Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La vita del furfante
La vita del furfante
La vita del furfante
E-book263 pagine4 ore

La vita del furfante

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In questo romanzo picaresco Mateo Alemán (1547-1614) racconta un caleidoscopio di avventure, frutto della vita sconclusionata e bizzarra del protagonista, Guzmán di Alfarache. Scritto in uno stile asciutto ed elegante, oltre al predominante sarcasmo nei riguardi della società dell’epoca, vi è nell’opera una profonda vena poetica, soprattutto nel momento della redenzione del furfante, narrata con una tale semplicità e modestia da rendere la psicologia del personaggio molto più complessa e suggestiva di quanto possa sembrare ad una facile lettura. Il libro si inserisce a pieno titolo nella letteratura classica spagnola del tempo, mirando a rappresentare un vivacissimo scenario di costumi e consuetudini dell’epoca, difatti il protagonista è prima cameriere, poi ladro a Madrid, soldato a Genova e buffone a Roma, tracciando, con la sua condotta, un quadro ironico dei luoghi e delle consuetudini sia del popolo che della nobiltà.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ago 2010
ISBN9788874170395
La vita del furfante

Correlato a La vita del furfante

Titoli di questa serie (13)

Visualizza altri

Ebook correlati

Arti dello spettacolo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La vita del furfante

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La vita del furfante - Mateo Aleman

    La vita del furfante

    Mateo Aleman

    In copertina: Michelangelo Merisi da Caravaggio, I bari, 1595, Fort Worth, Kimbell Art Museum

    © 2010 REA Edizioni

    Via S.Agostino 15

    67100 L’Aquila

    Tel diretto 348 6510033

    www.reamultimedia.it

    redazione@reamultimedia.it

    La Casa Editrice esperite le pratiche per acquisire tutti i diritti relativi alla presente opera, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare ragioni in proposito.

    Indice

    PARTE PRIMA

    LIBRO PRIMO

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    LIBRO SECONDO

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    LIBRO TERZO

    I

    II

    III

    IV

    V

    PARTE SECONDA

    LIBRO PRIMO

    I

    II

    III

    IV

    LIBRO SECONDO

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    LIBRO TERZO

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    PARTE PRIMA

    LIBRO PRIMO

    I

    Quando rimasi orfano di padre, scelsi di cercar di sollevarmi dalla miseria, lasciando mia madre e il mio paese; perché nessuno mi conoscesse rinunciai al cognome paterno, mi battezzai Guzmàn con quello materno e Alfarache dal podere che mi aveva visto nascere, e partii alla ventura, raccomandandomi al Signore e pieno di fiducia nella bontà del mio prossimo.

    Ero stato allevato a Siviglia e mi avevano tirato su a forza di leccornie, piú viziato e piú idolatrato del figlio di un creso. Mi era quindi molto doloroso lasciare la casa, i parenti e gli amici, ma non potevo farne a meno, perché avevo una voglia matta di vedere il mondo e per giunta mi trovavo nell’assoluta necessità di andare alla ricerca degli illustri parenti genovesi di mio padre. Tuttavia feci una cattiva speculazione e, pensando di trovare il paradiso in terra, perdetti anche il poco che possedevo, come il cane che lascia la carne per l’ombra della carne.

    Il fatto è che appena chiusi la porta alle spalle gli occhi mi si mutarono, a forza di lacrime, in due Nili; ma non c’era nulla da fare, bisognava che mi rassegnassi. Le lacrime che mi bagnavano il volto, e l’avvicinarsi del tramonto non mi permettevano di vedere né un lembo di cielo né un palmo della terra che dovevo percorrere e quindi, appena fui arrivato a San Lazzaro, che si trova a poca distanza da Siviglia, fui costretto a sedermi sugli scalini che portano a quella santa casa.

    Sugli scalini passai in rassegna la mia vita trascorsa e mi misi a fare progetti per l’avvenire. Capivo di aver fatto una sciocchezza a partir da casa con poco cervello e con poco denaro per un viaggio cosí lungo - denaro del resto ne avevo poco anche per un viaggio cortissimo - e avrei dato chissà cosa per ritrovarmi a casa. Le disdette sono come le ciliege che l’una tira l’altra, e per colmare la misura la sera era buia, era venerdí e io avevo saltato la merenda e la cena. Se fosse stato un giorno di carne, per quanto le lacrime mi togliessero la vista, l’odore mi avrebbe certo condotto a una friggitoria, dove avrei comperato una polpetta e, asciugate le lacrime mangiando, il dolore sarebbe stato men forte, ma cosí... Capii in quel momento che il bene lo si conosce solo quando lo si è perduto e che tra l’affamato e il sazio ci corre una bella differenza. Chi mangia dimentica tutti i propri guai, mentre invece, se manca la bucolica, le gioie sono assenti, i pensieri si moltiplicano, e tutte le soddisfazioni vanno a farsi benedire. Tutti litigano senza motivo; nessuno ha colpa, e tutti la dànno agli altri; tutti fanno castelli in aria e sofisticano.

