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Notre-Dame de Paris
Notre-Dame de Paris
Notre-Dame de Paris
E-book1.347 pagine19 ore

Notre-Dame de Paris

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Info su questo ebook

Celebre racconto storico, che narra l'amore struggente del deforme campanaro della Cattedrale di Notre-Dame Quasimodo per la zingara Esmeralda. Questi la salverà in occasione del ratto architettato dall'amico Arcidiacono Claude Frollo, anch'esso invaghito di lei, ma nulla potrà contro la falsa accusa di omicidio e la condanna a morte per l'omicidio del capitano Phoebus. Libro in italiano con integrazione del testo in lingua originale francese.
LinguaItaliano
EditoreKitabu
Data di uscita25 mar 2013
ISBN9788867441471
Autore

Victor Hugo

Victor Hugo (1802-1885) was a French poet and novelist. Born in Besançon, Hugo was the son of a general who served in the Napoleonic army. Raised on the move, Hugo was taken with his family from one outpost to the next, eventually setting with his mother in Paris in 1803. In 1823, he published his first novel, launching a career that would earn him a reputation as a leading figure of French Romanticism. His Gothic novel The Hunchback of Notre-Dame (1831) was a bestseller throughout Europe, inspiring the French government to restore the legendary cathedral to its former glory. During the reign of King Louis-Philippe, Hugo was elected to the National Assembly of the French Second Republic, where he spoke out against the death penalty and poverty while calling for public education and universal suffrage. Exiled during the rise of Napoleon III, Hugo lived in Guernsey from 1855 to 1870. During this time, he published his literary masterpiece Les Misérables (1862), a historical novel which has been adapted countless times for theater, film, and television. Towards the end of his life, he advocated for republicanism around Europe and across the globe, cementing his reputation as a defender of the people and earning a place at Paris’ Panthéon, where his remains were interred following his death from pneumonia. His final words, written on a note only days before his death, capture the depth of his belief in humanity: “To love is to act.”

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    Anteprima del libro

    Notre-Dame de Paris - Victor Hugo

    NOTRE-DAME DE PARIS

    Victor Hugo, Notre-Dame de Paris

    Originally published in French

    ISBN 978-88-674-4147-1

    Collana: RADICI

    © 2014 KITABU S.r.l.s.

    Via Cesare Cesariano 7 - 20154 Milano

    Ti ringraziamo per aver scelto di leggere un libro Kitabu.

    Ti auguriamo una buona lettura.

    Progetto e realizzazione grafica: Rino Ruscio

     PREFAZIONE

    Qualche anno fa, visitando, o meglio frugando la chiesa di Notre-Dame, l'autore di questo libro trovò, in un ripostiglio oscuro di una delle torri, questa parola incisa sul muro:

    'ANAΓKH*

    Queste maiuscole greche, annerite dal tempo e assai profondamente scolpite nella pietra, certi modi, non so quali, propri della calligrafia gotica dati alla loro forma e alla loro disposizione, come per rivelare che era stata una mano del Medioevo a scriverle là e soprattutto il senso lugubre e fatale che tali parole racchiudono, colpirono fieramente l'autore.

    Egli si domandò, cercò di indovinare quale fosse stata l'anima in pena che non aveva voluto partirsene da questo mondo senza lasciare questo marchio di delitto o di dolore sulla fronte della vecchia chiesa.

    In seguito fu non so se intonacato o grattato il muro, e così l'iscrizione è scomparsa. Poiché così si trattano da duecento anni le meravigliose chiese del Medioevo. Le mutilazioni vengono loro da ogni parte, così dal di dentro come dal di fuori. Il prete le intonaca, l'arcidiacono le gratta: poi arriva il popolo, che le butta giù.

