Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La divinità nemica
La divinità nemica
La divinità nemica
E-book968 pagine14 ore

La divinità nemica

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La Divinità Nemica è un testo per analisti, ma anche per profani desiderosi di addentrarsi nei misteri della psiche.
È stato scritto da un uomo per gli uomini fieri di esserlo.
Perché per gli uomini?
Perché si pubblicano molti libri per donne, di donne, su donne. Nei film esse interpretano ruoli catartici e salvifici. Nei dibattiti, nel giornalismo, in talune professioni liberali, nel costume, possono farsi sostenitrici di rigidi schemi mentali e comportamentali. Molti uomini si adeguano, o per sedurle o per compiacerle o per non subirne iraconde rimostranze. Si mascherano da cicisbei.
I più fiacchi mentono, i più forti non si piegano e si aggirano come lupi solitari, furiosi perché non trovano compagne di lotte per propri ideali. Le donne finiscono col non sapere più cosa sia un uomo e ne lamentano la scomparsa.
La Divinità Nemica mette in guardia da un eccessivo potere del femminile nel mondo occidentale, potere rampante dappertutto cinquemila anni fa, e ancora dominante nella maggior parte delle aree del globo. È un testo da leggere con impegno, un libro non facile.
Tra tanti luoghi comuni incrollabili, pietrificate opinioni Erich Weisz naviga per fare aprire gli occhi del lettore sul fatto che tante devastanti menzogne sono volte a riportare al potere assoluto nella cultura occidentale una divinità arcaica ostile al maschio della specie e al progredire della specie umana. Per lui tale divinità nemica è la Grande Madre.
Qualche esempio? Non è vero che in un individuo l’equilibrio si raggiunge con l’equilibrio tra la parte maschile e la parte femminile né si sa cosa tali “parti” siano davvero. Non è vero che l’anima è un archetipo che può “far crescere” un maschio soltanto se proiettato su una donna, farlo procedere dallo stato beluino a quello di “vero uomo” o, più falso ancora, da bambino ad adulto. Semmai sono le donne a essere le eterne bambine.
Non è vero che un uomo possa avere pace soltanto armonizzando in unità di tutte le componenti della psiche. Al contrario, può raggiungere se non quiete almeno dignità e rispetto per se stesso soltanto imparando a navigare tra le sue contraddizioni, nel suo caos.
Un altro luogo comune da sfatare? La teoria della santificante conciliazione degli opposti. Conduce a scelte devastanti per la società e assassine per l’individuo, è la culla di ogni bastardo compromesso politico, è il frutto avvelenato del pensiero di Hegel e dell’eterno oscillare tra assolutismo assassino e lassismo scatenato proprio della sua patria tedesca.
Erich Weisz esamina tutti questi “miti” dell’età moderna, “miti” nel senso etimologico di indiscutibili verità. Sono verità assolute come in passato lo sono state quelle che affermavano essere i negri non umani, la terra piatta, le donne inferiori quando non streghe, unico dio il dio dominante della cultura militarmente superiore. Ipotesi da cui Erich Weisz deduce essere ogni guerra una guerra tra dèi, combattuta con la carne e il sangue degli umani.
Si sconsiglia la lettura de La Divinità Nemica a conformisti e iracondi, qualunque sia la loro età e il modo di esprimere la propria sessualità. Anche agli uomini “dolci e carini”. E, naturalmente, alle signore che “conoscono bene gli uomini”.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mar 2015
ISBN9788890460258
La divinità nemica

Correlato a La divinità nemica

Ebook correlati

Psicologia per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La divinità nemica

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La divinità nemica - Erich Weisz

    LA DIVINITÀ NEMICA

    SAGGIO ROMANZATO SUL PROCESSO D’INDIVIDUAZIONE MASCHILE

    di

    ERICH WEISZ

    Traduttore e curatore: Enrico Francot

    Copertina: idea di Enrico Francot, illustrazione di Alessandra Micheletti

    ©

    ®

    www.ossessioneespressaeditore.net

    ISBN 978-88-904602-5-8

    TERZA RISTAMPA

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia di lettura privata devono essere inviate a:

    info@ossessioneespressaeditore.net

    Follia è ripetere le medesime azioni

    convinti che il risultato sarà diverso

    Meglio comunque navigare in un delirio paradossale,

    fonte di ogni maschile creatività,

    che essere rinchiusi in una realtà delirante,

    prigione eretta da una divinità nemica dell’uomo

    Senza il senso del divino,

    e senza l’ostinazione del ricercatore pazzo,

    noi uomini saremmo misera cosa

    Let a man give himself as much as he liked in love,

    to seven thousand extremities, he must never give himself away.

    The more generous and the more passionate a soul, the more it gives itself.

    But the more absolute remains the law, that it shall never give itself away.

    Give thyself, but give thyself not away.

    That is the lesson written at the end of the long strange lane of love.

    Aaron’s Rod, David Herbert Lawrence

    Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo coppieri che gliene versano quante ne vuole, fino a ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, son dichiarati tiranni.

    E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui; che i giovani pretendono gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi e questi, per non parere troppo severi, danno ragione ai giovani.

    In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo né rispetto per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.

    Repubblica, LibroVIII, Platone

    PREFAZIONE DEL TRADUTTORE E CURATORE

    PRIMA PARTE

    INCONTRO A DISTANZA DI DUE UOMINI REMOTI

    CAPITOLO I

    La luna e gli specchi di Moise e Avraham

    CAPITOLO II

    Riflessi e riflessioni di Avraham su un antico testo

    CAPITOLO III

    L’incontro di Avraham con un misterioso Armeno e la nascita della filopsichia

    CAPITOLO IV

    La cacciata dall’università e dell’armonia dei conflitti nella psiche di un uomo

    CAPITOLO V

    I deliri di Moise

    CAPITOLO VI

    Moise rievoca il professore

    CAPITOLO VII

    Cena a Milano. L’"anima" di un uomo è una funzione maschile

    CAPITOLO VIII

    L’amara fanciullezza e la dissennata vita di Avraham

    CAPITOLO IX

    Lo stupro psichico del bieco Gaetano

    CAPITOLO X

    Avraham scopre i riflessi degli specchi e organizza l’antro

    CAPITOLO XI

    Moise rinuncia a ricordare. Nasce l’esigenza di un dio amico.

    CAPITOLO XII

    Rivkah

    CAPITOLO XIII

    Avraham e gli dèi. Ricordi dei figli. La sua solitudine

    CAPITOLO XIV

    Moise scopre falsi miti. Appare un omino grigio

    CAPITOLO XV

    I labirinti dell’emotività

    CAPITOLO XVI

    Tre divinità misteriose compaiono ad Archeo

    CAPITOLO XVII

    Dino Ermete telefona ad Avraham e gli rammenta sue paradossali esternazioni

    CAPITOLO XVIII

    Moise scolpisce meglio il ritratto della Grande Madre

    CAPITOLO XIX

    La furia di Moise si scatena e si tinge di sangue

    CAPITOLO XX

    La ruota a due assi. Il sogno di Avraham. Caleidoscopio, psiche e quanti di Planck

    CAPITOLO XXI

    Kshatriya chiede pane e parla di sua sorella

    SECONDA PARTE

    TRA ILLUSIONI E REALTÀ

    CAPITOLO XXII

    Ciance di femmine e parole di uomini

    CAPITOLO XXIII

    L’ardua ed eterna missione affidata dagli dèi ad Archeo

    CAPITOLO XXIV

    Il pensiero paradossale e l’incontro di Archeo con gli dèi

    CAPITOLO XXV

    Nel palazzo di cristallo. Dioniso e Hades si rivelano

    CAPITOLO XXVI

    Un lavoretto da sicari

    CAPITOLO XXVII

    Moise rievoca Hillel e Shammai e Paolo di Tarso. Rammenta il padre Glauco

    CAPITOLO XXVIII

    Moise rivive il sogno di Clio, la Musa della Storia, al Polo Nord. Compare Ulupi

    CAPITOLO XXIX

    Moise conosce il distacco che nasce dal disprezzo. Associa Ulupi a Clio

    CAPITOLO XXX

    Una vittima sacrificale per la Grande Madre

    CAPITOLO XXXI

    Moise sale nel vortice rovesciato e si mette al lavoro con Avraham

    CAPITOLO XXXII

    Ancora di fiumi, di ponti, di fonti

    CAPITOLO XXXIII

    Il pianto di Moise

    CAPITOLO XXXIV

    Ulupi e Kshatriya difendono Moise e Avraham

    CAPITOLO XXXV

    La Digos indaga

    TERZA PARTE

    PRESI DAI MITI

    CAPITOLO XXXVI

    Moise e Archeo

    CAPITOLO XXXVII

    Ulupi e Kshatriya guerrieri

    CAPITOLO XXXVIII

    Il secondo viaggio a Vernazza o dei riflessi

    CAPITOLO XXXIX

    Persefone e la furia della Dea Nemica

    CAPITOLO XL

    Le due donne di Roma

    CAPITOLO XLI

    Moise e il resto del mondo

    QUARTA PARTE

    LA VENDETTA DELLA DEA

    CAPITOLO XLII

    Moise è nel vuoto del tempo. Avraham vive la fonte e l’allucinazione di Archeo

    CAPITOLO XLIII

    Le ombre del maschio e la grande Ombra. Il calice amaro dell’assenza

    CAPITOLO XLIV

    Moise e Avraham e la loro comune vita

    CAPITOLO XLV

    Moise e Avraham espellono le sacerdotesse della Grande Madre

    CAPITOLO XLVI

    Il toro di Ishtar

    CAPITOLO XLVII

    Moise e il suo dio

    EPILOGO

    FINE

    PREFAZIONE DEL TRADUTTORE E CURATORE

    Questa saga di riflessi e riflessioni narra di uomini e dèi. Gli dèi intervengono in umane vicende come facevano in remoti poemi epici o come sono sentiti vivi e presenti e invocati ogni giorno in famiglie religiose d’ogni credo.