    Mi accorsi di avere una voglia matta di cenare, e di non aver sottobocca che l’acqua fresca di una fontana; ero nel piú grande imbarazzo, e non sapevo a che santo votarmi. Gli stessi pensieri che mi infondevano coraggio da una parte, dall’altra mi mettevano addosso una tremenda paura. Mi sentivo. tra le paure e le speranze, il burrone davanti agli occhi, e le fauci del lupo alle spalle!

    Volli rimettere la decisione dei miei dubbi al Signore ed entrai nella chiesa, dove feci la mia preghiera non so se devota, ma lunga certo no, perché era l’ora che la chiesa si chiudeva e mi cacciarono subito fuori.

    Intanto la notte si chiuse e con la notte si chiusero le mie meditazioni, ma non la fontana delle mie lacrime.

    Il pianto mi conciliò il sonno e ben presto mi assopii sulla panca che stava davanti al portale. Non so proprio che cosa mi abbia fatto assopire, se non è vero che le paturnie conciliano il sonno come sosteneva il montanaro che portava la moglie a seppellire. Nella sua terra le case sono disseminate e molte sono lontanissime dalla chiesa; il montanaro, passando davanti alla taverna s’accorse che ce n’era di quel buono e, fingendo di aver bisogno di fermarsi per altri motivi, disse: « Andate avanti voi con la defunta: con una trottatina vi raggiungerò subito... » Entrò nella taverna e, bicchiere su bicchiere, s’ubriacò e si mise placidamente a russare. Quando le persone dell’accompagno tornarono dalla sepoltura, lo videro, stravaccato al suolo e lo chiamarono. Si svegliò : « Accidenti ! » esclamò. « Perdonate, amici, ma non c’è cosa che faccia venir voglia di bere e di dormire come i dispiaceri ».

    Forse per lo stesso motivo, io ripresi conoscenza solamente quando il sole del sabato era spuntato da quasi due ore... E non so se mi sarei svegliato tanto presto se non mi avessero scosso dal sonno i tamburelli, i canti e i balli di un gruppo di donne che venivano per uno sposalizio.

    Mi alzai, affamato e insonnolito nonostante la grossa dormita, e mi guardai attorno trasecolato, credendo di sognare. Quando capii di esser desto, dissi tra me: « Non c’è piú niente da fare. Che Dio mi aiuti ! »

    Mi rimisi in cammino senza una meta. Presi la strada che mi parve piú bella, risoluto ad andare dovunque essa mi avesse portato. Nelle famiglie e nelle repubbliche mal governate, dice il proverbio, quando non lavora la testa, lavorano le gambe.

    II

    Quel giorno, stanco morto per aver fatto solo un paio di leghe scarse - erano le prime che facevo in vita mia - mi parve di essere arrivato addirittura agli antipodi e di aver scoperto un nuovo mondo come il famoso Colombo. Giunsi a una locanda sudato, impolverato, avvilito e quel che piú conta, famelico, i denti aguzzi e lo stomaco illanguidito. Poteva essere mezzogiorno. Chiesi da mangiare e l’ostessa mi rispose che c’erano soltanto uova. Magari fossero state soltanto uova! O per il gran caldo che faceva o perché la volpe le avesse saccheggiato il pollaio, la maledetta ostessa aveva soltanto uova fradice e, per non buttarle via, le metteva assieme con quelle buone. A me però, che Dio la stramaledica! le diede tutte marce... Mi vide ragazzo, roseo, tondo e tonto, e pensò che avrei mandato giú qualunque porcheria.

    « Di dove siete, figliolo ? » mi domandò, e quando le ebbi risposto che ero di Siviglia, mi si fece piú vicino, mi diede un paio di buffetti sotto il mento e prosegui: «E dove va il nostro sbarbatello ? »

    Gran Dio del cielo ! A sentire il suo alito fetido mi parve di esser diventato un vecchione e di aver acquistato di colpo tutti i malanni della vecchiaia ! Se in quel momento avessi avuto qualcosa nello stomaco lo avrei senz’altro vomitato, perché mi sentivo le budella a un dito dalle labbra...

