraddittoria che dà ansie e tormenti, in questa doppia personalità che non dà tregua, ma una cosa è certa, ognuno deve convivere con se stesso. Forse cercavo una dimensione che non esiste nella realtà, la volontà di conoscenza, di azione, di avventura, di penetrare situazioni diverse e inconciliabili dove solo io ne potevo essere il protagonista e la sintesi, la voglia di vivere le passioni contrastanti di un momento unico, di un’emozione esistenziale. Gus lo aveva capito e ci giocava, anche in maniera sporca.

    La missione anti-narcos in realtà era solo una copertura, quello che serviva era annientare i guerriglieri comunisti che davano fastidio ai narco-trafficanti e al governo in carica colluso con loro e con la partecipazione di alcuni papaveri di New York che approfittavano dell’anti-narcos per arricchirsi alla faccia dei bei discorsi dove si parlava di nazione, integrità e morale. Fino a che punto ne fosse invischiato Gus non lo sapevo, ma ero sicuro che avesse organizzato tutto in modo che nessuno della missione potesse tornare indietro. Mi veniva da vomitare, chiesi un altro Martini gelato con buccia di limone alla hostess, tanto per distrarmi. Ma i cattivi pensieri mi perseguitavano. Quella in Guatemala era una situazione di confusione perenne dove i narcos facendo finta di aiutarli, strumentalizzavano i guerriglieri per creare caos e incertezza nel Paese, dove così potevano impunemente esercitare i loro traffici con il buon cuore della CIA e di alcuni governanti locali. Ma alla lunga la politica aveva avuto il sopravvento e il castrismo si era incuneato nella giungla disturbando un po’ tutti e mettendo in pericolo lo statu quo. Da qui la necessità di una eliminazione fisica che avrebbe fatto contenti politici e traffici. Ad majora, diceva Gus, i morti non parlano. Guardai fuori dal finestrino, osservai strisce di nuvole e spumiglioni bianchi e il pensiero andò diretto a Pitcairn, a quell’immenso mare che bagnava sassi e verzure, in un’alternanza di pace e di violenza come se volesse improvvisamente dare vita e morte a un’isola infernale sorta improvvisamente dalla luce incandescente dell’incudine di Nettuno.

    Eveline, sensuale Eveline, non correre sulla sabbia lungo il bagnasciuga inquieto completamente nuda, non confonderti con l’impalpabile nebbia dell’orizzonte nel tardo tramonto, resta creatura materica, sconosciuta, desiderata.

    Guardai l’orologio, fra un’ora al massimo sarei atterrato a Malpensa e questa sarebbe stata tutta un’altra storia. Sorseggiai un altro Martini gelato con buccia di limone e colsi l’occasione per guardare le gambe della hostess, niente male per il momento, cosce tornite sotto la gonna blu della divisa, gonna in giusta tensione per rivelare un giusto reggicalze. Lei se ne accorse e mi guardò di sfuggita con uno sguardo che poteva significare un assenso lontano, impercettibile. Improvvisamente la luce si oscurò e tuoni e lampi scossero l’aereo, mi tornò alla mente quella dannata notte di tre anni prima quando al cenno del sergente Kay Gunn ci lanciammo sulla giungla in caduta libera da cinquemila piedi, tenendo d’occhio una piccola luce verde che doveva essere il nostro primo punto di riferimento a terra.

