Fottitutto: Il SINDACATO RACCONTATO DA UN INSIDER
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Info su questo ebook
Il suo è un racconto senza fronzoli, costruito su dati verificati e verificabili, il tutto condito da un’esperienza umana e personale unica, che ha attraversato vent’anni della sua vita. Vent’anni passati dietro le quinte del mondo del lavoro, in seno a due tra i maggiori sindacati italiani – Cgil e Uil – dove in primo piano dovrebbe esserci la tutela di lavoratrici e lavoratori, ma dove a muoversi sono molto spesso ben altri meccanismi e interessi che, nel tempo, hanno modificato la natura nobile del sindacato in un carrozzone all’italiana dove a contare sono le poltrone, dove il diritto del lavoro va a braccetto con la politica, dove i tesseramenti raccontano una realtà squallida, dove le grandi adunate di un tempo si sono trasformate in costosissime farse, dove a rimetterci – paradossalmente – sono proprio quei lavoratori e quelle lavoratrici che il sindacato dovrebbe tutelare e proteggere.
Cene pantagrueliche, rimborsi truccati, smartphone di ultima generazione, automobili di grido, il tutto in barba ai principi che dovrebbero essere alla base dell’attività sindacale. E poi un’impietosa carrellata di personaggi, situazioni e aneddoti vissuti in prima persona con l’occhio attento del cronista, con il distacco di chi invece ha sempre cercato di fare il proprio mestiere con onestà e passione. Perché in Fottitutto c’è soprattutto questo: il rammarico per i tanti sindacalisti onesti che ogni giorno si battono al fianco dei propri assistiti, per quelle persone che al bagliore dei riflettori preferiscono la strada, la fabbrica, il centro di smaltimento, le centinaia di chilometri percorsi ogni giorno, le migliaia di ore di telefonate per strappare un accordo favorevole a un lavoratore in difficoltà. Tutti sforzi vanificati dalla cecità dei vertici, verso cui Salvatore Livorno, alla fine di questo viaggio tra i rottami del sindacato, lancia un appello al miglioramento, formulando proposte che non s’illude certo di veder accolte, ma che certamente contengono al loro interno tutto l’amore, la competenza, la sensibilità di cui solamente un “sindacalista da marciapiede” può essere capace.
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Anteprima del libro
Fottitutto - Salvatore Livorno
Indice
Nota dell’editore
Prefazione
In principio fu il titolo
Roma, molti anni fa
Una modesta premessa
Il lato oscuro del sindacato
La bella vita
Giochi di potere
Le vere casseforti (più o meno occulte) del sindacato
I lavoratori, questi sconosciuti
I trucchi del mestiere
Visti da vicino
galleria di personaggi più o meno noti
Effetti collaterali
Spunti e proposte per uscire dalla crisi del sindacalismo
Autonomia, pluralismo e democrazia nel sindacato
Conclusioni e proposte
Lettera di Giuseppe Di Vittorio al Conte Pavoncelli
Appendice
La fine dipende sempre dall’inizio
Nota dell’editore
Il presente libro, frutto di mesi di lavorazione iniziati nel 2019, doveva uscire nel mese di aprile del 2020.
In accordo con l’autore, a causa delle note difficoltà intervenute con il COVID-19, abbiamo deciso di pubblicarlo nel mese di settembre del 2020.
Il sindacalista è colui che si mette in leale rapporto con gli altri, responsabile dei diritti umani, capace di reggere l’utopia e di contagiare anche coloro con cui opera agli stessi suoi entusiasmi. Sa essere presente e sa motivare le scelte, conosce il più possibile il lavoro di ciascuno e perciò è competente, cerca di capire e guarda all’essenziale. Non ha preoccupazioni per propri interessi monetari e rifiuta il privilegio che è il tarlo di ogni convivenza. Preoccupandosi di ciascuno, difende non i soldi ma il valore delle persone, lottando anche per il giusto riconoscimento economico.
Carlo Maria Martini
Noi fummo i Gattopardi, i Leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa
da Il Gattopardo.
Ai Cercatori.
Dedico questo libro a chi,
nonostante tutto, cerca verità e giustizia.
È una fatica infinita.
Una lotta impari che ti spezza le braccia.
Quando ti sembra di essere vicino,
verità e giustizia si dileguano
e non riesci ad afferrarle mai.
Scivolano via come sabbia tra le dita.