    Gli dèi di questa saga non sono come i pupazzi di un cartone animato o le figure costruite al computer in storie contemporanee di grande successo, in film e romanzi. Sono dèi più difficili da sentire. Non sono mere immagini commoventi. Non offrono effetti visivi speciali in 3D, roba da videogiochi. Sono dèi veri ed eterni. Possono quindi disturbare molti, come disturbano le verità più profonde, le verità che si agitano nel profondo dell’inconscio. Se inascoltate, possono persino sconvolgere, irritare, fare arrabbiare.

    Questa saga dissacra molte opinioni correnti e se ne sconsiglia, quindi, la lettura a conformisti e iracondi, qualunque sia la loro età o espressione sessuale.

    Le figure divine compariranno più avanti in questo saggio romanzato. Ad apparire subito sono i due protagonisti umani. Il primo è Moise Schwarz, un uomo dai tratti del viso tanto mutevoli da poterlo immaginare uomo senza volto.

    L’altro protagonista è un vecchio rigattiere, Avraham: Rosso di cognome e di capigliatura.

    PRIMA PARTE

    INCONTRO A DISTANZA DI DUE UOMINI REMOTI

    CAPITOLO I

    La luna e gli specchi di Moise e Avraham

    Nella notte dell’11 agosto 1999 la luna si levò tardi sui tetti di Milano, ben prima che il cielo si rischiarasse d’aurora. Di lì a poche ore avrebbe oscurato il sole. Al primo sorgere era piena e possente. Il suo arrogante pallore invase prepotente il buio della volta senza stelle. La sua gelida luce svegliò Moise Schwarz e Avraham Rosso nei loro appartamenti, distanti pochi chilometri tra loro.

    Pur remoti spiritualmente avevano in quegli istanti due cose in comune.

    Entrambi nulla sapevano dell’imminente eclissi. In quel periodo non leggevano i giornali né accendevano la televisione che avevano preannunciato l’evento a profusione. Perso tra altri remoti pianeti, Avraham non se ne sarebbe neanche accorto. Moise non avrebbe mai immaginato che in coincidenza con quell’evento astrale avrebbe ucciso un altro uomo, dopo tanti altri che aveva ammazzato. Gli avrebbe tolto la vita staccandogli di netto la testa.

    Entrambi si destarono con accanto il corpo nudo di una bella donna. Null’altro avevano in comune.

    Moise reagì alla vista della donna con rabbia. Avraham la sfiorò con un sorriso.

    Moise, al ricordo di avere fatto sesso con una semisconosciuta, si maledisse per essere di nuovo ricorso al coito con una femmina per sfuggire al mistero e alla miseria della propria vita. Si percepì verdebile, gli occhi iniettati di sangue. Né la sua rabbia era frutto del tormento di un’anima forte. Anima? Puah! Lui ne negava l’esistenza. Cos’è quella roba là?, chiedeva sardonico a chi gliene parlava. Ben altra fonte aveva la sua collera. Era chiusa nella buia caverna dell’ostinato rancore dei caratteri fiacchi. L’umida cupola dell’immensa grotta distillava gocce battenti al suolo. Il loro suono era come il ticchettio di un ostinato orologio a pendolo. Gli perforava il cervello.

    Avraham pensò alla sua compagna di letto con la gratitudine del vecchio per la generosità della donna concessasi. Prese ogni precauzione per non strapparla alle braccia del sonno. Subito si precipitò al suo tavolo da lavoro, una lastra di marmo grande come un letto a due piazze. Si mise a leggere un testo in greco antico.

    Con altrettanta attenzione a non svegliare la femmina si mosse Moise. Ben diversa era la ragione. Già la detestava. Prima di liberarsi di lei avrebbe dovuto affrontare la fatica di piegarsi alle sue pressanti esigenze per chissà quanti giorni.

    La lingua era gonfia e ruvida, intonata con il gusto di marcio nella bocca. Si chiese come nella notte avesse potuto sopportare il suo fiato. Lei, nel letto estivo, si era congiunta a lui tra baci appassionati. Doveva essere stata presa da repentine onde di voglia di essere penetrata. Gli era parso strano.

    Diceva di chiamarsi Francesca e di essere sua vecchia amica. Vecchia? Non era possibile. Era più che sicuro di trovarsi a Milano da pochi mesi. Era scampato a una rissa a coltellate in un monastero medioevale.

    Non capiva perché l’avesse puntato così ostinata: non era ricco né socialmente rampante.

    Aprì l’anta di un vecchio armadio al lato del letto con grande cautela per evitare il suo consueto cigolio sinistro. Aveva bisogno di un paio di pantaloni leggeri. Gli occorrevano per la giornata che già prima dell’aurora si annunciava torrida. A tastoni ne tirò fuori uno che non metteva da tempo.

    L’anta guaì appena. Era pesante nonostante Moise ne avesse fatto rimuovere l’ampio specchio trovato quando aveva preso in affitto l’alloggio. La grande orbita quadrata del guardaroba era cieca, di legno scuro.

    Il rapporto con gli specchi rendeva profondamente diversi Moise e Avraham ma, modificandosi, avrebbe modificato la vita di entrambi. Moise ne aveva terrore, Avraham ci viveva immerso.

    L’avversione di Moise per gli specchi era feroce. Gli inviavano irriconoscibili immagini di sé, sempre diverse, al punto di non saper più quali fossero i propri veri tratti. Né ricordava di come fossero stati in origine, nella prima gioventù. Non ne aveva reminiscenze. Stava alla larga da ogni superficie riflettente.

    Non usava lo specchio neanche il mattino mentre si lavava la faccia o per pettinarsi i capelli. Li riavviava con le mani. Tanto non c’era modo di domarli, ribelli che erano. La donna che stava dormendo lì vicino era stata capace di sfoltirglieli di recente. Li aveva visti cadere a ciocche rossastre sotto le forbici ma non era certo fossero stati sempre così. Li avvertiva arruffati sopra la fronte alta.

    Convinto di avere vissuto infinite vite, per non cogliere il proprio ritratto della vita corrente, girava per le strade con scuri occhiali sul naso. Le lenti erano quasi nere per non vedersi nelle vetrine, se ce n’erano, o nei finestrini di bus e tram di passaggio, se simili macchine appartenevano alla vita che stava vivendo. Preferiva intravedersi ombra vaga, un fantasma.

    Se per caso coglieva la propria figura, evitava di fissarla. Guai poi a osservarsi gli occhi: il suo sguardo gli infondeva panico a vederli verdi scuro come le foglie di un albero in una foresta già investita dall’ombra del tramonto. Aveva paura di scorgervi il terrore che lui stesso provava per il mistero della sua esistenza. Quando per accidente gli accadeva, gli sembrava di impazzire.

    Le femmine che accoglieva in casa gli rimproveravano l’assenza di specchi. Lui non si piegava.

    Pur cercando di tenere sempre nascosti i propri tratti, quella notte non aveva dubbi: la mancanza di sonno gli aveva gonfiato le borse sotto gli occhi che supponeva, chissà perché, celesti.

    Per Avraham, invece, gli specchi erano parte essenziale della sua vita. Ne aveva a decine intorno a sé. Erano gli articoli preferiti del suo commercio. Faceva il rigattiere per passione, oltre che per arrotondare una propria esigua pensione messa insieme per miracolo in una vita disordinata dai cento mestieri

    Nel grande soggiorno ce n’erano appesi dappertutto e di ogni tipo, pure di colorati e di deformanti. Erano fissati alle pareti, alle ante delle credenze, alle porte. Ce n’erano di incollati negli angoli tra i muri e tra i muri e il soffitto, sullo stesso soffitto. Il vano era una scatola di specchi.