    All'infuori, dunque, di questo fragile ricordo che qui le consacra l'autore di questo libro, non resta oggi più niente della misteriosa parola scolpita nella tenebrosa torre di Notre-Dame, niente dell'ignoto destino che essa compendiava così tristemente. L'uomo che scrisse quella parola su quel muro è stato cancellato, già da molti secoli, dalle generazioni degli uomini, la parola, a sua volta, è stata cancellata dal muro della chiesa, e anche la chiesa, forse, sarà presto cancellata dalla faccia della terra.

    Sopra quella parola fu scritto questo libro.

    Febbraio 1831

    * Leggi ananche ('fatalità').

    LIBRO PRIMO

    CAPITOLO I.

    LA SALA GRANDE

    Sono oggi trecentoquarantotto anni, sei mesi e diciannove giorni che i parigini furono destati dal suono di tutte le campane a stormo, nella triplice cinta della Cité, dell'Université, della Ville.

    Tuttavia il 6 gennaio del 1482 non è affatto uno di quei giorni che la storia ricorda. Niente di memorabile in quel mattutino agitarsi di campane e di borghesi parigini. Non si trattava di un assalto di piccardi o borgognoni né di un'urna sacra portata in processione, né di una rivolta di studenti nella vigna di Laas, né di un ingresso del nostro molto temuto signor messer il re, né di una bella impiccagione di briganti e brigantesse alla Justice di Parigi. E neppure si trattava di un improvviso arrivo, così frequente nel XV secolo, di qualche ambasceria ingallonata e impennacchiata. Erano soltanto due giorni che l'ultima cavalcata di questa specie, quella degli ambasciatori fiamminghi incaricati di concludere il matrimonio tra il delfino e Margherita di Fiandra, aveva fatto ingresso a Parigi; grossa seccatura per il cardinale di Borbone il quale, per compiacere il re, aveva dovuto far buon viso a tutta quella ressa di borgomastri fiamminghi e offrir loro, nel suo palazzo di Borbone, una molto bella moralità, scherzo, satira e farsa, mentre una pioggia scrosciante inondava al portone le sue magnifiche tappezzerie.

    Ciò che il 6 di gennaio, metteva in subbuglio tutta la plebaglia di Parigi, come dice Jehan de Troyes, era la doppia solennità dell'Epifania e della festa dei Matti che ricorrevano unite da tempo immemorabile.

    Quel giorno doveva farsi il falò alla Grève, piantagione del maggio alla cappella di Braque, e mistero [1] al Palais de Justice. Ne era stato fatto il bando la vigilia a suon di trombe nei crocicchi, dalle genti del signor prevosto in belle casacche di cammellino violetto, con grandi croci bianche sul petto.

    Così, la folla da ogni banda, chiuse le case e le botteghe, si incamminava fin dal primo mattino verso uno dei tre luoghi designati. Ciascuno aveva fatto la sua scelta; chi per il falò, chi per il maggio, chi per il mistero. Bisogna subito dire, a lode del secolare buonsenso degli stupidi di Parigi, che la più gran parte di quella folla si dirigeva verso il falò, il quale era cosa adatta alla stagione, o verso il mistero che doveva essere rappresentato nella sala grande del palazzo, ben coperta e ben chiusa; ma tutti i curiosi si erano trovati d'accordo nel lasciare il povero maggio mal fiorito tremare solo solo, sotto il cielo di gennaio, nel cimitero della cappella di Braque.

    Il popolo affluiva soprattutto nei viali del Palais de Justice, perché si sapeva che gli ambasciatori fiamminghi, arrivati l'antivigilia, si proponevano di assistere alla rappresentazione del mistero e all'elezione del papa dei matti, la quale doveva farsi anch'essa nella sala grande.