    Cristo, pensai, qui è impossibile sopravvivere! La pioggia mi frustava il viso con cattiveria e i lampi sembravano inseguirmi per distruggermi, mi mancava l’aria, non vedevo nulla, senza guardare l’altimetro da polso calcolai un certo tempo e per la disperazione tirai la maniglia solo per l’istinto di sopravvivenza che anima l’uomo, come insegna Freud, assieme all’istinto sessuale e di aggressività. Ebbi la certezza che la vela si fosse aperta per il tremendo contraccolpo che subì la mia schiena mentre cadeva a duecentocinquanta chilometri all’ora in caduta libera. Mi sembrò di esplodere, di fracassarmi contro qualche cosa di alieno che fosse lì intorno per farmi del male. Poi il lieve dondolare nell’aria mi disse che non ero ancora a terra, che ero ancora fra nuvole grigie gonfie di pioggia. Da una prima valutazione avevo aperto il paracadute a circa mille piedi dopo una caduta libera di quattromila. Mi lasciai andare senza pensare per alcuni secondi a quello che stessi facendo, pensai a mia madre quando sbucciava gli aranci in cucina in attesa che le dicessi il voto che avevo preso a uno dei tanti esami che hanno perseguitato la mia vita. E’ una tecnica Zen per distaccarsi da quello che ti sta prendendo e sta per avere il sopravvento su di te, per poi rientrare nel personaggio dall’esterno, tranquillo, dominando la situazione. E così fu. Riuscii addirittura a identificare la luce verde di riferimento nel bel mezzo della giungla che man mano che si avvicinava appariva come un’immensa e indecifrabile macchia nera. Un’ombra sconosciuta che ti prende, ti avvolge, ti risucchia, non ti dà scampo. L’impatto a terra non fu dei migliori, una discesa a quattro metri al secondo ti obbliga ad ammortizzare la forza cinetica con una perfetta capovolta sulle spalle per non andare incontro a fratture varie o anche peggio. Avvertii una scossa a tutto il corpo come se Gad Madison, il trequarti dei Giants, mi avesse travolto mentre stavo per lanciare al velocissimo Roy Anderson nella indimenticabile partita con i Miami Dolphin. Ma era soltanto la voce del comandante che informava che nel giro di venti minuti saremmo atterrati all’aeroporto di Malpensa. Il tempo era buono e la temperatura a terra era di venticinque gradi centigradi. Tanti pensieri, immagini, frammenti di vita: in realtà venivo dal nulla più assoluto. Perché?

    Scesi dall’aereo e mi avviai indifferente al controllo passaporti. Quando arrivò il mio turno tirai fuori un passaporto guatemalteco con il nome di Pedro Alonso Merida Gonzales. Lo guardarono con svogliatezza, guardarono me, la cicatrice in faccia che andava dalla sottopalpebra sinistra allo zigomo corrispondente e da questo all’angolo mandibolare, constatarono che tutto corrispondeva. Proseguii rilassato, ma un ricordo violento mi attraversò la mente e mi diede un brivido. Andrò all’inferno, pensai, ma quello che mi aveva conciato in quella maniera lo incontrerò un giorno... Il giorno verrà diceva anche Fra Cristoforo alzando il braccio minacciosamente, e allora gli squarcerò le corde vocali, lo seppellirò in un magnifico prato verde e piscerò sulla sua tomba perché io non piscio negli angoli bui, ma sull’erba verde di un bel prato. Andai nella toilette dell’aeroporto e mi rinfrescai, allo specchio notai che tutto sommato quella cicatrice mi donava, era giusta al posto giusto, risi di me, del mondo, del formicaio umano che mi circondava ovunque andassi. Risi della sorte, ero programmato per uccidere, ufficialmente morto, brillante neurochirurgo con cicatrice. Et de hoc satis sosteneva il buon Orazio.

    Capitolo 2 – Milano e una cicatrice

    Mi avviai al posteggio dei taxi, nessuno mi aspettava per fortuna. Rivedevo come in un film tutte le vicende vissute in Guatemala. Una storia brutta, di tradimenti e di morte. L’atterraggio sul terreno fu particolarmente duro, il tempo di raccattare il paracadute e riassettarsi e già eravamo in gruppo, il tenente Floyd azionava delle raccole di richiamo che rifacevano il verso delle cornacchie. Nessuna perdita, nessuna brutta frattura, subito pronti a uccidere. Arrivammo in tempo alla luce verde, il punto di riferimento che altro non era che uno strobe light azionato dall’intelligence locale, uno strano tipo di peon-guerrillero dei tempi di Emiliano Zapada. Cominciai ad avere qualche dubbio sulla verità e l’organizzazione della missione. L’avevo accettata perché avevo bisogno di realizzarmi, di rompere con i condizionamenti della vita di tutti i giorni, di inventarmi altre cose e altre speranze, di distruggere una parte di me per esaltarne un’altra che ancora non conoscevo. Ma c’era anche la passione per la neurochirurgia, la possibilità di operare in un ospedale tutto mio dove avrei potuto fare progetti in senso tecnico e scientifico. Non potevo prevedere in quale avventura mi sarei cacciato, al di là del male e del bene. Salii su un taxi nel frastuono e nel caos di Milano che non era poi tanto peggio di quello di New York o di Hong Kong.