    Il suo era tutto un mondo fantastico di riflessi. Ci si muoveva come alla ricerca di un mistero da svelare. Non sapeva bene quale, ma era sicuro che avrebbe trovato qualcosa che gli avrebbe dato pace dopo una vita caotica, vittima di menzogne, squassato da una grave malattia della mente. In pochissimi sapevano della sua mania. Quando arrivava qualcuno, li copriva per non suscitare imbarazzo negli ospiti.

    Tra gli specchi ondeggiava una selva di pannelli, alcuni di stoffa, altri di lastre di materiali vari che chissà dove aveva scovato. Erano a tinta unita o a colori variegati o raffiguravano episodi della mitologia induista o greca, o scene umane: cacce, coppie o gruppi flirtanti o copulanti, eroi in torneo o in lotta contro mostri, o personaggi seduti, ritti in piedi, sdraiati, o paesaggi con creature fiabesche. Un occhio esperto avrebbe riconosciuto alcuni pezzi come preziosi arazzi.

    Pendeva poi in giro una ragnatela di cavi e corde e bacchette che scendevano giù ad altezza delle braccia di un uomo. Tra gli specchi erano visibili binari e carrucole. Si capiva che tutto quell’armamentario doveva servire a nasconderli.

    Con i panelli tirati giù, fluttuanti in parallelo a soffitto e pareti, l’interno dell’ambiente si trasformava in un arlecchinesco poliedro scaleno, in uno spazio dove erano negate tutte le regole di prospettiva. I suoi visitatori rimanevano sconcertati. Si sentivano in uno spazio senza l’ortogonalità che regola la visione umana.

    Quando era solo, o con le rarissime persone con cui era in intimità, copriva o scopriva i suoi specchi, tutti o in parte, secondo una regia dettata o dalle circostanze o da propri segreti criteri. Gli specchi erano coperti anche quando Avraham si prendeva una pausa dal vedersi riprodotto all’infinito. C’era un limite, lo sapeva. A spingersi oltre, c’era la perdita di senno, la follia da cui non ci sarebbe stato ritorno. Quella notte d’agosto erano tutti ben visibili e vibranti nella semioscurità. Avraham non amava la luce. Anche di giorno apriva le persiane quando il cielo si faceva buio o si scatenava un temporale, oppure di notte.

    Moise odiava la luna. Gli incuteva terrore. I suoi raggi gli facevano annaspare lo spirito in un groviglio di ricordi tenui come ombre, facili a confondersi tra loro. La massa di quei ricordi lo schiacciava.

    Aveva aperto gli occhi con il cuore gonfio di rabbia. Era furioso per essersi svegliato in piena notte. Era precipitato nel sonno poche ore prima ed era ancora stanco. Imprecò contro la sua incapacità di riaddormentarsi. Non ci riusciva mai, una volta destato.

    Subito aveva pensato che avrebbe avuto una giornata peggiore delle altre, già di norma tutte spregevoli.

    Avraham invece amava la luna. Lo confortava. Con lei si lasciava andare per gioco a fiabe di esseri deformi dalle lunghe dita adunche per affilate unghie e dagli occhi di brace. Non aveva paura di Selene, della divinità lunare degli antichi Greci. La luna gli dava pace. Era tra le poche luci che lasciava entrare volentieri nella propria vita. Non se ne sentiva aggredito. Anzi, per quanto uomo inquieto, quegli ectoplasmi fantastici lo distraevano da ben più tristi riflessioni sulle terrene realtà. Erano un diversivo. La luna così piena non gli faceva venire in mente i lupi mannari, povere creature sofferenti. Né lui somigliava a un lupo. Se proprio lo si avesse voluto accostare a un animale notturno, ossuto e tutto nudo com’era, somigliava a un pipistrello; più che mai quando, gomiti all’insù, si allungava con il busto a cercare tra gli sparsi fogli verso il bordo più lontano della vasta lastra di marmo, la sua superficie di lavoro.

    Vi sfogliava impolverate pagine. Raccontavano di un giovane vissuto millenni addietro. Sorrise al cappello poggiato su uno dei due corni a foglia d’acanto della sedia di fronte, una sedia falso Rinascimento, dei tempi delle bisnonne e dei mobili ritti su zampe di leone. Era un cappello floscio a larghe falde, verde sottobosco. Era impalato un po’ sulle ventitré. La brezza notturna lo faceva ondeggiare di tanto in tanto. Avraham lo immaginava come il copricapo di Hades, il dio degli Inferi.

    Amava la versione del mito che quando il dio lo indossava diventava invisibile. Quel feltro stava ad Hades come il fulmine a Zeus e il tridente di Poseidone. Insomma era il simbolo del suo potere nel suo regno, il regno dell’Aldilà. Hades l’aveva prestato a Perseo quando l’eroe aveva dovuto affrontare e uccidere Medusa, la Gorgone con la testa irta di serpenti che pietrificava gli uomini col proprio sguardo.

    Nelle lunghe giornate e notti di solitudine, quel copricapo gli faceva compagnia. Era il suo confidente, il più delle volte suo immaginario polemico contraddittore. L’aveva incontrato, se così si può dire, in una stanza segreta nell’appartamento di sotto, un giorno di pochi anni addietro. Era stata una circostanza che aveva cambiato la sua vita.

    Non riteneva di avere davvero seduto davanti a sé il dio degli Inferi. Non era mica matto. Ma si divertiva a immaginare che il copricapo nascondesse un Uomo Invisibile, un compagno degno di dividere con lui la sua casa, casa dove trascorreva gran parte del proprio tempo. Gli si rivolgeva scherzosamente chiamandolo Ui – con nessunissima allusione all’Arturo dell’opera teatrale di Bertold Brecht. Non amava Brecht. Avraham non riusciva a scindere l’artista dall’individuo. Valeva per il drammaturgo tedesco e per tutti. Se un attore si dichiarava politicamente impegnato, lo disistimava. L’arte, pensava, deve tenersi lontana dai potenti: se si accosta troppo, diventa ruffiana e non è più arte. Lui non apprezzava Brecht perché non lo stimava come uomo. Si dichiarava comunista ma era un capitalista viziato, appariva femminista ma violentava donne, sbandierava principi di onestà morale ma esportava illegalmente soldi in conti bancari cifrati a Belino Ovest mentre i suoi concittadini – rigorosamente sotto dominazione sovietica – finivano in galera o venivano uccisi se provavano a passare il Muro, o a varcarlo soltanto con un pensiero. Quanto alle sue opere teatrali, attribuiva gran parte del loro successo alle musiche di Kurt Weill.

    Quando si spostava in un’altra stanza e intendeva continuare a dialogare con Ui, lo portava con sé, anche quando mangiava un boccone in cucina. Era talmente persuaso delle sue capacità dialettiche da cacciarlo in un cassetto quando arrivava un visitatore, quasi temesse che potesse interloquire a sproposito e creare scompiglio e imbarazzo. Insomma dimenticava che i cappelli non parlano.

    Avraham lo indossava a volte quando usciva, sempre e comunque quando doveva frequentare gente nuova. Pur sapendo benissimo che non lo rendeva invisibile, il sentirselo sul cranio istigava la sua sfacciataggine, come un teppistello che si sente protetto dai propri tatuaggi e dal buio quando imbratta muri e spiriti.

    Già l’apparire con quel coso in testa lo faceva percepire come tipo eccentrico. Ciò titillava il suo cervello irriguardoso e scioglieva la sua linguaccia. Se qualcuno osava chiedergli diretto perché lo indossasse, le risposte erano variegate. Poteva dire che era sotto chemioterapia e perdeva i capelli, cosa poco credibile ché sotto la tesa spuntava la sua ribelle capigliatura rossa. Oppure asseriva che era un ebreo ortodosso che doveva sempre avere il capo coperto ma non se la sentiva di indossare una kippah con tutti gli integralisti islamici e tanti anti-israeliani in giro. In altre occasioni alludeva a una disgustosa alopecia che l’affliggeva o a un’altra repellente malattia del cuoio capelluto.

    Questo se arrivava in una casa privata e avrebbe, per convenzioni consolidate, dovuto toglierselo. Se entrava in un locale pubblico non riteneva di dovere dare spiegazioni, con tutti i tatuaggi, piercing e acconciature ostentate dalla gente intorno. A eventuali domande dirette o non rispondeva, scodellando all’indiscreto un sorriso disarmante e misterioso, oppure staffilava la prima versione equivalente a un fatti i fatti tuoi che gli venisse in mente.