    Le risposi che mi recavo alla capitale e che volevo mangiare. Mi fece sedere su uno sgabello zoppo poi, disteso su un bancone uno strofinaccio da forno, ci mise una saliera fatta col fondo di una giara, un albioletto da galline pieno d’acqua e una mezza pagnotta piú nera della presunta tovaglia, e infine mi servi una frittata che si sarebbe potuta chiamare un impiastro d’uova.

    Le uova, il pane, la bottiglia, 1’ acqua, la saliera, la tovaglia e la locandiera erano tutta una cosa. Ma io non capivo niente; avevo lo stomaco vuoto e le budella che si urtavano nel vuoto. Mangiai a occhi chiusi, come il porco mangia il suo pasto; mi sentivo crocchiare sotto i denti gli ossicini teneri degli sventurati pulcini, ma non me ne davo per inteso. Per dire la verità, mi accorsi che il loro sapore era diverso da quello delle uova che solevo mangiare nella casa di mia madre, ma attribuii la novità del sapore alla fame e alla stanchezza, e poi pensavo che le uova non dovessero avere lo stesso sapore in tutti i paesi. Insomma, affamato com’ero, presi tutto per buono. Il cibo non era molto abbondante e con la fame che avevo, lo feci sparire in un baleno. Il pane invece mi fu piú duro da mandar giú, perché era molto cattivo. Lo mangiai a rate, aspettando che un boccone fosse disceso nello stomaco per far posto all’altro nella bocca. Prima mangiai la crosta e poi mi feci coraggio a mangiare anche la mollica che era colla bella e buona, ma alla fine me lo mangiai tutto senza neanche lasciare alle formiche la carità di un po’ di briciole. L’annata era stata grama per via della siccità e Siviglia, che stava male anche nelle annate prospere, soffriva maledettamente. Il motivo di questa specialità... Sono sivigliano e preferirei cucirmi la bocca su questo argomento, ma è purtroppo vero che a Siviglia tutti comprano le cariche al solo scopo di trovarci il proprio tornaconto, lecito o illecito che sia. Per arraffar prebende tutti sono disposti a buttar via migliaia di scudi, ma prima di dare un quattrino di elemosina a un poveraccio, gli fanno il processo. Siviglia insomma, per un motivo o per l’altro, è sempre tenuta a stecchetto, e quell’anno era ancora piú affamata del solito per via delle ruberie di quelli che dovevano provvedere ai suoi bisogni e che invece provvedevano soltanto ai propri.

    Pane buono non se ne poteva trovare, ma in quel momento non avevo nessuna voglia di far lo schizzinoso. Mangiai di gusto e ci bevvi sopra allegramente, perché i vini di quella terra sono sempre generosi.

    In tal modo mi tirai su un poco e i miei piedi che prima s’erano stancati di portare il ventre vuoto, adesso lo trascinavano volentieri pieno.

    Ripresi cosí la strada non senza sentirmi piuttosto preoccupato per gli attentati che le uova mi facevano in bocca. Piú ci pensavo e piú lo spavento cresceva; e lo stomaco mi si alterava sempre piú. Certo, dovevano essere una porcheria; erano state cucinate male, l’olio era nero come il fondo di una lucerna, il tegame era sudicio e la locandiera cisposa...

    Alla fine, di ipotesi in ipotesi, scoprii la verità, e fatta una lega di strada, non mi seppi piú frenare. I rutti, andavano e venivano di continuo dallo stomaco alla bocca, che mi pareva di essere una donna gravida e a un brutto momento non mi rimase piú niente in corpo, ma quegli sventurati pulcini, me li sento pigolare nel ventre anche adesso.

    III

    Me ne stavo disteso al suolo con la testa sul braccio, quando passò vicino a me un mulattiere che portava le sue bestie a caricar vino nella borgata di Cazalla de la Sierra. Costui, vedendomi in quello stato, ragazzo, solo e martoriato, cominciò - cosí almeno credetti sul momento - a dolersi del mio infortunio. Mi domandò che cosa avessi e io gli raccontai la mia avventura nella locanda, ma non potei neanche finire la mia storia, che il mulattiere fu preso da una tremenda ridarella. Ci restai mortificatissimo; il mio volto, che prima aveva il pallore dei morti, si accese di collera contro di lui; ma non mi trovavo nel mio ambiente, ero disarmato e in uno spazio deserto, e perciò mi trattenni dal dirgliene quattro. Non potei però fare a meno di gridargli risentito:

    « Ho forse le corna in testa che vi faccio ridere tanto, fratello ? »

    ll mulattiere non smise di ridere; anzi pareva che ridesse a cottimo tanto ci si affannava e ci si sganasciava con la testa abbandonata su una spalla e la pancia tra le mani.