    Era tutt'altro che facile, quel giorno, riuscire a entrare lì dentro; e sì che era reputata, in quel tempo, il più grande luogo coperto che esistesse al mondo; (vero è che Sauval non aveva ancora misurato la sala grande del castello di Montargis). La piazza del palazzo, stipata di popolo, offriva ai curiosi delle finestre lo spettacolo di un mare in cui cinque o sei strade, come altrettante foci di fiumi, vomitassero fiotti di teste. Le onde di questa folla, ingrossando a ogni istante, si urtavano agli angoli delle case che qua e là sporgevano come promontori nel bacino irregolare della piazza. Al centro della alta facciata gotica [2] del palazzo, la grande scalinata, salita e discesa senza riposo da una doppia corrente, che dopo essersi schiacciata nella rampa di mezzo si spandeva a larghe ondate per le due rampe laterali; la grande scalinata, ripeto, rigurgitava incessantemente come una cascata sopra un lago. Le grida, le risa, lo scalpiccio di quelle migliaia di piedi facevano un rumore e un clamore continuo. Di tanto in tanto questo rumore e questo clamore raddoppiavano: la corrente, che spingeva tutta quella folla verso la grande scalinata, sostava, si agitava, faceva gorgo. Era la violenza di un arciere o il cavallo di un sergente della prevosteria che si erano precipitati per ristabilire l'ordine: ammirevole tradizione che la provosteria ha legato ai connestabili, i connestabili ai marescialli, i marescialli alla presente gendarmeria di Parigi.

    Alle porte, alle finestre, agli abbaini, sopra i tetti, formicolavano migliaia di buone facce borghesi, calme e oneste, che guardavano la folla e non si curavano di sapere niente di più; perché c'è molta gente a Parigi che si contenta dello spettacolo degli spettatori: infatti è già una cosa interessantissima guardare un muro dietro il quale si sa che succede qualcosa.

    Se fosse dato a noi, uomini del 1830, di mescolarci in spirito a quei parigini del xv secolo, e di entrare con loro, tra stiramenti, gomitate e capitomboli, in quella immensa sala del palazzo pur così stretta in quel giorno 6 gennaio 1482, lo spettacolo sarebbe per noi pieno di interesse e di meraviglia, perché tutta quella roba vecchia ci sembrerebbe straordinariamente nuova.

    Se il lettore ce lo consente, ci proveremo a immaginare l'impressione che riceverebbe entrando con noi in quella grande sala in mezzo a quella folla in sopravveste, casacca e giaco.

    Innanzitutto, un gran ronzio nelle orecchie, un gran barbaglio negli occhi. Sopra le nostre teste una doppia volta acuta fregiata di sculture in legno, dipinta d'azzurro, stellata di fiordalisi d'oro; sotto i nostri piedi un pavimento di marmi bianchi e neri alternati. A qualche passo da noi un enorme pilastro, poi un altro, poi un altro ancora: in tutto sette pilastri lungo il mezzo della sala sostenenti l'incontro delle due navate. Attorno ai quattro primi pilastri, banchi di venditori tutti luccicanti di vetri e di chincaglierie; attorno ai tre ultimi, dei sedili di legno di quercia, consumati e lustrati dai calzoni dei querelanti e dalle vesti dei procuratori. Tutto intorno alla sala, lungo gli alti muri, tra una porta e l'altra, tra una finestra e l'altra, l'interminabile fila delle statue di tutti i re di Francia da Faramondo in poi: i re poltroni con le braccia ciondolanti e gli occhi bassi; i re valorosi e battaglieri con la testa e le braccia arditamente levate al cielo. Alle lunghe finestre gotiche, vetrate di mille colori; alle grandi uscite della sala, ricche porte scolpite con sottile arte; e il tutto, volte, pilastri, muraglie, stipiti, ornamenti, porte, statue, tutto ricoperto dall'alto in basso d'una splendida alluminatura azzurro e oro, che, già un po' sbiadita al tempo in cui noi immaginiamo di vederla, era poi quasi del tutto scomparsa sotto la polvere e le ragnatele nell'anno di grazia 1549, quando Du Breul l'ammirava ancora ma solo per tradizione.