    Quella notte tutta la scena era fantasmatica. Mosse dai raggi lunari e dal soffuso chiarore che ogni grande città irradia su per il buio del cielo, le ombre ondeggianti intorno all’uomo-pipistrello si muovevano lente tutt’intorno. Spettrali erano poi i giochi di rimando all’infinito delle decine di specchi.

    Chi allora fosse entrato in quella stanza non avrebbe saputo dire dove fosse il vecchio. Non avrebbe creduto ai propri occhi a vederlo appollaiato su un armadio o accomodato sulla mensola del grande camino della sala, mentre in realtà era seduto al suo tavolo di lavoro. Poi si sarebbe spaventato a vedere tutto fuori posto, tutto spostato dai riflessi degli specchi. Se con sufficiente dimestichezza con gli antichi dèi, passato il primo sconcerto, avrebbe pensato di trovarsi nel regno di Hades, il dio del mondo infero, dove il disordine nega l’ordine noto agli umani. Lì la percezione stessa della realtà è squinternata perché sensazioni ed emozioni sono bandite, salvo l’orrore muto per la loro assenza. In caso contrario, sarebbe rimasto a bocca aperta e basta. Comunque sarebbe rimasto allibito a sentirlo parlare col cappello Ui.

    Nella bocca spalancata del camino, di quelli antichi che ci si può sedere dentro, accanto alla brace viva, un piccolo falò di legnacci di cassette da frutta si faceva ballerino ogni volta che era ravvivato da fogli e foglietti stracciati. Ve li gettava lui, pezzi di carta appallottolata su cui aveva appuntato parole giudicandole superate. Si accendevano per caso, per un mozzicone di sigaro puzzolente non spento buttatovi sopra. Lui sorrideva all’innocuo incendio e si rallegrava per il danzare delle ombre intorno a lui, in gioco con i riflessi degli specchi e col tenue ondeggiare delle tende. Quella notte erano mosse da una leggera brezza e l’umore di Avraham amoreggiava con l’aurora, pronuba la sua amata luna.

    Seduto da poco meno di un’ora al suo tavolo, sovrappensiero si passò il dorso di una mano sulle gote e il ruvido della barba gli fece decidere di radersi. Non lo faceva da giorni. Doveva farlo anche per non graffiare la serica pelle della donna che gli aveva dato piacere nella notte. Presto si sarebbe svegliata e avrebbe accostato il viso al suo. Si chiamava Santa, aveva fini capelli biondi e occhi blu cupo. In realtà si era alzata, ma Avraham non se n’era accorto. Si levò e andò a sciacquarsi la faccia in bagno, il locale spazioso con una finestra e con un solo specchio.

    La penombra non riusciva a nascondere tutte le crepe sulle pareti smaltate di un colore divenuto indefinibile da anni. Lui non era preoccupato per lo stato trasandato del suo alloggio. Guardò invece se stesso nello specchio e vide i suoi occhi grigi circondati da rughe profonde, tutt’intorno ai solchi del viso. La pelle tra il collo e i pettorali era raggrinzita.

    Si sorrise rasserenato, lieto della propria vecchiezza.

    Mentre si insaponava le guance e il mento, fu distratto da rumori domestici. Si rese conto che Santa stava spiattellando in cucina. Se ne figurò i fianchi larghi e il culo sodo e si rallegrò.

    Avraham pensava sboccato quando si trattava del rapporto col sesso. Le espressioni erotiche grevi erano tra le zavorre che lo tenevano vicino alla terra, ché altrimenti sarebbe volato via sulle ali delle proprie visioni. Le sapeva ben più sicure di quelle di cera d’api di Icaro, il primo uomo a volare. Icaro si era sfracellato al suolo per arroganza, per essersi avvicinato troppo al sole che le aveva sciolte. Le sue non erano di cera. Erano fatte con le robuste penne dei sentimenti, immateriali ma salde dei colori dell’arcobaleno che il sole non fonde, ma anzi sempre ricrea.

    Mentre si radeva si domandava cosa ci facesse una donna bella e carnale come Santa con una specie di eremita ossuto come lui. Un attimo dopo lei gli fu alle spalle, i seni gonfi appoggiati alla sua schiena. Gli sorrideva attraverso lo specchio con lo sguardo che ogni donna sa dare ai suoi occhi per turbare un uomo. Lui reagì come sempre, con un’erezione, lenta ma salda. Si voltò.

    Fingendosi smorfiosetta a non volerlo baciare sulle labbra seminsaponate, gli si accovacciò davanti e, occhi negli occhi in lussuriosa complicità, inghiottì il suo membro gonfio. Lui appoggiò le natiche al lavandino e si lasciò andare. Ma lei non aveva alcuna voglia di regalargli un’eiaculazione mattutina senza ricavarne piacere per sé. Si rizzò nella sua minuscola camicia da notte che neanche copriva il monte di Venere, e gli infilò nella bocca la lingua saporosa di sesso. L’afrore del proprio pene misto al sapore di menta gli fece riscorrere i film dei loro amplessi notturni. Ridacchiò con un commento salace e l’abbracciò con tenerezza. Lei gli sorrise con i denti bianchi e la bocca turgida e imbaffata di sapone.

    Che cosa fai in piedi a quest’ora?, la interrogò: È ancora notte.

    Avevo sete e ho pensato di farti un caffè, gli disse. Tornò verso la cucina offrendo agli occhi di lui le sinuosità posteriori di femmina,la testa voltata verso di lui, lo sguardo invitante al piacere.

    Che meravigliosa zoccola!, sospirò Avraham tornando alla sua rasatura e inseguendone l’immagine riflessa nello specchio del bagno, finché poté.

    Lo legava a Santa una passione elementare. Non vivevano insieme. Non sapeva niente di lei: poteva essere stata una prostituta o una suora che aveva gettato il velo alle ortiche o una madre che aveva abbandonato i figli.

    Quando lei gli compariva in casa, sempre inattesa, senza preavvisi, la prendeva come un animale. Le ansimava sul collo come un felino col muso nel sangue della preda già sgozzata. Si eccitava ancora di più a sentirla con la pelle accapponata e la montava.

    Dopo averla penetrata a piacimento come la più laida delle meretrici con l’impeto che la natura imponeva per il raggiungimento dell’orgasmo ai suoi settanta e passa anni, si addormentavano lì dov’erano, su un divano o sul pavimento, abbracciati, placati entrambi, entrambi sul fianco, lei con i glutei attaccati al pube di lui, lui con le mani a coprire quello che riuscivano dei seni di lei, così caldi e gonfi, i capezzoli sempre eretti. Non c’era altro tra loro. Non si parlavano mai. Lei entrava e usciva come una gatta, in silenzio. Lui non sapeva mai se fosse o no in casa. Né gli interessava. Lei non riceveva e non faceva telefonate.

    A volte scompariva per settimane, d’estate per mesi. A volte si era sorpreso a fantasticare che seguisse le stagioni, come Proserpina, o Persefone, la donna che Hades aveva sposato dopo averla rapita alla madre Cerere, o Demetra. Per rabbia, Demetra, dea del rigoglio della natura e di tutte le piante utili all’uomo, incluse le messi, aveva scatenato una carestia mortale. Era dovuto intervenire lo stesso padre degli dèi, Zeus, a convincere il fratello Hades a restituire la fanciulla alla madre.

    Come sempre accade tra potenti, fu raggiunto un compromesso: Persefone avrebbe trascorso i sei mesi invernali negli Inferi ma sarebbe tornata sulla terra e dalla madre per la primavera e l’estate. L’assisteva nel compito di stimolare la fioritura e di scatenare le passioni della calura.

    Hades esercitava un grande fascino su Avraham. Già la storia del cappello Ui lo faceva capire. Il nesso con Santa in fondo era persino più stretto: la donna d’inverno passava parecchie giornate con lui ma in primavera e d’estate spariva per mesi. La cosa non l’aveva mai disturbato. Né si chiedeva dove andava e con chi quando non era con lui.

    Non sapeva neppure perché si chiamasse Santa. Le aveva fatto giurare che nel sesso con altri avrebbe preso precauzioni per essere più liberi loro due. Le aveva spiegato, dottorale e noioso, che neppure il sesso orale metteva al sicuro da malattie veneree. Lei aveva annuito con un sorrisetto saputello a significargli che non era mica una bambina e che lo scemo, semmai, era lui, ma aveva giurato di starci attenta.

    Le aveva creduto perché si era fatto l’idea che di certo scopava con altri amanti maschi – e femmine? – magari più prestanti, e di certo impiegava vulva e ano e bocca anche con loro, ma si era illuso che con lui usasse la testa in connessione diretta col sesso. Era un’illusione la sua, eppure conteneva un pizzico di verità. Avraham conosceva assai poco i meandri emotivi delle femmine e non poteva immaginare il corto circuito che davvero scatenava in lei.