    Sembrava che non si potesse piú reggere in sella, o fosse lí lí per rotolare al suolo col suo somaro. Tre, quattro volte tentò di rispondermi senza riuscirci, perché la ridarella ricominciava da capo; come un liquido che gli bolliva nel corpo.

    Quando Dio finalmente volle la risata cessò: il mulattiere tirò il fiato e poi, incespicando di tanto in tanto, riuscí a dirmi:

    « Ragazzo; non rido della vostra brutta avventura e non godo delle vostre disgrazie... Rido invece per quello che è capitato a quella vecchia strega un paio d’ore fa. Avete incontrato per caso due giovanotti dall’aria di soldati ? Uno ha un vestito verde a righe di mille colori e l’altro i calzoni di panno grigio e il giubbetto bianco a spicchi ?... »

    « I due giovanotti che rispondono a questi connotati » gli risposi « se non ricordo male, si trovavano nella locanda quando io ne stavo uscendo. Erano arrivati da poco e avevano chiesto da mangiare ».

    « Proprio quelli ! » esclamò il mulattiere. « Sono loro che vi hanno vendicato e io mi sganascio appunto pensando al tiro che essi hanno giuocato alla locandiera. Se fate questa strada, montate su uno dei miei giumenti, che vi racconterò la storia... »

    Lo ringraziai come si deve, dicendogli tutte le buone parole che mi sembrarono sufficienti a fare da scotto: quando non esiste altra moneta le opere buone si pagano con buone parole - presi per il destro il mio giumento e con l’aiuto del mulattiere, mi issai in groppa.

    Appena ci fummo messi in cammino, fatti si e no cento passi, trovammo seduti sotto lo stesso muricciuolo due preti che aspettavano qualcuno che li portasse in sella a Cazalla. Erano di quella borgata ed erano stati a Siviglia per un certo ricorso. Il volto e l’atteggiamento li dimostravano onesti e poveri. Parlavano molto bene e in quanto all’età uno doveva essere sui trentasei anni, e l’altro doveva superare i cinquanta. I due preti fermarono il mulattiere, trattarono con lui, e facendo come me, montarono in groppa.

    Il viaggio continuò. La ridarella di quel brav’uomo era cosí insistente che gli riusciva a stento di raccontare: una parola e tre risate, una parola e tre risate.

    Quelle soste erano per me tanti colpi di lancia. Chi desidera di sapere una cosa vorrebbe che una parola spingesse l’altra in modo che tutte uscissero insieme dalla bocca in un attimo. Io scoppiavo dalla curiosità perché speravo che da una simi1e preparazione dovesse nascere un avvenimento colossale. Pensai che il fuoco del cielo avesse bruciato la casa, o che i giovanotti avessero arsa viva l’ostessa, o che almeno, per farla piú a buon mercato, l’avessero appesa da piedi a un olivo e le avessero dato mille vergate, lasciandola come morta.

    Finalmente, quando Dio volle, la montagna partorì il topo. Per farla breve, il mulattiere ci raccontò come, essendosi fermato a bere un goccio e ad attendere un compagno rimasto indietro, aveva visto l’ostessa mettere su un piatto una frittata di sei uova, tre cattive e tre un poco meno. I due giovanotti mentre se la stavano spartendo, ci avevano trovato un poco di resistenza, e s’erano accorti che un pezzo andava da una parte e un pezzo dall’altra. Avevano pensato subito a un brutto scherzo, a forza di spalancare tanto d’occhi, avevano saputo ben presto la verità. La frittata era fatta ad alti e bassi e chiunque all’infuori di me si sarebbe messo sull’avviso al solo guardarla. Io ero un ragazzo, ma i giovanotti piú curiosi e piú esperti, l’avevano esaminata in modo che vi avevano scoperto tre casine tonde come tre testoline informi. I beccolini già piuttosto duretti parlavan chiaro: una delle testoline, presa tra le dita, aveva parlato col suo becco, pure essendo morta, e proclamato ad alta voce il suo vero essere. I due giovanotti allora avevano coperto il piatto e si erano messi d’accordo tra loro sotto voce.