Non c’è tregua e alla fine
perdi il sonno e sacrifichi la vita.
Eppure chi è nato per cercare non potrà smettere.
È una condanna, ma anche un privilegio.
Prefazione
Nel libro di Salvatore Livorno vengono messi in luce i rottami
del sindacato. Uso questa espressione perché ha un significato preciso: indica le macerie di qualcosa che, un tempo, è stato solido e funzionale. È l’emblema stesso della decadenza, di qualcosa che era e che oggi non è più. Ma attenzione, quello che avete tra le mani, non è un libro contro
il sindacato ma una sorta di cura
per un soggetto gravemente malato. È un viaggio impietoso nelle degenerazioni applicate da chi del sindacato fa il proprio business o il proprio buen retiro
, ma anche il tentativo, attraverso una diagnosi lucida, di intervenire per bloccare la deriva. Come la politica, oggi anche il sindacato in Italia ha vissuto una mutazione genetica
in peggio. Ha perso, cioè, quella funzione di tutela dei lavoratori per diventare, a tutti gli effetti, un soggetto politico con degenerazioni molto simili a quelle di un partito. Un organismo in cui c’è soprattutto la volontà di salvaguardare la poltrona, di fare carriera. E per raggiungere l’obiettivo, si è pronti a tutto o quasi. Un cambio deciso di rotta: la priorità, come nel passato, non è più l’interesse dei lavoratori, bensì la cura di interessi personali. Una situazione inaccettabile per Salvatore Livorno, che è, come lui stesso dice con giustificato orgoglio, un sindacalista da marciapiede
. Alle sue spalle, ha vent’anni vissuti da insider
del sindacato, prezioso conoscitore del dietro le quinte del mondo del avoro dei due principali sindacati italiani, la Cgil e la Uil. Nel suo libro, oltre al racconto della progressiva degenerazione di questi organismi, troverete anche una radiografia impietosa dei personaggi che questa metastasi l’hanno indotta, favorita, accelerata. Un viaggio che ha portato Livorno ad entrare in contatto, nella sua attività, con realtà spesso molti difficili, come quello della monnezza
, cui ha dedicato un precedente lavoro. Ma lui, il sindacalista da marciapiede
, non ha mai chinato la testa. È andato dritto per la sua strada, subendo anche minacce, ma convinto che il suo ruolo lo obbligasse a quello che gli americani chiamano civil servant, cioè mettersi al servizio della collettività. Attenzione, però: Salvatore Livorno non è un eroe. È solo una persona che crede nel suo ruolo di sindacalista ed è pronto a farlo fino in fondo. Il paradosso, quello del sindacato e della politica italiana ma anche, in fondo, della società che viviamo, è che questo fa di lui un diverso
. Posizioni come quelle di Livorno, diventano perciò scomode. E infatti, scrivendo questo libro, lui sa di aver firmato in calce il suo suicidio sindacale
. Gli è stato fatto capire, cioè, che denunciando le storture del sindacato, finirà, prima o poi, fuori dai giochi. Un rischio che lui, con abnegazione, ha voluto correre. E per questo dobbiamo essergliene grati. Mi piace pensare, infatti, che l’esempio di Salvatore Livorno non resti isolato. Che denunciare le degenerazioni del sindacato sia una maniera per dare una scossa. Per provare a tornare a un sindacato vero, aderente ai bisogni dei lavoratori, degli ultimi. Di chi, solitamente, non ha voce.
Marcello Altamura
In principio fu il titolo
Ho avuto la fortuna di avere, durante l’infanzia e l’adolescenza, tre nonne cui ho voluto bene. La mia terza
nonna, oltre alle due ufficiali
, era una nostra vicina di casa: la signora Giovanna. Era una donna straordinaria, dalla travolgente simpatia, rimasta vedova giovanissima, nei primi anni ’30 del novecento, aveva cresciuto tre figli, lavorando duro. Andavo a trovarla spesso e mi perdevo nei suoi incredibili racconti, succhiando caramelle al gusto di anice. Mi piaceva la sua casa, aveva un sapore antico, di cose belle di una volta e, soprattutto, mi piaceva l’ingresso, colorato e sempre profumato di fiori freschi. Un giorno le ho detto che mi pareva stano che l’ingresso fosse più grande della cucina. Mi ha risposto che l’ingresso è la parte più importante di una casa perché chi non ti conosce si fa subito un’idea di chi sei. Quell’ingresso era profumato e solare, come lei. Con il trascorrere degli anni sono arrivato alla conclusione che il titolo di un libro abbia questa funzione, perché, ragionando da lettore, ho sempre avuto con i libri un rapporto fisico, direi quasi sentimentale e un titolo deve saper trasmettere, in estrema sintesi, una sorta di collegamento, di empatia, tra quello che l’autore ha voluto dire e chi prende in mano un libro. Come l’ingresso di una casa sconosciuta dove, solo entrando nelle stanze, scoprirai cosa realmente contiene.