    Non poteva neanche concepire che con lui Santa stava scoprendo l’incapacità di addentrarsi nei pensieri di un uomo – e se lo erano impenetrabili, quelli di Avraham! – e che ciò poteva rendere una donna come lei ossessivamente dipendente. Per lei, femmina promiscua, una simile dipendenza era intollerabile. Si sentiva malata, non più padrona della propria vita. Cominciava a farsi strada in lei il bisogno di mettere a punto un piano per affrancarsi, per staccarsi a ogni costo da quell’uomo non piegabile ai propri progetti. Anche a costo di staccare lui dalla vita, di ucciderlo.

    Avraham si sciacquò via le ultime tracce di sapone e si diresse verso il fruscio della veste leggera di Santa che lo guidava verso la cucina. La raggiunse. Lei era nuda sotto un tessuto diafano. Lui era nudo e basta. Avraham aveva un corpo magrissimo, glabro, le spalle curve a forza di stare piegato su testi di ogni genere.

    Fu investito dalla femmina e in un attimo avvertì sotto le natiche il freddo del pavimento perché Santa, assalitolo, lo aveva gettato a terra per infilarsi dentro il membro di lui con tutta l’impaziente voglia di cui era capace. Poi prese a suggere con il proprio sesso quello eretto di lui.

    Nel vortice di piacere e nel turbinio di immagini riflesse dagli specchi all’infinito intorno a loro, Santa fu palma sottile al vento, poi onda, ritmica, crescente, squassante, a trovare rapida il proprio orgasmo, e poi immobile come colpita, il viso levato, la bocca aperta, infine piegata, fino a spezzarsi… oh sì, Santa… e Avraham sprofondò nell’estasi sessuale, e fu un ritrovarsi, e non tra gli specchi oscillanti, oh no!, ma su solido fondo, sul senso del reale che fa sentire un uomo liquida essenza gettata nello stampo della solida carne, tutti i suoi muscoli tesi come il nerbo di una corda d’arco.

    Era un ritorno alla fisicità dopo tanto vagare tra evanescenti fole di antichi testi di cultura scomparse, la sua passione.

    Santa era bocconi su di lui, i capezzoli incollati al suo torace, a riprendere fiato, esausta. Lui l’accarezzò per un po’, sui fianchi, sulle natiche, sul dorso, poi la aiutò a rialzarsi e la ricondusse per mano a letto. Appena distesa, lei gli sorrise e chiuse gli occhi a un dolce sonno.

    Avraham tornò al suo tavolo di lavoro e provò un altro piacere fisico, più sottile: il lasciarsi avvolgere dai raggi e dalle ombre della luna che amava.

    ***

    Ben diversi furono i primi momenti del risveglio di Moise. Appena aperti gli occhi, inveì contro la luna e il mondo.

    Vedeva la luna come un grugno butterato, una faccia ripugnante, il simbolo vivente di una dannazione che lo perseguitava. Gli evocava un incontro – questo il suo delirio – che lui era certo di avere avuto millenni addietro con misteriose potentissime entità. Il maledetto satellite ne era stato testimone.

    Ne aveva soltanto vaga memoria, eppure era convintissimo che ci fosse stato e che quella notte gli fosse stata affidata una missione molto ardua prima di potere morire. Proprio così: la sua vita non poteva concludersi se prima non l’avesse compiuta. Non rammentava però quale fosse la missione. Poiché si era rivelata, secolo dopo secolo, oltre i limiti delle umane capacità, il compito assegnatogli equivaleva a una condanna a un’esistenza senza fine. Era persuaso oramai di essere vivo da migliaia di anni, di non potercela mai fare.

    Da allora vagava da una vita all’altra.

    Di vita in vita, si era persuaso di essere vissuto per millenni. Il suo cervello sconclusionato gli assicurava che aveva sulle spalle quattromila anni di età, secolo più secolo meno.

    Certo, non essendo del tutto pazzo, non in modo continuo almeno, a forza di vagare avanti e indietro nel tempo, aveva finito col domandarsi se la facoltà donatagli risiedesse soltanto nella sua fantasia o se fosse autentica. Ma tant’è: si sentiva mille e mille vite alle spalle.

    Del resto, esiste verità più indiscutibile della verità che si avverte nel corpo e si sente nello spirito?

    Basta pensare ai giochi dei bambini: non si calano essi in personaggi della fantasia inesistenti nella realtà o non pretendono di vivere come eroi di tempi antichi? La tragedia di Moise era che, a differenza dei bambini, non tornava all’oggi come fanno i piccoli quando, chissà, è pronta la cena. Lui restava inchiodato nella certezza di avere vissuto quel remoto incontro notturno e le successive vite e da quello scenario non sapeva più uscire. Non riusciva neppure a collocare l’abboccamento in precisi tempi e luoghi né a rammentarsi in chi si fosse imbattuto. Lo sentiva fortemente come inizio delle sue peregrinazioni, non aveva dubbi sulle conseguenze di quell’evento: le innumerevoli vicende in cui si era inabissato da allora avevano sfiancato ogni muscolo della sua carne e sfilacciato ogni fibra dei suoi nervi. Avevano dissennato la sua intelligenza.

    Tragedia nella tragedia, aveva dimenticato – forse mai saputo – quale meta gli fosse stata ingiunta di raggiungere prima di potere morire.

    Il sapere al centro del groviglio l’odiata luna gli serviva a poco perché non riusciva a dipanare in un ragionevole intreccio tutti gli altri fili dell’intrico. Chi erano i fantasmi in cui si era imbattuto? Dove? E perché? E qual era stato il compito assegnatogli? L'aveva dimenticato. Si rimproverava di essere stato sedotto, per sua imperdonabile colpa, dalla fascinazione dello strumento messogli a disposizione per conseguire il fine – potere vivere una vita quasi infinita. Si accusava di essersi comportato come chi non legge le clausole scritte in piccolo di un contratto perché troppo abbagliato da una proposta allettante.

    Grazie a questa diavoleria – o maledizione degli dèi, come lui l’avrebbe giudicata più tardi, passati gli iniziali inebriamenti –, a lui era stato concesso di riportare al presente passati già vissuti. Gli era stato concesso di rivivere della sua esistenza ciò che per le esistenze altrui era irreversibilmente già stato.

    Se ai comuni mortali è dato scegliere una sola volta, lui, giunto a uno scambio dell’intreccio di binari possibili del destino, lui poteva tornare indietro a monte dello scambio, spostarlo, e viaggiare su un’altra rotaia, e così all’infinito. Poteva pure balzare avanti nel tempo per un rimpianto di momenti già vissuti che, per essere tornato indietro, erano diventati parte dei suoi futuri. Roba da perdercisi già con la mente a immaginarlo, figurarsi viverla.

    Così, mentre per gli altri il rammarico per la via non percorsa poteva essere soltanto disperazione senza fine o tormento ispiratore di poesia e la curiosità di un suo sbocco alternativo rimanere per sempre sogno inappagato, per lui era possibile riprendere il viaggio in ogni direttrice, a suo capriccio. C’era un solo sbarramento. Unico limite al suo andirivieni era posto dalla sua memoria: poteva tornare indietro soltanto a situazioni che vi aveva conservato.

    Poi questo muro, negli ultimi secoli, era diventato diafano. Con l’invenzione della scrittura e, molto tempo dopo, con la diffusione degli altri media come cinema e televisione, aveva perso la distinzione tra ricordi originari e quelli indottigli da altre fonti. Il groviglio di binari transitabili si era arruffato come le reti di un pescatore costretto da un improvviso mare ostile a gettarle in fretta nella loro cesta.

    Era una follia credere una cosa simile, ma non è la vita di tanti un inseguire l’inesistente o un fuggire da un’ossessione? Non hanno costoro alle spalle il riso maligno di un mostro che li spinge a ogni compromesso o delitto? Non si imbattono forse in un ghigno beffardo a ogni svolta dietro cui ci si attendevano un successo? Non siamo tutti ciò che ci illudiamo di volere essere?

    CAPITOLO II

    Riflessi e riflessioni di Avraham su un antico testo

    Lasciata Santa al suo riposo mentre l’ora pastellava il cielo dal blu della notte al grigio della prima aurora, Avraham tornò al suo ripiano di marmo nel grande vano di specchi. Prima di reimmergersi nell’antico manoscritto si guardò intorno. Quante emozioni gli riaffioravano a osservare lo scombino di oggetti intorno a sé!

    Era come una flotta di vasche e vaschette e scatole e scatoline. Tutte debordavano di strampalati arnesi: forbici, matite, penne vecchie, graffette, cartoline, fotografie, piccole sculture in ogni materiale, biglietti aerei usati, bandierine di lontani Paesi, cristalli, coralli, conchiglie, figure di scacchi, mazzi di carte incompleti, vasetti di pietra ollare, quadretti tirolesi di legno.