    Per il momento il mulattiere non aveva capito quello ch’era avvenuto, ma lo aveva capito piú tardi. Uno dei due aveva chiamato subito l’ostessa e le aveva chiesto:

    « Ostessa, avete qualche cos’altro da darci ? » Pochi momenti prima le avevano venduto un dentice e gli stava levando le squame.

    « Se volete un paio di fette di questo dentice... aveva risposto la vecchia, « altro non c’è ».

    Ce ne dovete arrostire subito due fette, nonnina, perché dobbiamo partire. Fate bene i vostri conti che se si va d’accordo, ci porteremo via il resto.

    La vecchia aveva risposto che il dentice valeva un soldo tondo la fetta; i due avevano sostenuto che con un soldo si poteva avere tutto. Il mercato si era concluso per due soldi, perché i cattivi pagatori non tirano mai sul prezzo.

    L’ostessa aveva tagliato il dentice e aveva arrostito le due fette che i giovani si erano mangiate; poi ficcato il resto del pesce entro una borsa, invece di farsi fare il conto con relativo pagamento, avevano effettuato il pagamento senza il conto: uno dei giovanotti, presa in mano la frittata, e recatosi dove la vecchiaccia stava sventrando una pecora morta di malattia, gliel’aveva spiaccicata sul muso sfregandogliela contro gli occhi. La vecchia, tanto gli occhi le facevano male, non aveva il coraggio di aprirli e gridava come una pazza.

    L’altro giovane, facendo finta di deplorare la mascalzonata del compagno, aveva sparso sul volto dell’ostessa un pugno di cenere calda; poi assieme avevano infilato la porta e le avevano gridato:

    « Vecchia maledetta ! Cosí si puniscono gli imbroglioni ».

    L’ostessa, sdentata, con la bocca accartocciata, gli infossati, scarmigliata e sudicia di sugo, era rimasta infarinata come un barbo da mettere in padella e irrigidita in un atteggiamento di sdegno tanto buffo che il mulattiere, quando lo rivedeva, non poteva trattenere il riso.

    Cosí fini il suo racconto. Siccome poi aggiunse che ormai aveva di che ridere per tutta la vita, io osservai:

    « E io di che piangere per tutta la mia, specialmente perché ho dovuto dipendere per la vendetta dalla mano altrui. Ma giuro che, se Dio mi dà vita, me la dovrà pagare in modo che non si potrà più dimenticare delle sue uova e di questo ragazzino ».

    IV

    Quando arrivammo a Cantillana i due preti ci lasciarono per andare in casa d’amici; io, rimasto solo col mulattiere, gli chiesi:

    « E noi dove andiamo ? »

    « Conosco io un oste » mi rispose « che ha delle belle camere e che fa un trattamento da principi ». E mi portò nella locanda del piú grande ladro che esistesse in quel momento in tutta la Spagna! Ti assicuro, amico lettore, che anche stavolta troverai da divertirti alle mie spalle, perché dalla padella caddi nella brace e cercando di schivare Cariddi andai a sbattere contro Scilla...

    Il locandiere di cui ti parlo aveva per i suoi servizi un discreto somaro e una cavallina galiziana. I due animali stavano sempre assieme: avevano la stessa scuderia, la stessa mangiatoia, lo stesso prato, e il padrone non si dava molta briga di tenerli legati; anzi li lasciava a bella posta perché si ingegnassero a toglier la biada alle cavalcature dei forestieri.

    La conclusione di questo sodalizio fu che la cavalla rimase pregna. Ora bisogna sapere che in Andalusia c’è una legge molto severa contro questi incroci: il locandiere quando la cavallina gli ebbe partorito il muletto, avrebbe voluto allevarselo, ma poi ebbe paura di non poter farla franca, e lo fece abbattere proprio nella notte di quel famoso venerdì.

    Messa la carne a frollarsi, preparò le frattaglie, la lingua e le cervella, per gli ospiti del sabato, e noi giungemmo a tempo giusto, perché il forestiero che arriva col sole è sempre il meglio accolto, trova sempre roba da mettere sotto i denti e letto su cui coricarsi.

    Il mio compagno, dopo aver tolto i basti ai muli, cominciò a sistemarli nella scuderia; io invece ero tanto maltrattato che non mi potevo reggere sulle gambe. Le cosce mi doloravano, le piante dei piedi erano gonfie a forza di portarle penzoloni senza staffe, il sedere era scardassato e l’inguinaia tanto indolenzita che mi pareva d’averci un pugnale dentro. Ero direnato e affamato; perciò, quando il mio compagno, finito di

    badare ai suoi giumenti, venne

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1