101 storie ebraiche che non ti hanno mai raccontato
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Centouno storie senza tempo: leggende tratte dal Talmud, aneddoti bizzarri e racconti di vita vissuta che contribuiscono a illuminare angoli poco noti di una cultura plurimillenaria che non può essere identificata soltanto con la Shoà e la persecuzione, ma con la ricchezza mutevole e vitale di un grande albero dalle molte fronde.
Dalla Roma imperiale, dove gli ebrei chiedevano consiglio a una misteriosa “matrona”, alla Venezia del Cinquecento, dove venne alla luce il massimo capolavoro della letteratura yiddish antica. Dalla Mantova dei Gonzaga, dove Leone de’ Sommi dirigeva lo splendido teatro della corte, alla metà dell’Ottocento, quando il vate polacco Adam Mickiewicz tentava di dar vita a una Legione Ebraica che avrebbe combattuto a fianco dei polacchi per la creazione di una Polonia democratica, fino alla Sarajevo assediata nella terribile guerra jugoslava, dove l’ebraica Benevolencija era l’unica organizzazione a offrire aiuto a membri di ogni etnia e religione. Curiosità, miti e storie, antiche e moderne, di un popolo leggendario.
Laura Quercioli Mincer
ha insegnato Storia e cultura ebraica nei Paesi slavi all’Università di Roma la Sapienza; attualmente è docente di Letteratura ebraica contemporanea presso il Corso di Laurea in Studi Ebraici del Collegio Rabbinico Italiano. È autrice di un centinaio tra curatele e articoli scientifici, dedicati in particolare alla cultura ebraico-polacca, e di varie traduzioni. Fra i suoi ultimi testi pubblicati, la monografia Patrie dei superstiti. Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, uscito anche in Polonia, la traduzione e curatela del poema Madre, Patria di Božena Keff e del volume Cosa leggevo ai morti. Poesie e prose del ghetto di Varsavia, del “cantore del ghetto di Varsavia” Wladysław Szlengel.
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Anteprima del libro
101 storie ebraiche che non ti hanno mai raccontato - Laura Quercioli Mincer
Prefazione
La storia di una storia
Un detto chassidico recita che l’Eterno ha creato gli Uomini perché ama sentire raccontare storie. C’è da credergli, altrimenti perché affidare la propria impronta, o immagine come piace ai traduttori delle scritture, a un essere così inaffidabile, moralmente ambiguo, debole ma arrogante, capace di atroci nefandezze contro i suoi stessi simili e persino verso i suoi stessi familiari, se non per sentire raccontare storie? E non c’è da stupirsi se persino uno dei migliori fra gli uomini, il giusto Noè che salvò la specie umana e tutte le altre specie viventi, rivelò la pochezza del suo egoismo, quando – come ci narra uno dei più inquietanti midrashim contenuto in questa preziosa raccolta di storie, leggende e racconti riportati con intensità ed eleganza per noi da Laura Quercioli Mincer – vedendo intorno a sé la devastazione lasciata dal Diluvio, cominciò a lamentarsi penosamente, fin quando il santo Benedetto si rivolse a lui con voce terribile che dovette far tremare le volte dell’Universo per dirgli: «Adesso ci pensi Noè? Non potevi intercedere prima per l’umanità e le stirpi viventi della tua generazione?!». Ma il grande Noè era troppo preso a occuparsi di se stesso, del suo stretto ambito e di ciò che gli occorreva per ricordarsi del resto della vita. E con questa tara ci siamo moltiplicati in prevalenza noi esseri umani, del post Diluvio Universale e anche, ahimè, noi generazioni del post Diluvio Shoà. Solo i Trentasei Giusti (i lamed-vovnik come si dice in yiddish, da lamed-vav, il numero 36 espresso in lettere ebraiche), numero simbolico di esseri umani, magari umili e anonimi, che sanno accogliere e avere cura del volto dell’altro, con il loro magistero etico, permettono al mondo di tenersi insieme e di non andare a pezzi. Così