    Era un guazzabuglio del tutto rastrellato vagabondando e illudendosi di scoprire il mondo, anno dopo anno. Come alla sua vita, uno strato di polvere conferiva al tutto un’aura di rispettabilità e un odore di pacificante riposo.

    Superava il mezzo secolo l’età media dell’arredo della sua vita quotidiana. C’erano poi oggetti più antichi. Tutta quella roba se l’era trascinata dietro in traslochi persino attraverso continenti. I mobili avevano conosciuto sia i toponi delle stive delle navi sia i loro cugini dei fondachi. Li aveva messi insieme comprandoli anche da amici che intendevano disfarsene, o perché pervasi da un’improvvisa esigenza di rinnovare tutto o perché impregnati di ricordi amari, come quelli del suo amico Reginald Peck. Reginald era stato un giornalista inglese, pazzo di dolore dopo il suicidio della moglie svedese nella settecentesca villa dalle grandi vetrate baroccheggianti, adagiata su un ampio prato verdissimo sulle rive del Reno, a Bonn, allora capitale della Germania occidentale. Correvano gli anni Settanta, Peck aveva i capillari del viso trasformati dal whiskey in una mappa intricata come le carte militari. L’ostentava con l’orgoglio di un generale sì sconfitto ma cui il nemico – l’avverso destino – aveva tributato l’onore delle armi. Quando l’aveva frequentato Avraham era un uomo di poco più di trent’anni. Il vecchio giornalista insisteva che lui si sposasse un’Inglese con cui ai tempi usciva. Non la sposò. Anni e anni dopo aveva letto che il povero Reginald era spirato ubriaco e in pace nella sua Inghilterra.

    Avraham non si curava granché della roba. Da rigattiere non poteva non considerare di separarsene. Ma se doveva essere, doveva accadere senza fretta. Ogni oggetto e mobile doveva finire nelle mani di gente giusta. Se li vendeva, li vendeva, altrimenti restavano lì, indisturbati, a fargli compagnia. Da giovane era stato affezionato ai suoi beni. Poi se n’era distaccato. Cosa doveva farsene di mobili, tappeti, quadri? Non poteva mica portarseli nella tomba come un faraone o un imperatore cinese!

    Quanto a ricordi più cari, legati più intensamente al passato, da tempo ne aveva preso distanza nonostante fossero testimonianze di momenti che avevano scaldato il cuore della sua infanzia, dei suoi anni più coraggiosi, dei suoi cari morti. Non si era liberato neanche di quelli che gli suscitavano dolori o rimpianti o, peggio, vergogna, perché tracce di crimini commessi, di ferite profonde inferte ad altri.

    Per motivi di spazio aveva dovuto chiudere molti oggetti in bauli sperando di dimenticarli, anche se poi ci guardava dentro di tanto in tanto, quasi a vivere come un’espiazione il dolore che gli provocavano. Altri aveva regalato in giro, altri ancora aveva consegnato ai figli.

    Aveva appreso quanto i significati degli oggetti che si conservano goccino a stilla a stilla nel cuore di chi segue nel tempo: prole, nipoti, amici sopravvissuti, scomparsi, da lui o, chissà, dalla vita. Sapeva come poi, con il trascorrere degli anni, da quelle ultime gocce evaporano del tutto l’essenza di passato e il suo profumo dolce-amaro. Quei pegni perdono allora ogni legame con le commozioni di esistenze trascorse, proprie e altrui.

    Impallidite foto, lettere sbiadite e appunti ingialliti, collari di cani, muti orologi, stoffe slabbrate, cristalli di rocce e frammenti di coralli, penne stilografiche inaridite, improponibili spille, tutti scrigni gremiti di piccole strette al cuore per chi li ha raccolti, perché attimi di rinnovata comunanza di spirito con gli esseri e con i luoghi che, si sa, non ci sarà mai più il tempo o la fisica possibilità di rivedere.

    Giorno dopo giorno rievocano remore figure senza più nome, ectoplasmi viepiù evanescenti, fino a volatilizzarsi del tutto con un ultimo zisc sulla pietra bollente posta, come un’ara, a confine tra l’oggi e il domani. Là il futuro si scioglie per sempre dall’abbraccio del passato e, per un’ultima volta, tutto quanto è stato sentito come vicino, svanisce con un ultimo effluvio sull’arsura dell’altare del tempo. Diventa allora ciarpame e finisce in una pattumiera o, se preservato, diviene oggetto di curiosità nei mercatini rionali, senza tenerezza o compassione.

    Dopo essersi compiaciuto per quanto aveva intorno, Avraham si era rimesso a leggere il testo in Greco antico che mesi prima aveva deciso di tradurre in Italiano.

    Prese un foglio tra i tanti sparsi e lesse ad alta voce davanti al suo cappello e Ui ascoltava.

    Io, Archeo, figlio di Glauco, imploro te… affinché io sia affrancato… e possa alfine…

    Avraham ebbe un moto di stizza. Non era mai riuscito a tradurre quella frase: Non capiva se per sua incapacità o se per un’ombra, una specie di macchia su alcune lettere che le rendeva oscure. Lasciò correre e prese dalla lastra di marmo un altro foglio e lesse: Quando cacciamo, mio padre è due passi dietro di me. So che volge in giro i suoi occhi grigi come fa il falco che volteggia nel cielo. Teme il grande nemico, il verro dalle zanne taglienti pari a ben affilate lame di bronzo…

    Gli tornò il buon umore: Capito, Ui? Lame di bronzo! Siamo ai tempi anteriori all’età del ferro! Padre e figlio sono in giro nei boschi, magari a caccia, e stanno in guardia a non venire attaccati dai cinghiali che ai tempi erano tanto grossi da essere entrati nel mito di Ercole che ne dovette affrontare uno gigantesco sul monte Erimanto.

    Ui annuì. Era esperto in miti greci. Ma se avesse avuto una testa sotto la falda, l’avrebbe scossa in disapprovazione: non ammirava Ercole. Secondo lui, era un bambinone grande e grosso sempre intento a fare contenta la matrigna Hera – Giunone –, gelosa per essere lui uscito non dal proprio utero bensì di una zoccolaccia che Zeus – Giove – si era scopata, Alcmena. Avraham scosse la sua di testa – vera – a disapprovare ironicamente l’idiosincrasia di Ui per Ercole. Quasi mai Ui condivideva gli entusiasmi di Avraham.

    Avevi intuito giusto, ammise poi Ui. Alludeva al fatto che il rigattiere, a un primo impaziente sfogliare quelle pagine scritte fitte fitte in Greco – poi abbandonate alla polvere di uno scaffale –, era stato mesmerizzato dalla possibilità che fossero la trascrizione di raccolte orali dell’età del bronzo.

    Già! Sapevo che nelle regioni più tardi note come regioni di lingua greca, non esisteva la scrittura, non come in genere è intesa, non prima almeno che gli Elleni la assumessero dai Fenici e questi l’avessero appresa dai non semiti Sumeri.

    Adesso non metterti a sbrodolare sui Sumeri!, lo ammonì Ui che sapeva quanta ammirazione Avraham nutrisse per quel popolo le cui origini preistoriche molti studiosi facevano risalire al quarto-terzo millennio prima dell’era cristiana.

    Avraham ammirava i Sumeri. Ui operava su di lui una specie di censura sulle emozioni. A volte ciò lo irritava, ma, nel complesso, avere un simile controllore non gli dispiaceva. Lo aiutava a mantenere il proprio distacco sia dal mondo esterno sia da memorie del proprio passato. Senza Ui sarebbe stato trascinato in spirali di dolore, dolore che da anni e anni teneva a bada nel timore di venirne travolto.

    "Non sbrodolo. Ma furono quegli uomini dalla testa nera venuti dal Nord, si scaldò Avraham, ad avere inventato la scrittura e i numeri. Erano uomini amanti della musica e cultori dell’astronomia, erano stati i primi a praticare l’agricoltura in senso moderno. La loro lingua e cultura erano tanto essenziali e funzionali al vivere quotidiano che furono impiegate per secoli da genti che erano sopravvissute alla loro scomparsa, dopo che il semita re Sargon aveva conquistato i loro territori intorno al XXVI secolo prima di Cristo".

    Sì, come il Latino per secoli dopo la caduta di Roma, chiosò Ui.