Fottitutto
per me rappresenta questo collegamento.
Il titolo è arrivato alla fine e non da una mia idea, ma parlando con un amico al tavolino di un bar di una grande stazione. Eppure ho capito subito che era quello giusto da sempre, attendeva solo di incontrare il mio libro. Fottitutto
è l’ingresso nel mio personale e lungo viaggio nel mondo del sindacato ed esprime quel lento e costante decadimento che, purtroppo, ho riscontrato. Una degenerazione che ha visto mercificare nobili e antichi valori, ambizioni sfrenate, sostituirsi agli ideali, interessi personali prevalere su ogni altra cosa, la passione politica divenire congiura di palazzo per la conquista di un effimero potere con i mezzi più infimi.
Tutto questo sulla pelle dei lavoratori, spesso traditi, venduti, umiliati. Sacrificati sull’altare del profitto, ma avendo come carnefici non sempre i padroni, ma talvolta sindacalisti complici o conniventi.
Tutti pronti a fottere tutto.
Roma, molti anni fa
"La società dei magnaccioni…
La società della gioventù…
A noi ce piace de magna e beve…
E nun ce piace de lavorà."
Il canto del cigno
L’evento era stato di quelli epocali, destinato ad essere ricordato negli anni a venire. Una prova di forza riuscita, per dimostrare ad un governo ostile
di essere ancora in grado, come sindacato, di mobilitare le masse come un tempo, di fare male
come si suole dire.
In realtà, negli anni che seguirono, quella grande iniziativa si sarebbe rivelata come il canto del cigno
, la fine di un certo tipo di sindacato, ma allora non lo potevamo sapere e il momento era di grande euforia.
Al termine della grande manifestazione, un caro amico mi dice che abbiamo ricevuto un invito a cena da persone che contano. Uno di quegli inviti cui non si può dire di no. Faccio presente che devo rientrare con gli altri manifestanti in autobus e che non sono attrezzato per trascorrere la notte fuori. Mi risponde di non preoccuparmi. Abbiamo già l’albergo prenotato e un biglietto di treno, in prima classe, per il rientro il giorno dopo. Di malavoglia mi dispongo alla serata, chiedendo a cosa devo l’invito e chi saranno i presenti. L’amico mi risponde che la cena è per pochi, ci saranno, mi dice, al massimo una decina di persone, tra cui il mio segretario regionale e un segretario nazionale dato in forte ascesa. È stato quest’ultimo a chiedere la mia presenza perché colpito, positivamente pare, da un mio intervento ad una recente riunione da lui presieduta.
Il ristorante è di quelli molto noti su un’isola in mezzo al fiume, con sulle pareti le foto, in bianco e nero, di un noto attore scomparso diversi anni prima. I commensali sono otto, con il personaggio più in vista a capo tavola. Io siedo alla sua destra. Vengono ordinate le portate migliori, le più costose, che si susseguono implacabilmente; i commensali si scolano diverse bottiglie di un noto e costoso vino veneto, ordinato apposta per la circostanza, l’amarone. Mi sento fuori posto e in imbarazzo e, nel corso della serata, lancio occhiate di riprovazione al mio amico che, a differenza di me, sembra perfettamente a suo agio. Tra un piatto e l’altro parlano dell’imminente cambio al vertice del sindacato:l’attuale segretario è giunto a fine mandato ed entrerà in politica; ironizzano anche su un suo, presunto, recente innamoramento per una giovane donna. Il nuovo segretario, di lì a pochi mesi, sarebbe stato proprio il personaggio seduto a capo tavola, che ascolta tutti con un’aria compiaciuta. I discorsi fatti sono tutti relativi a dinamiche interne di potere, a futuri assetti politici. Sono tutti convinti che il governo in carica non avrà vita lunga e che, con il ritorno dei nostri
, riferito all’opposizione progressista, le cose cambieranno profondamente che il sindacato tornerà a contare, anche perché si vociferava che il prossimo Esecutivo avrebbe visto, tra ministri e sottosegretari, la presenza di diversi ex sindacalisti.