ci ricorda una delle più celebri e intense tradizioni narrative ebraiche. Ma anche le donne e gli uomini che non sono dei giusti possono contribuire alla redenzione del creato raccontando storie e memorie. Gli ebrei hanno l’indiscutibile merito di averlo capito sin dalla loro sgangherata ed eterodossa origine dando vita alla più celebre storia della Storia: la Bibbia. Questo popolo di schiavi e stranieri, coacervo di asiatici sbandati, terrorizzati, petulanti, riottosi e inaffidabili, seppe affidarsi alla guida di un profeta balbuziente, ascoltarne le narrazioni e imparare a narrare e rinarrare instancabilmente se stesso per agglutinarsi come popolo intorno a una patria mobile, la Torà, memorabile orizzonte ed eredità che declina etica giuridica e narrazione per fondare l’essere umano universale, libero, degno e uguale secondo una dirompente modalità che sorge dal basso. Impiantata su due pilastri fondanti, la halakhà, il corpus di leggi e decreti e la haggadà, il corpus di narrazioni, la Bibbia ha il suo propellente di senso nella forza del narrare. Senza le fonti haggadiche a cui abbeverarsi la legge sarebbe indecifrabile e l’essere umano precipiterebbe nella solitudine del non senso, come mirabilmente ha narrato Franz Kafka nella sua opera. Raccontare storie ci salva, ci redime e ci fa vivere. Uno dei più celebri racconti della tradizione mistica del chassidismo ce lo ricorda lanciandoci implicitamente un monito. Lo riporto qui in sintesi, a braccio. Si narra che Yisroel Baal Shem Tov, fondatore del movimento chassidico, quando dei pericoli si addensavano sul suo popolo, era solito recarsi in un preciso luogo nella foresta, accendeva un fuoco, recitava una certa preghiera, e in questo modo riusciva ad allontanare i pericoli dal suo popolo. Una generazione dopo, il discepolo del Baal Shem Tov, il rebbe Dov Ber di Meseritch, il magghid, aveva dimenticato dove si trovava quel luogo nella foresta, ma sapeva accendere il fuoco e recitare la preghiera e ciò bastava ad allontanare i pericoli. Alla generazione successiva, un allievo del magghid non conosceva più quel luogo nella foresta e aveva dimenticato come si accendesse il fuoco, ma, seduto sulla sua poltrona, sapeva ancora recitare quella preghiera e ciò bastava ad allontanare i pericoli. Una generazione dopo, un altro grande maestro non aveva idea di dove fosse quel luogo nella foresta, non era in grado di accendere il fuoco, non sapeva più neppure la preghiera, ma poteva raccontare questa storia e anche ciò bastava ad allontanare i pericoli. Quello che a noi è rimasto di generazione in generazione è la storia di questa storia, o forse solo la sua eco, forse persino di meno: il bisbiglio della sua eco. Questo basterà ancora a scongiurare i pericoli? Non lo sappiamo, ma abbiamo il dovere di tramandarlo senza perdere la speranza. Questo fa per noi con le sue 101 storie ebraiche che non ti hanno mai raccontato Laura Mincer, persona e studiosa di profondo sapere della cultura ebraica e animata da vibrante passione per comunicarne l’inestinguibile valore. Questo libro è un dono importante per tutti. Per me farne parte, anche in piccola misura, è un grande kavod! Questa parola ebraica si traduce con onore
, ma nulla ha da spartire con la retorica che si associa usualmente a questo termine, perché attiene solo a quel poco che fai per dare il tuo contributo alla vita.
MONI OVADIA
Nota dell’autrice
Le storie che trovate in questo volumetto procedono sinuosamente da Roma alla Polonia, da Israele alle montagne del Kirghizistan, per tornare poi, anche, in Italia, nel ghetto di Venezia o alla Breccia di Porta Pia. Seguono, un po’ a caso, un po’ secondo un filo logico o una semplice concatenazione di idee, un percorso esule, di vagabondaggio, di ricerca, di sogni, di miracoli avvenuti, di grandi avventure spesso finite male.