    Mi scaldo sul tema, caro Ui, perché mi offre un ennesimo esempio storico, cioè documentato, di grandi popoli scomparsi e plagiati nei loro meriti, senza difesa. I plagi ai danni dei Sumeri sono stati compiuti da irriconoscenti ignoranti e da loro pappagalleschi fiancheggiatori che se ne attribuiscono invenzioni e grandi intuizioni. Sai bene che dai numeri sumerici derivano quelli di oggi, a torto detti arabi. Di altre loro scoperte sono state attribuite paternità, oltre che agli Arabi, ad Assiri, Babilonesi, Greci, Israeliti, Romani….

    Lascia perdere lo bloccò Ui, il tuo sdegno per l’irriconoscenza dei posteri, Avraham, e pensa al tuo testo e alla data che gli hai dato tu.

    Età del bronzo o no, la fiaba di Archeo resta bella. A che serve datarla?, scantonò Avraham: Mi piace fantasticare che sia stata cantata da anonimi aedi per secoli, poi scritta su tavolette di argilla, e infine raccolta per i posteri in un testo compitato da pazienti estensori di epoche remote. È un po’ come i fratelli Grimm hanno fatto per decine e decine di favole in lingue germaniche. È una fantasia, ma per me, lo sai bene, caro Ui, ogni scintilla di fantasia è squarcio di verità.

    Ui alzò la falda quasi fosse un sopracciglio a esprimere noncuranza.

    Accarezzato dai freddi raggi della luna d’agosto, Avraham rievocò, a rendere più partecipe Ui, come era venuto in possesso dei fogli: Ero giunto al Cairo dopo essere stato espulso dall’insegnamento in un’università italiana. Ma di questo ti dirò poi.

    Avraham si interruppe e si perse. Gli accadeva di frequente.

    Il cappello si mosse appena e si pose in attesa, immobile nonostante la brezzolina che entrava dalle finestre. Conosceva il modo bizzarro di divagare del suo uomo.

    Avraham smise di rivolgersi a Ui ad alta voce. A volte fantasticava che quello sapesse leggere i suoi pensieri. Ripresa a volgere lo sguardo intorno.

    Era davvero vasto il suo appartamento, si disse compiaciuto. In fondo non avrebbe mai creduto di potersene permettere un giorno uno così grande, seppure in affitto. Superava i centoventi metri quadri. La sala soltanto ne misurava un’ottantina.

    Su uno dei due lati corti della sala si apriva la porta sulle scale. Di fronte, a una dozzina di metri dall’ingresso, troneggiava isolato il camino dalla bocca grande. Un tempo era stato appoggiato a una parete, poi abbattuta a dare vita a un vano unico. Dietro il camino in fondo alla stanza c’era la cucina con sufficiente spazio per un ampio tavolo che usava per intrugliare pietanze per sé e per i propri rari ospiti.

    Alla sinistra di chi entrava dalle scale, su uno dei lati lunghi della sala, si apriva la porta sul bagno, tra due finestre. Di fronte, un uscio pesante portava alla stanza da letto e, oltre quella, al suo studio segreto. In quello, nel pavimento, si apriva, all’occorrenza, una botola. Sotto c’era un altro appartamento, più piccolo, di sua proprietà.

    Nella cucina, con una terza finestra sul medesimo lato delle altre due, svettava un piano cottura a gas, con sei fornelli. Era un marchingegno da vecchio ristorante, con i rubinetti a manettina anni ’40 sul tubo di adduzione davanti. Lo si scorgeva appena entrati, nonostante la vasta bocca del camino e la sua grande canna fumaria. Una volta dentro, si era immersi nel caos di dispense, pentole e padelle appese al muro, sedie di paglia, coltelliere, piattaie, barattoli di pasta, riso, sale, trecce d’aglio e ghirlande di peperoncini, cucchiai e attrezzi da gran cuoco. Ad aprire le ante di armadietti e armadi vi si trovavano più carte e libri e oggetti in disuso che casseruole e tegami.

    Rosso non cucinava quasi mai. Il suo menù quotidiano era fatto di pezzi di formaggio o di pasta al burro e parmigiano. Se aveva voglia di cambiare, metteva una pentola d’acqua a bollire e vi buttava un gambo di sedano, una cipolla e un pezzo di carne. Oppure mescolava con un cucchiaio di legno un paio di uova in un tegame con una goccia d’olio. Se aveva tempo di stare un po’ più a lungo davanti a una griglia, ci adagiava sopra una bistecca.

    Non mancava mai una fetta di pane, che gli piaceva un po’ stagionato, quasi secco, e un paio di bicchieri di vino fermo a buon mercato, se in cartone meglio, ma se in bottiglia, proveniente da regioni per lui rassicuranti, quanto a vino: Veneto, Trentino, Friuli.

    Non apprezzava quelli piemontesi o toscani perché li associava alle stucchevoli chiacchiere che in quei mondi li accompagnavano durante e persino fuori dei pasti. Il vino, soleva dire, andava bevuto parlando di tutto, meno che del vino stesso. Detestava i vini frizzanti che, diceva, erano i vini della generazione avvezzata alla dipendenza da Coca Cola.

    In quei locali, al sesto piano di un quartiere affollato, era andato a vivere quando era tornato in Italia dopo molti anni di assenza. Li aveva scelti perché erano sopra l’alloggio che, molto tempo addietro, aveva acquistato per dare solidità ai pochi risparmi di una vita: cinque stanze che aveva ristrutturato dividendoli in due appartamenti, con altrettanti bagni.

    Tre stanze le aveva date in affitto a una coppia di Indù, fratello e sorella. Le altre due, spaziose, con un piccolo bagno, le aveva destinate a proprio laboratorio segreto, quello sotto la botola. Con i molto intimi, lo chiamava l’antro. Ma non diceva loro cosa contenesse né, mai, in cosa consistessero i dissennati esperimenti che vi praticava.

    L’antro era precluso a tutti. Nessuno vi aveva messo mai piede, neanche Santa. Ai vicini diceva che quei vani gli facevano da fondaco di rigattiere. L’aveva isolato acusticamente dagli altri alloggi con un doppio muro. Era accessibile anche da un ingresso sulle scale condominiali, ma lui ci entrava scendendo per la botola del suo studio. Così poteva farlo pure durante la notte, senza essere visto, se gli veniva il capriccio di dedicarsi ai propri esperimenti eccentrici.

    La porta dell’antro sulle scale era sempre serratissima.

    Di tanto in tanto l’apriva, fermandola con una catenella, per cambiare aria all’ambiente. Lo faceva nelle ore spopolate dei giorni estivi o di notte, per creare una corrente con l’unica finestra che non avesse murato e dotata di vetri a specchio. Essa stessa era incastrata tra specchi perché quei vani erano anch’essi scatole di specchi, più inquietanti ancora del piano di sopra. Non avevano le interruzioni degli strumenti di vita quotidiana presenti in ogni casa in cui si viva, né mai venivano nascosti da pannelli.

    Tra quegli infiniti riflessi, unici padroni dell’antro, c’erano infiniti oggetti, un’accozzaglia scelta tra memorie del suo passato. Resi vivi dalle angolazioni dei loro riflessi in specchi oscillanti e da movimenti del rigattiere, parevano muoversi. Diventavano in tal modo i protagonisti su quel palcoscenico dell’assurdo. Alle loro interpretazioni assisteva Avraham Rosso facendosi coinvolgere in schizofreniche frammentazioni di se stesso. Quello spazio di pochi metri quadrati perdeva ogni senso del limite umano. Assumeva una maschera, un manto quasi di follia e la trasmetteva a chi vi si immergeva. Il rigattiere vi si astraeva come un anacoreta che nella propria caverna studia prega riflette. O come un catatonico dimentico del mondo.

    Se l’antro era chiuso, il mondo esterno era sigillato fuori.

    Quella notte però Avraham era al piano di sopra e navigava tra i fogli alzando e abbassando le sue puntute ali di pipistrello.

    CAPITOLO III

    L’incontro di Avraham con un misterioso Armeno e la nascita della filopsichia

    I fogli erano stati tenuti insieme per tanti anni da un vecchio pezzo di canapa. Essa era oramai del tutto sfilacciata e le carte squinternate quando aveva preso a sfogliarle ancora un volta nella notte. Dispersivo com’era, era anche riuscito a disseminarle scompigliate sul piano di marmo.

    Il loro disordine lo distrasse dal testo e lo riportò al modo in cui ne era entrato in possesso. L’aveva ricevuto dopo due strani incontri al Cairo: il primo, una notte, con un giovane Armeno in un mondanissimo club della capitale egiziana; il secondo, poche settimane dopo, con un Arabo sdentato al Khan el Khalili, il suq più importante della metropoli. Rammentò anche la sua disposizione di spirito di allora.

