Malattia e filosofia
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Anteprima del libro
Malattia e filosofia - Susanna Spadoni
S.p.A.
Malattia e Filosofia
Prefazione
Ci sono moltissimi aspetti che legano la malattia e la filosofia. Alcuni sono più ovvi, altri meno, eppure sono due specie di rampicanti che si intrecciano indissolubilmente nel corso del tempo e nel corso del pensiero. E nella vita di ciascuno di noi.
Tanto la malattia quanto la filosofia, per esempio, sono fondamentalmente bandite dal discorso quotidiano: incrociamo i nostri simili, fratelli e sorelle di passaggio su questo sasso sparato a folle velocità nello spazio siderale, e parliamo del meteo, del traffico, di hobby e passatempi, di tutto tranne che delle due cose che più incombono a minacciare la nostra felicità: lo stare male e la mancanza di un senso.
Siamo talmente abituati a questa condizione da non farci nemmeno più caso, ma la verità è che a uno sguardo appena più attento appare in tutto il suo essere intrinsecamente paradossale: i tuoi interlocutori accettano più o meno di buon grado qualsiasi discorso, dalla pioggia alla viabilità urbana, dal governo all’economia, dal calcio alla musica, e su ciascun argomento fanno a gara a dirti la loro, a farti sapere ogni sfumatura di ogni loro opinione.
Ma prova a chiedere cosa ne pensino del senso del dolore, o che cosa significhi per loro una vita degna e piena
: scappano, svicolano, rifuggono. Se ne vanno, ti lasciano solo.
è buffo: per cose come le biotecnologie, di cui non hai esperienza e non sai nulla, ti infervori fino a promuovere petizioni e comitati, e per cose come lo star male o cercare un senso al tuo stare al mondo balbetti, abbozzi, ti nascondi nell’imbarazzo di non avere nemmeno un’opinione. Come se ti riguardasse meno del cultivar del grano da cui si approvvigionano i pastifici.
Le malattie nemmeno si pronunciano, è sconveniente
. Il cancro è un brutto male
(come se poi esistesse un male bello, ma vabbè), chi muore è mancato
, ci ha lasciato
, in un riferimento ossessivo non alla sua esperienza personale, ma soltanto a quella di noi che rimaniamo, divorati da una mania di protagonismo talmente miope che intestiamo a noi persino l’atto più individuale di tutti, morire.
La filosofia? Uguale. Non c’è una canzone, una chiacchiera da bar che volga lo sguardo alle domande vere, autentiche, quelle che rendono la vita complicata e affascinante. Le segreghiamo nella riserva indiana
degli studi umanistici, roba per specialisti, lontana dalla vita reale. E poi passiamo le notti insonni nel tormento e nell’angoscia, ma in pubblico no, non si fa
.
La malattia e la filosofia si somigliano poi anche in quanto occasione di senso.
Proprio perché la ricerca metafisica
(qualunque cosa voglia dire: di questo parleremo più avanti) è accantonata dal discorso pubblico e privato, a scatenarla è di solito uno stato di emergenza, qualcosa che irrompe nell’esistenza e ne fa scempio, distrugge tutto e tutto porta via con sé. Un lutto, un dolore. Una malattia.
Ecco un altro intrinseco legame tra malattia e filosofia. E sgombriamo il campo da un grande elefante nella stanza
: non stiamo parlando di paccottiglia New Age, quelle visioni per cui se ci credi forte forte allora tutto si risolve, se ti ammali è colpa di turbamenti interiori, sciocchezze così. No.
Parliamo della malattia come occasione di mettere in discussione tutto, come chance magari maledetta ma sicuramente privilegiata per riconsiderare la propria esistenza, le proprie priorità, le proprie scelte: davvero era questo l’importante? Davvero era per questo che mi disperavo? E adesso che di tutto questo non ho più nulla, dove vado a cercare qualcosa che plachi la mia sete di senso?
Malattia e filosofia, dunque, si intrecciano e si rincorrono anche in quanto ostensione del noùmeno
. Se è vero, come dice Kant, che della realtà ci arriva in fondo solo una pallida rappresentazione (il fenomeno: quello che possiamo misurare e verificare, di cui possiamo trovare e conservare certezze), ecco, la malattia, e la filosofia che ne viene fuori, sono una straordinaria occasione di trovare la cosa in sé
(il noùmeno: il significato profondo, a cui sentiamo di anelare senza riuscire neanche a trovarne una definizione condivisa), pronta per essere colta, nuda, quasi scorticata, senza pelle, a disposizione della nostra bulimia di senso.
La malattia come noùmeno offerto in dono per noi, come rivelazione di ciò che conta, di ciò che vale, di ciò che abbiamo impiegato una vita intera a dimenticare colpevolmente.
Ecco, questi intrecci tra malattia e filosofia, che sulla carta potrebbero ancora dimostrarsi magari interessanti, ma poco incarnati
nell’esperienza quotidiana del nostro vissuto, diventano nelle riflessioni di Spadoni vere illuminazioni
.
Non però illuminazioni maiuscole, roba da Buddha, niente affatto. Piccole luci quotidiane, segnali, indicazioni stradali. Occasioni di ripensare i nostri gesti, le nostre abitudini, le nostre convinzioni.
Filosofia esperienziale
, la chiama lei.
E non si potrebbe trovare una definizione migliore.
Quando per esempio nel ragionare sull’importanza di porsi domande migliori ci ricorda che i bambini chiedono perché esista il cane, non se esista dio, Spadoni ci riconcilia con la filosofia come ricerca del vivere bene
.
Consapevolezza, felicità, compassione.
Esperienze vissute, non locuzioni vuote.
Ripensare i legacci che hanno reso le parole della consapevolezza formule vuote ai limiti dell’aria fritta, per restituirci la potenza travolgente di domande urgenti, capaci di trasformare l’esperienza.
Il cane è più rilevante di dio, la malattia più del pensiero di pensiero.
Spadoni è affetta da Sclerosi Multipla (ma sono sicuro che l’espressione affetta
non le piaccia affatto, troppo passiva e al tempo stesso troppo fatalista), e vive su una sedia a rotelle, progressivamente meno autonoma anche nelle piccole, irrilevanti incombenze quotidiane: lavarsi i denti, rispondere al telefono, controllare le email, cambiare canale alla tv, leggere un libro.
In tutto questo, senza un cenno di vittimismo, la sua riflessione non prescinde dalla malattia, ma la usa, la trasforma in creta grezza da cui partire per impastare pensieri nuovi, che raccolgono gli spunti dei grandi del passato con attenzione ma senza soggezione, perché è solo nella mia vita, nel mio tempo che io posso – devo, se non voglio rassegnarmi all’angoscia del vuoto – trovare risposte abbastanza interessanti da aprire nuove domande, e così via, sempre più a fondo.
"Io vivo in questa vita e voglio capire cosa ci sto a fare: essere ammalata mi dà un punto di vista