Sono storie basate sul Talmud, ispirate alle leggende ebraiche tradizionali, tratte dai libri di storia, sentite raccontare o vissute in prima persona da chi scrive. Sono tutte storie vere, dunque documentabili; oppure leggende (e anche in questo caso dunque vere
, così come solo la leggenda sa essere). Le fonti sono infinite. La brevissima bibliografia in fondo al volume ne cita le maggiori, che non sempre appaiono in nota. A queste vanno aggiunte le persone con cui ho parlato, libri e giornali letti o sfogliati, siti internet, midrashim, ricordi personali, tanti spettacoli di Moni Ovadia, tante lezioni ascoltate in sinagoga…
1. I Trentasei Giusti
In ogni generazione, racconta un’antica leggenda che origina nel Talmud, ci sono sulla terra almeno Trentasei Giusti. Né belli né brutti, forse la qualità che meglio li contraddistingue è l’irritante banalità delle loro persone. Fanno mestieri umili: ciabattino, sarto, portatore d’acqua. Mestieri onesti ma privi di fulgore: vigile urbano, muratore, carrozziere. Non so se anche le donne possano esservi incluse. In tal caso sarebbero: commesse, badanti, shampiste. Le altre occupazioni predilette dai Giusti includono: scemo del villaggio, mendicante, prostituta. Uno di loro, in ogni generazione, è il Messia. Un Messia in attesa, dormiente, ma pronto a destarsi nel momento in cui il mondo sia maturo per accoglierlo. Da loro dipende la sopravvivenza stessa dell’Universo. È grazie a loro che esso mantiene quel livello minimo di accettabilità etica che, come nel caso dei dieci giusti a Sodoma, è in grado di prevenirne la distruzione. Poiché le lettere ebraiche hanno un corrispettivo numerico, essi vengono chiamati i lamed-vav (la lettera lamed ha il valore di 30, la vav di 6) o più spesso ancora, in yiddish, i lamed-vovnik. Hanno l’obbligo di non rivelare mai a nessuno la loro identità e di mostrare le qualità nascoste solo in caso di pericolo reale per la collettività. Ma anche in questo caso, dopo aver porto l’aiuto necessario, torneranno alla loro esistenza anonima. Un po’ come Superman-Clark Kent e forse non a caso, dato che Jerry Siegel e Joe Shuster, i creatori dell’esule di Krypton, avevano contrabbandato nel personaggio molte delle loro conoscenze ebraiche. Secondo alcuni esegeti, sarebbero lamed-vovnik anche il Serious Man di Joel e Ethan Coen, o i Men in Black dell’apparentemente poco cabalistico regista Barry Sonnenfeld; in effetti la ricerca dei Giusti nascosti può richiedere una vita intera – e per molti diventa un’occupazione a tempo pieno. Solo ai più saggi, ai leader della loro generazione però è concesso conoscerne l’identità. Questo fu il caso del Baal Shem Tov (1699-1760), il fondatore del chassidismo, che di nascosto inviava aiuti economici ai Giusti in perenne bolletta, e del suo acerrimo nemico, il razionalista Gaon di Vilna (1710-1798), considerato una delle menti più eccelse dell’ebraismo di tutti i tempi. Vedremo qui che a volte il lamed-vovnik sa di essere un eletto: in certi casi, come vittima di un lapsus, lascia trapelare la conoscenza profetica di cose ultramondane. Al termine della sua vita, così si racconta, il Gaon aveva deciso di recarsi in Eretz Israel, la Terra Santa d’Israele. Come suo unico accompagnatore aveva designato in gran segreto un lamed-vovnik. Grande fu lo stupore in una distilleria di Vilna quando vi arrivò una lettera di pugno del Gaon stesso, che invitava solennemente uno degli operai ad accompagnarlo in quel viaggio. Più grande ancora stupore e costernazione quando questi, scorso velocemente il contenuto della missiva, la gettò nel fuoco, dicendo: «Non serve». Il Gaon sarebbe morto di lì a pochi giorni, il viaggio progettato non sarebbe mai stato portato a termine.
Più spesso ancora però il Giusto non sa di essere tale ed è proprio in questa sua inerme sensibilità per il bene che risiede forse la sua caratteristica più forte e bella. Perché i lamed-vovnik sono stati identificati anche in personaggi famosi e autorevoli, le cui azioni, a molti note, ci consentono ogni tanto di inorgoglirci di appartenere al genere umano. Ma più spesso ancora si tratta di gente umile, dagli umili atti di bontà che si manifestano in piccole cose: nella gentilezza, nell’aiuto porto timidamente e senza clamore, nel rispetto per il volto dell’altro, quanto più questo ci appare scialbo e indifeso.