    Correva l’anno 1961 e lo storico mercato di cose vecchie e antiche non era stato ancora invaso dalla paccottiglia per turisti frettolosi. Vi si trovavano ancora gioielli di mondi scomparsi, di vite colate granello a granello di sabbia nella gola della clessidra del tempo. Si era all’albore di tempi bui. Di lì a poco la clessidra non sarebbe stata più capovolta secondo i tempi lunghi della Storia. Nel caso del Cairo, mani voraci di barbari, capaci soltanto di distruggere le vestigia di secoli di grandi civiltà, si sarebbero impossessati di ogni preziosità, di ogni antica poesia e cultura di un Paese.

    Quanto, in quegli anni crepuscolari, Avraham girava il suq, non sapeva dire di no ad Abu Fathi piuttosto che a Gamal che gli afferravano la mano e la stringevano tra le loro o gli davano una pacca sulla spalla, e con la mano aperta e tesa gli dicevano: Tfaddal, prego, accomodati, fai come se fossi a casa tua e come se tutto ti appartenesse.

    I più ricchi, tipo Ibrahim, erano molto più riservati e si limitavano a guardarlo negli occhi a dire: Che fai? Vai di fretta? Un gentiluomo non ha mai fretta. Fermati un attimo a discutere delle vere cose importanti della vita: dell’aggraziato e dell’antico, e scaldati al calore della conversazione leggera.

    Un momento dopo era nei loro retrobottega ampi, alcuni addirittura immensi. Dalla soglia nessuno avrebbe potuto immaginare fondaci così larghi e profondi. I pavimenti erano sconnessi ma erano coperti da strati e strati di tappeti dai nodi sottilissimi. I soffitti avevano l’intonaco scrostato ma ne scendevano cascate di gocce di cristallo dei lampadari, le pareti erano tutto quadri e arazzi e specchi di ogni stile. Le tavole erano ricoperte da tovaglie ricamate in oro e argento su tessuti di seta dai mille colori. Erano imbandite con preziosi servizi, con candelabri, vassoi, brocche e bicchieri di cristallo come in attesa di ospiti regali. Vetrine fuori squadra, in incerto equilibrio, quasi in bilico, proteggevano dalla polvere ori e monili con pietre preziose. Era come essere nell’antro di Ali Baba.

    Ogni volta si chiedeva perché in simili ambienti dove mai entravano aria o luce, non ci fosse puzza di chiuso o di urina di topo, non filtrassero i tanfi di fuori, di sotto le lamiere tese a coprire i vicoli del suq, corridoi di un labirinto di sfasciati budelli dello sgangherato quartiere.

    Avraham aveva sangue fresco nelle vene, allora, e parlava volentieri con i commercianti del bello e del vero, e di come cercarli nel mondo. Ma il mondo appariva sempre meno rassicurante. Eppure non si accennava alla politica. Ma, a tratti, i toni a commento di una banalità si facevano sommessi, per timore di essere uditi. C’era un abbassarsi di palpebre per un rimpianto di cui non si poteva dire, un lutto quasi.

    Il lutto era per l’Egitto che stava morendo, per l’Egitto erede del mondo ellenistico-alessandrino, della culla dei princìpi di diritto umano, dei princìpi giudaico-cristiani su cui misurare il grado di civiltà di ogni Paese che tra i Paesi civili ambisca essere annoverato, allora e nei millenni a venire.

    Gli Egiziani avevano contribuito a diffondere quella civiltà. Erano fieri come ogni gente consapevole di edificare il tempio custode degli eventi gloriosi del proprio Paese, nella Storia. Lo sapevano e ne soffrivano. Si dannavano che nessuno all’estero sembrava preoccuparsi che masse ignoranti stavano per travolgere e depredare un patrimonio millenario di culture religioni lingue.

    Il dittatore Gamal Abdel-Nasser, il raìs, il duce, arrivato al potere assoluto nel 1954, era in ascesa verso l’apice della popolarità, anche internazionale. I Sinistri europei adepti del materialismo storico marxiano e numerosi in Francia e in Italia, lo adoravano perché affetti dal morbo del cupio dissolvi. Erano gli intellettuali propensi da sempre a innamorarsi di chiunque potesse danneggiare passati di grande cultura, un po’ come talune donne sono attratte da uomini che le maltrattano e ne diventano le pupe o le meretrici sfruttate.

    Nasser aveva bisogno del sostegno di milioni di caprai, di contadini, di diseredati, e non della borghesia, corrotta per antonomasia – e fino al midollo aggiungeva la giaculatoria politicamente corretta. A ondate successive il raìs aizzava le plebi a invadere il Cairo e Alessandria e a saccheggiarle, come orde di tribù primitive. Quei miseri non si rendevano conto che, attratti dalla sirena dell’urbanizzazione, sarebbero vissuti ancora più poveri una volta lontani dalle loro zone d’origine.

    All’inizio Nasser c’era andato con mano leggera con la cacciata della borghesia. Aveva espulso a piccole dosi Ebrei, Armeni, Copti, Cristiani ortodossi, Cattolici.

    Poi era passato alle deportazioni e alle esecuzioni di massa. I meno abbienti finivano in fosse comuni, ammazzati con l’accusa di essere agenti dell’ex-potenza protettrice del deposto re Farouk – la Gran Bretagna ma anche gli Stati Uniti – o di spiare per l’arcinemico Israele. Altri subivano la confisca delle proprietà: ridotti in miseria erano lasciati in vita, a ostentare la tolleranza religiosa, falsa, del regime. Altri venivano estromessi a pedate, fortunati e felici di non essere imprigionati o uccisi.

    Gli Europei, imbevuti di falsi storici sulle Crociate, erano troppo sedotti dalla propaganda sovietica che stava mettendo le mani sull’Egitto e su tutto il medio Oriente grazie alla stupida politica neocolonialista di Francia e Inghilterra. In pochi sapevano che dalla notte dei tempi l’Egitto era stato crogiolo di tutte le genti. E poi perché preoccuparsi delle barbare angherie ai danni di gentucola da secoli comunque senza terra – Ebrei, Armeni, Copti… Copti? Che roba è?

    Gli Americani ne sapevano ancora meno. Eppure saltavano agli occhi i tratti somatici dei Copti, identici ai visi delle svettanti statue dei faraoni del passato, dei discendenti dei pochi Egizi autoctoni sopravvissuti agli stermini perpetrati dai Maomettani invasori dal settimo secolo dopo Cristo al seguito dell’ottima guida militare del profeta Maometto.

    Gli intellettuali italiani e francesi scodinzolavano dietro ai dettami comunisti dei Russi e dei paesi loro satelliti. Bollavano Ebrei, Copti, Armeni, e tutti gli Occidentali che vivevano in Egitto, molti di loro nati là, come imperialisti insediatisi sulle rive del Nilo da generazioni per sfruttare le popolazioni locali. Ripetevano la giaculatoria a pappagallo sdegnato. Così erano stati bollati come Fascisti gli Italiani in fuga a centinaia di migliaia dalle terre istriane e dalmate per sfuggire alla pulizia etnica dei Comunisti italiani e del dittatore jugoslavo Tito e delle sue sanguinarie milizie comuniste come lui. Di passaggio per la stazione di Bologna i compagni ferrovieri avevano rifiutato loro persino un bicchier d’acqua.

    Avraham era molto giovane quando era giunto al Cairo, dieci anni dopo la rivoluzione dei militari nasseriani, vogliosi di sostituirsi al potere e alle ricchezze materiali della corte di Farouk, dei suoi cortigiani. Soffriva a vedere suoi amici Armeni e Copti vivere nella paura di essere mandati via da un momento all’altro. Li vedeva affaticarsi per approvvigionarsi di quanto serviva alle loro attività. Tra gli Ebrei, coi nervi sempre scoperti, più avvezzi ai pogrom, chi tra loro poteva, faceva fagotto. Chiunque non fosse servo del regime o sua spia, riceveva visite vessatorie da concussori di ogni genere, quando non estorsori funzionari del governo. Molti oggetti che Avraham vedeva nei fondachi dei mercanti erano tracce di precipitose fughe o di spietate razzie degli sciacalli profittatori delle sventure altrui.

    Tra questi sfortunati si aggiravano i paria del Cairo: bastava lasciare le vie centrali e avventurarsi nei vicoli di fango per entrare in contatto con le povertà da fame dei milioni di miserabili che Nasser aveva incoraggiato ad abbandonare le campagne. Era fautore, come tutti i dittatori, di capitali mostruose per disporre di masse di manovra da scatenare nelle piazze a inneggiare a lui o a inveire contro chi lui li aizzasse.

    Il raìs non stava dando loro occasioni di vita migliore, come lui e i suoi ufficiali avevano promesso quando avevano detronizzato Farouk. Stava soltanto istituendo una nuova classe borghese, questa sì sfruttatrice dei poveri. L’Egitto diventava come tutti i regimi che si reggono

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1