    < Mi porti ai Cavalieri Teutonici > dissi mentre mi perseguitava nella memoria la Sierra Guatemalteca. Se ben ricordavo, qualcuno aveva fatto una prenotazione a mio nome. Entrai alla reception ed ebbi la sensazione di quando varcai quella lurida capanna piena di uomini armati e di puttane che proprio io eliminai a colpi di mitra e conclusi con una granata senza speranza. La bella ragazza vestita con un tailleur blu-cina, dai capelli neri e gli occhi verdi penetranti mi disse:

    < Yes sir? I have a reservation at name of John Craig for few days. >

    Risposi quasi trasognato:

    < Just a moment, please. >

    < Yes sir, reservation for five days, room number sixty-one, fourth floor… your passaport, please. >

    La ragazza mi guardava in maniera strana, fra il curioso e l’invitante, forse l’aveva colpita la cicatrice che illuminava la mia emifaccia sinistra, dopo tutto non ero comunque così male anche se le cose negli ultimi mesi erano duramente passate sopra di me. Consegnai il passaporto guardandola in maniera intensa e dura, ero incapace di sorridere in quel momento, notai impercettibile un movimento della camicetta dovuto sicuramente a un fremito del suo seno rotondo e appuntito, legato ad un’idea, a una scarica ormonica, a un qualche cosa che era penetrato al di là della barriera. Non avevo bagaglio, solo una borsa a tracolla su un vecchio giaccone di pelle nera dove, non molto evidenti, c’erano all’altezza del collo e della spalla sinistra due fori di un proiettile calibro nove e sessantacinque.

    < Your baggage, sir? > domandò la ragazza dandomi le chiavi della stanza sfiorandomi la mano, che interpretai come un chiaro seppur lontano segnale.

    E’ difficile cogliere la psicologia delle donne, a volte le corteggi per mesi e non te la danno, a volte in un coup de foudre ti portano a letto o in bagno o nel sottoscala.

    < I haven’t > risposi < it is enough for me what i get. >

    Mi aveva parlato d’acchito in inglese e non in spagnolo, ma io non volevo parlare spagnolo, mi ricordava troppe cose passate che ancora mi bruciavano sulla pelle. D’altra parte le avevo consegnato un passaporto inglese corrispondente al nome della prenotazione. Attraversai la grande hall dell’albergo per avviarmi all’ascensore e fu come entrare nella giungla guatemalteca che copre la sierra in modo inestricabile, come sentire l’urlo di Floyd che incitava a correre, svegliarsi, procedere a qualunque costo. Ricordo ancora quando camminammo tutta la notte lungo un sentiero impervio facendoci strada a colpi di machete, fino a che arrivammo a un villaggio vicino al piccolo lago Tikal. Il villaggio era morto, erano tutti morti, decapitati, mutilati, sgozzati e straziati. Chi era stato, terroristi o narcos, ideologi del comunismo o bastardi trafficanti di droga? Oppure elementi governativi guidati dai nostri di Washington per far ricadere la colpa su qualcuno che ostacolava alcuni traffici? Il villaggio era stato bruciato, forse da qualche ora, il fumo acre seccava le narici e dava un senso di vomito e di malessere, una donna di trentanni circa era stata sventrata a colpi di machete, a terra con le braccia aperte ci accoglieva tristemente nel suo villaggio fantasma. Un ragazzino riverso su una lamiera arrugginita aveva il cranio fracassato che buttava fuori sostanza cerebrale. Certo, pensai, qui non hanno usato il bisturi elettrico. Floyd mi guardò perplesso: < Che succede? >