Nel suo libro L’ultimo dei Giusti, premio Goncourt nel 1959, lo scrittore ebreo francese di origine polacca André Schwarz-Bart (1928-2006) elabora una peculiare versione della leggenda: l’ultimo dei Giusti è infatti il protagonista del romanzo Ernie Lévy, discendente da un’antica famiglia ebraica italiana, e viene assassinato ad Auschwitz. Visto che, pur con tutti i suoi orrori consueti, il mondo per ora continua bene o male a tenere, possiamo confidare che Schwarz-Bart si fosse sbagliato. La tradizione ebraica però ci invita a non offendere il prossimo insistente lavavetri: è nelle sue mani che potrebbe trovarsi il destino dell’universo.
2. Adamo ed Eva, Ish e Ishah
È cosa nota che la Genesi presenti, nello spazio di poche righe, due diverse se non antitetiche versioni della creazione dell’uomo. Genesi 1, 27 infatti annuncia:
E Dio creò l’uomo a sua immagine.
A immagine di Dio lo creò.
Maschio e femmina li creò.
Molto dopo, perché dobbiamo arrivare a Genesi 2, 21-23, all’interno di una sorta di ripetizione di alcuni passaggi della creazione esposti poco prima in forma abbreviata, troviamo la narrazione più comunemente nota e raffigurata:
Allora il Signore Iddio fece cadere un sonno profondo sull’uomo che si addormentò; gli tolse quindi una delle costole, richiudendo la carne al suo posto. Poi il Signore Iddio con la costola tolta all’uomo formò una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo esclamò:
Questa volta sì, è ossa delle mie ossa
e carne della mia carne.
Costei avrà nome dall’uomo
perché fu tratta dall’uomo.
Sul perché fra le due versioni sia stata quella paritaria
ad avere la peggio e a cadere sostanzialmente nel dimenticatoio, si possono scrivere – e sono stati anche scritti – volumi interi. Ma qui vale la pena soffermarsi su due diverse chiose ebraiche al racconto della creazione della donna. La prima riguarda il riflesso divino nell’umano, la seconda fa riferimento invece a considerazioni ben più materiali e tangibili.
«Costei avrà nome dall’uomo», afferma Adamo. Come interpretare questa tanto recisa affermazione, se egli continua a chiamarsi Adamo e la sua compagna Eva?
Il midrash e la leggenda ci raccontano invece che Adamo, dopo la creazione di Eva, cambiò il suo nome in Ish (uomo); sua moglie fu Ishah (donna); era stato Dio stesso ad aggiungere il proprio nome – la lettera Yod e la lettera He, una sorta di marchio di fabbrica – alle due denominazioni quasi identiche: uomo e uoma
, oppure donno e donna
… Ritorna qui dunque, sebbene velato, il tema della parità fra i due sessi. Finché essi avessero osservato le Sue leggi, quella lettera li avrebbe protetti, ma (e anche qui potremmo forse decifrare un ritorno del tema della sostanziale parità fra i sessi): «Se avessero deviato Egli avrebbe tolto il suo nome e al posto di Ish sarebbe rimasto Esh, fuoco
: un fuoco che si sarebbe levato da ciascuno dei due per divorare l’altro»¹. L’odio distruttivo che spesso devasta, come un incendio, le coppie, la mancanza di amore e di rispetto, sono anche espressione di un peccato, testimonianza dell’assenza di Dio.
La creazione della donna da una costola di Adamo ha suggerito anche una diversa narrazione. Gli uomini infatti, ci raccontano i saggi ebrei, sono più deboli delle donne, meno resistenti di fronte alle avversità. E perché stupirsene? Se cade a terra un vaso di argilla questo quasi certamente è destinato a infrangersi. Diversamente stanno le cose per un recipiente di osso, che da una caduta, per quanto rovinosa, riceverà al massimo qualche ammaccatura. Lo stesso vale dunque per uomini e donne: creato dalla terra, l’uomo è fragile; assai più robusta e infaticabile la donna, che da un osso è stata formata.
3. La limitatezza dei grandi: Noè e la sua arca
L’arca, questa imbarcazione tozza più adatta a contenere, a proteggere, che a fendere le onde, è uno dei simboli più pregnanti della Bibbia. Il senso dell’arca, intitola un suo libro Alberto Cavaglion citando Montale: un senso che consiste nella capacità di salvaguardare, in tempi difficili e procellosi, i valori e le virtù fondamentali, di consentir loro di passare indenni, o quasi, attraverso le calamità della storia.