Resto in silenzio e penso a quelle centinaia di migliaia di lavoratori e pensionati arrivati da tutt’Italia, con fatica e sacrificio, che, per fortuna, non sentono quei discorsi fatti intorno ad una ricca tavola. A un certo punto, giunti ormai al caffè, il segretario in pectore si rivolge a me e mi chiede, visto che sono rimasto in silenzio per tutta la serata, cosa penso dei discorsi fatti. Siccome ho sempre avuto una vena di follia, mi viene in mente, non so perché, di citare l’inizio di un giallo di Manuel Vázquez Montalbàn Assassinio al Comitato Centrale, in cui il segretario del Partito viene misteriosamente assassinato prima di iniziare il suo discorso. Cala un attimo di gelo tra i presenti e vedo il mio amico, un po’ brillo, che mi guarda con espressione di disgusto. L’imbarazzo generale è superato da una risata del pezzo grosso
, che dice di apprezzare l’ironia. Dopo il caffè, arriva il conto astronomico che verrà saldato – con carta di credito del sindacato – dall’organizzatore della serata.
Ancora una volta penso, con un senso di colpa, ai tanti che stanno rientrando a casa dalla manifestazione. Rabbrividisco al pensiero dei discorsi sentiti a quella tavola e alla differenza abissale che c’è tra i lavoratori e coloro che li dovrebbero rappresentare.
Mentre, finalmente, ci avviamo verso l’uscita, ancora lui, il boss in pectore, mi ferma e mi dice che ci saranno cambiamenti di lì a poco e che ci sarà bisogno di gente in gamba ma affidabile
, che ho delle buone potenzialità e che posso fare una bella carriera nel sindacato, ma devo imparare a essere più prudente e moderato
e altre cose di questo genere.
Lo lascio finire di parlare e alla fine gli rispondo che spero di contribuire a cambiare in meglio il sindacato prima che il sindacato cambi in peggio me. Mi risponde, gelido, che avrò modo e tempo di cambiare idea e atteggiamento.
Mentre mi allontano dal locale, sorreggendo il mio amico ormai completamente sbronzo, penso che, probabilmente, mi sono inimicato il futuro numero uno
del sindacato in Italia.
Intanto, nella dolce serata romana, sento riecheggiare, dal ristorante alle mie spalle, con un accompagnamento di chitarra, le note di una famosa canzone in romanesco… "La società dei magnaccioni".
Una modesta premessa
Il grande centro commerciale appare come un’enorme nave di cemento e vetro arenata nel mare di asfalto degli enormi parcheggi che lo circondano. È uno di quei luoghi che personalmente detesto, perché mi paiono come angoscianti gironi danteschi, in cui le famiglie passano il fine settimana tra supermercati, negozi di tutti i tipi – non sempre necessari –, persino una grande piazza coperta da una cupola di vetro dove si tengono eventi di noti influencer e concerti di cantanti in voga. E poi ristoranti, dal vegano
all’americanata di turno, passando per lo pseudo etnico.
Ogni volta che, mio malgrado, ci finisco dentro, mi chiedo inutilmente perché passare giornate intere in un posto simile piuttosto che non andare a fare un giro al mare o in montagna. Ma è solo una delle tante domande cui non trovo risposta. Un giorno, girovagando per i lunghi viali
stordito dalla musica trasmessa senza interruzione, che dentro i negozi diventa davvero insopportabile, per caso incontro in un negozio, dove lavora come commessa, una ragazza che conosco. Una laurea alle spalle e due master universitari conseguiti. Solita vecchia storia. O vai all’estero, o ti accontenti del poco che riesci a trovare.
È la nipote di un sindacalista d’altri tempi e del nonno conserva la consapevolezza, direi politica, di certi processi del mondo del lavoro. «Vedi – mi dice – qui dentro siamo in centinaia a lavorare e io sono l’unica iscritta a un sindacato!»
«Vuol dire – rispondo io provocatoriamente – che non hanno bisogno del sindacato.»
«Vuol dire – replica lei fulminandomi con lo sguardo – che non hanno neppure un contratto di lavoro regolare, me compresa. Qui sono tutti collaboratori, partite IVA
, precari per poche ore a settimana e chi più ne ha più ne metta. Tutto