    < Andiamo avanti > risposi < la conosci la missione, fra due ore dobbiamo chiudere la partita con i terroristi o altri e imbarcarci sugli elicotteri che verranno a prenderci. >

    < Ma perché tutto questo, cosa significa? Non c’è un senso, non c’è una logica... >

    Lo strattonai per un braccio e gli dissi che la logica in certi momenti non solo non esiste, ma non è mai esistita. I ragazzi si aggiravano persi fra i morti e le casupole di legno bruciate, forse non sapevano che da sempre l’uomo cerca il massacro per i motivi più svariati come eliminare futuri avversari inferociti, intimorire, non lasciare testimoni o ancora come liberarsi di un’aggressività senza controllo che si trasforma dentro di noi in un mostro di passioni e umiliazioni che frustrano quotidianamente la nostra vita, le nostre aspirazioni, il nostro stesso io.

    Arrivai finalmente alla stanza sessantuno, per la forza dell’abitudine controllai che nessuno fosse entrato prima e che nessuno apparisse improvvisamente al fondo del corridoio silenzioso con una pistola in mano. Aprii la porta stando sul chi vive ed entrai. Sentii come un vento che ti investe quando spalanchi la finestra in una mattina di cattivo tempo, avvertii il profumo agrodolce di erbe ed essenze di Eveline. Ma lei non c’era, era lontana, fra le palme e le verzure verdi di un’isola al di là del tempo e del desiderio. Mi guardai intorno, mi osservai allo specchio e vidi uno che non conoscevo, vidi una cicatrice, ma quella era ancora voglia di vivere, voglia di vendetta, voglia di amore. Ero stanco, mi tolsi il giaccone, i fori di proiettile erano sempre là, ci passai dentro le dita e li feci diventare più grandi, percepii un formicolio alla spalla destra, se non avessi avuto il giubbetto antiproiettile ben abbottonato sarei rimasto nel fango fra i vermi della terra della sierra guatemalteca. Mi distesi sul letto, chiusi gli occhi pensando di riposare per un’ora al massimo. Ripresi a ricordare quando abbandonammo il villaggio deserto con i suoi morti. L’umidità della notte e l’intenso odore della giungla impregnavano il corpo e inumidivano le armi mentre una luce indefinibile e sfuggente dava la sensazione che fra gli alberi si muovessero fantasmi e fate morgane di incognite e di morte. L’alba incerta si era mostrata in una luce sfocata e diffusa al di sopra di lunghi filari di nebbia, dopo le ore di cammino senza sosta dovevamo essere vicini al punto di contatto. E questo apparve in tutta la sua tragicità, la giungla si stava diradando gradatamente rivelando file di alberi contorti, ognuno dei quali presentava una corda con un impiccato, altri a forma di croce erano stati usati per la crocifissione, i picchi della sierra si stagliavano confusi con le nubi grigie in un presagio sinistro senza scampo. In una frazione di secondo vidi le iconografie delle crocifissioni nelle pale delle varie scuole del Duecento, ma non ci fu tempo per ispirazioni religiose o analisi filosofiche, ormai si vedeva molto bene il grande spiazzo con le casematte e le torrette dove stazionavano i terroristi, era il momento di farla finita Scoppiò l’inferno. Floyd mi urlò:

    < Non ne deve sopravvivere uno, chiaro? >

    < Chiaro amico mio, da una strage all’altra, dai buoni ai cattivi, la missione è compiuta. >

    La distruzione era totale, le torrette abbattute, le casematte distrutte, il terreno coperto di cadaveri. Quanti? Anche noi avevamo avuto delle perdite, ma contarli al momento non serviva, in quel momento occorreva che arrivassero gli elicotteri per portarci lontano e lavarci la coscienza, erano terroristi,

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