La storia di Noè, che, almeno fino alla scoperta del vino, fu «un uomo giusto e intemerato fra i suoi contemporanei» (Genesi 6, 9), è grosso modo ben nota a tutti. La sfrenatezza delle generazioni a lui contemporanee, incapaci al pentimento nonostante svariati ammonimenti e minacce. La sensibilità del devoto Noè ai segnali del cielo. La complessa costruzione dell’arca, una delle maggiori opere di ingegneria del tempo insieme alla Torre di Babele, edificata «in legname resinoso», lunga trecento cubiti, larga cinquanta e alta trenta. La drammatica scelta degli animali, che si presentavano essi stessi a coppie alle porte dell’arca e vi si inginocchiavano di fronte (tutte le specie che popolavano la terra, con la sola eccezione dei pesci). L’anno intero trascorso fra le onde e poi il simbolismo dei colori, l’esplorazione del nero corvo e della bianca colomba, l’arcobaleno in segno di tregua. Il lento ripopolarsi, infine, della terra devastata. Ma non a tutti, forse, è noto che la figura di Noè nella tradizione ebraica viene interpretata anche in maniera critica. Fu solo per grazia di Dio, si racconta, e non per i suoi meriti, che Noè trovò rifugio nell’arca. Perché anche lui, come in fondo anche gli altri patriarchi, fu solo un uomo debole, fallace e pieno di colpe. La deludente e tanto umana inadeguatezza morale di questa figura pur così grande, a cui siamo debitori della continuità della specie umana e di tutte le razze animali, ben risalta da questo racconto. Il tempo usato è il presente, poiché le millenarie vicende bibliche vivono in un presente continuo e che sempre si rinnova.
Disceso dall’arca, Noè vede di fronte a sé solo una distesa sconfinata di rovine, e comincia a disperarsi, a lamentarsi davanti al Signore. Solo dopo molti giorni, nel corso dei quali il patriarca si affligge, si tormenta, Egli finalmente risponde ai suoi gemiti. «Sciocco pastore!», esclama, e la sua voce adirata è così potente che il cielo sembra fendersi, «adesso me lo dici! Perché non ti sei rivolto a me quando ti ho avvertito che ci sarebbe stato un diluvio, affinché tu chiedessi pietà per la tua generazione? Ma tu ti sei occupato solo della tua salvezza! E solo ora, che la terra è deserta, vieni da me a piangere e a recriminare!».
4. La promessa di Vespasiano
Proprio in quel momento gli apparve Dio, circondato dagli angeli. Abramo cercò di alzarsi, ma Dio gli impedì qualunque atto di riverenza formale, e quando egli replicò che era sconveniente restare seduti in presenza del Signore, Dio disse: «Sappi che in futuro i tuoi discendenti già a quattro o cinque anni staranno seduti nelle scuole e nelle sinagoghe dove io dimorerò!».²
Nelle scuole dove io dimorerò… sono, com’è noto, la scuola e lo studio una delle chiavi di volta della sopravvivenza del popolo ebraico. Come altro sarebbe potuta perdurare fra le terribili procelle della storia quella gente che si definisce «il meno numeroso di tutti i popoli» (Deuteronomio 7, 7), che di se stessa dice «non grida e non fa clamore», che si descrive così fragile da non riuscire a «spezzare una canna rotta», a «spegnere un lucignolo debole» (Isaia 42, 2-3)?
Anche gli eroi degli ebrei sono a volte figure che male si associano ai nerboruti campioni dei greci e dei romani. Alla lotta in campo aperto preferiscono, a volte, il compromesso, se esso è in grado di salvare delle vite; al massimalismo prediligono, a volte, apparenti vie di fuga che consentano però di conservare lo spirito della nazione. Basta che non si chieda loro di compiere il peccato più grande, quello di fronte al quale anche i più inveterati mediatori sono pronti a gettarsi nel fuoco: l’apostasia, la venerazione degli idoli.
Yochanan ben Zakkai è una figura fra le più luminose e importanti di quelle rammentate dalla storia ebraica. Chiamato profeticamente «padre della conoscenza» dal suo maestro Hillel (e presto ne vedremo il motivo), durante la terribile Guerra giudaica Yochanan fu fra coloro che peroravano la resa di Gerusalemme di fronte all’assedio posto dall’inflessibile Vespasiano. La sua posizione però non era seguita; gli zeloti, che controllavano la città, rifiutavano qualsiasi patteggiamento, volevano resistere fino all’ultimo. Yochanan elaborò uno stratagemma: non per aver salva la sua vita, ma per preservare quella del popolo. Lo studioso si finse morto e fece trasportare in una bara il suo corpo fuori dalla città assediata. La bara fu deposta ai piedi del generale romano. Possiamo immaginare la scena. A poca distanza dalla città dalla quale senza sosta si elevano i lamenti degli orfani e delle vedove, sta un uomo tozzo, reso protervo dal clima infernale, dalla lunga attesa. Ha lo sguardo fisso verso la collina di Gerusalemme, il corpo massiccio stretto nell’armatura corrusca, i piedi impolverati nei sandali. Accanto a quei suoi piedi, una semplice bara di legno che viene scoperchiata e da cui esce un uomo dall’aspetto esangue e delicato. Alla vista del romano, si inchina fino a terra esclamando: «Mio imperatore!». Vespasiano non sa se ridere o indignarsi per quell’appellativo dettato, chissà, dal desiderio di accattivarsi la sua forza. Ma il sentimento più forte è la lusinga. Forse ricorda che tempo addietro anche Giuseppe Flavio gli aveva predetto lo stesso destino. Se la profezia si avvererà, osa promettere il generale, l’ebreo potrà chiedere tre grazie. Yochanan lo assicura: non vuole garanzie per la capitale e per il suo Tempio, ma per un’accademia e per alcuni studiosi. «Fai per me salvi», dice a Vespasiano, «Yavne e i suoi saggi, e la dinastia di Rabban Gamliel, e i dottori per curare Rabbi Zadok»³. Pochi istanti sono trascorsi da quello strano incontro che una delegazione a cavallo si avvicina al generale: «Ave Cesare! Il Senato e il popolo di Roma…».
Così Yavne fu salva. Vi venne collocato il Sinedrio, che si riuniva in una vigna, accanto a una piccionaia. Qui fu stabilito il canone biblico definitivo, qui si decideva il calendario. Grazie alla tutela assicurata da Vespasiano, a Yavne si formarono centinaia, migliaia di sapienti. La distruzione del Tempio, così vi si insegnava, aveva portato un cambiamento fondamentale nella vita del popolo: il posto dei sacrifici, che solo colà si erano potuti svolgere, era stato preso dallo studio e dalle buone azioni, che diventavano ora l’unico tramite, l’unico telegrafo
con il Creatore. Dall’infausto anno 70 fino alla rivolta di Bar Kochbà del 132, Yavne fu un luogo sacro come Gerusalemme, il punto da cui irradiavano la tradizione e la dottrina.
Non è noto quanto a lungo Yochanan rimase a capo della sua yeshivà, sappiamo solo che morì lontano da Yavne. I suoi discepoli andarono a trovarlo ed era già sul letto di morte. «Luce d’Israele», dissero avvicinandosi al suo capezzale, «colonna del Santuario, forte martello, perché piangi?». Un uomo del quale sappiamo che nulla aveva amato fuorché lo studio, forse languiva per la mancanza di studenti, forse gli occhi affaticati gli impedivano l’agognata lettura. O, forse, lui che non aveva tremato di fronte all’imperatore romano, temeva ora l’incontro con il Signore del mondo. Le sue ultime parole però non riflettono sgomento, ma una speranza messianica: «Andate», sussurrò prima di morire, «e preparate il trono per Hezekià, il re di Giuda, che sta arrivando».
5. Enoc, un mistico calzolaio
Nelle tenebre, là dove finisce la strada
folle e sciancato, un calzolaio
– nell’abisso dei sogni ha gli occhi fissati –
cuce scarpe a misura del piede di Dio
che Incommensurabile è chiamato!
Che benedetto sia il lavoro
dal cui fertile potere
nasce una tale calzatura,
nella notte argentata!⁴
Chissà se il poeta ebreo polacco Bolesław Leśmian (1887-1937), scrivendo i versi di questa sua nota poesia, aveva anche in mente il calzolaio del tempo che precedeva il Diluvio, il biblico Enoc. Il calzolaio, va detto, era un mestiere molto diffuso nella Diaspora dell’Europa orientale. Anche Isaac Bashevis Singer, per illustrare, nel suo racconto I piccoli ciabattini, la continuità del mondo ebraico nonostante la Shoà, aveva scelto proprio dei rappresentanti di questa arte. Un calzolaio compare anche in uno schizzo di Kafka, Un vecchio foglio. Narratore in prima persona, il