    Rappresentiamoci ora questa immensa sala bislunga, rischiarata dalla pallida luce di un giorno di gennaio, invasa da una folla variopinta rumoreggiante che scorre lungo i muri e gira intorno ai sette pilastri, e si avrà subito un'idea confusa dell'intero quadro, di cui ora noi proveremo a fissare gli strani particolari.

    È certo che se Ravaillac non avesse assassinato Enrico IV, non ci sarebbe stato un incartamento del processo Ravaillac depositato nell'archivio del Palais de Justice; né complici interessati a distruggere quell'incartamento; né incendiari obbligati, in mancanza di mezzi migliori, a bruciare l'archivio per bruciare l'incartamento, anzi a bruciare il Palais de Justice per bruciare l'archivio; insomma niente incendio del 1618. Il vecchio palazzo sarebbe ancora in piedi con la sua vecchia sala grande; e io potrei dire al lettore: «va' a vederla», e così ci risparmieremmo io di scrivere e lui di leggere questa descrizione. Ciò prova una verità nuova: che i grandi fatti storici hanno delle conseguenze incalcolabili.

    È vero che si può benissimo credere che Ravaillac non avesse affatto complici, o che, se per caso ne ebbe, non entrassero per nulla nell'incendio del 1618. Di quell'incendio esistono altre due spiegazioni plausibilissime.

    La prima è la grande stella infuocata larga un piede e alta un braccio, che cadde, come tutti sanno, dal cielo, sopra il palazzo, il 7 marzo dopo la mezzanotte. In secondo luogo la quartina di Teofilo:

    Certes, ce fut un triste jeu

    Quand à Paris dame Justice,

    Pour avoir mangé trop d'épice.

    Se mit tout le palais en feu [3].

    Qualsiasi cosa si pensi di questa triplice spiegazione politica, fisica e poetica dell'incendio del Palais de Justice nel 1618, la cosa dolorosamente sicura è che l'incendio ci fu. Resta ben poco, oggi, a causa di quella catastrofe, e soprattutto a causa dei diversi restauri successivi che hanno finito di rovinare quello che la catastrofe aveva risparmiato: resta ben poco di questa prima dimora dei re di Francia, di questo palazzo fratello maggiore del Louvre, già così antico al tempo di Filippo il Bello che vi si ricercavano le tracce delle magnifiche costruzioni del re Roberto descritte da Helgaldus. Quasi tutto è scomparso. Che ne è stato della camera della cancelleria dove san Luigi consumò il suo matrimonio! del giardino in cui sedeva giudice, «vestito d'una cotta di cammellino, di una sopraveste di tarlatana senza maniche, e d'un mantello ancora, sopra, di zendado nero, adagiato su dei tappeti, con Joinville»? Dov'è la camera dell'imperatore Sigismondo? e quella di Carlo VI? e quella di Giovanni Senzaterra? Dov'è la scalea dalla quale Carlo VI promulgò il suo editto di grazia? e la pietra dove Marcel sgozzò, in presenza del delfino, Robert de Clermont e il maresciallo di Champagne? e l'usciolo dove furono lacerate le bolle dell'antipapa Benedetto, e da cui se ne ritornarono coloro che le avevano portate, incappati e mitrati a ludibrio, facendo onorevole ammenda per tutta Parigi? e la sala grande, con le sue dorature, il suo azzurro, i suoi archi acuti, le sue statue, i suoi pilastri, la sua immensa volta tutta frastagliata di sculture? e la camera dorata? e il leone di pietra che stava alla porta, la testa bassa, la coda tra le gambe, come i leoni del trono di Salomone, nell'atteggiamento di umiltà che si conviene alla forza quando è dinanzi alla giustizia? e le belle porte? e le belle vetrate? e le serrature cesellate che scoraggiavano Biscornette? e i delicati intagli di Du Hancy?... Che ha fatto il tempo, che hanno fatto gli uomini di queste meraviglie? Che cosa abbiamo avuto in cambio di tutto questo, di tutta questa storia di Gallia, di tutta quest'arte gotica? Le pensanti e basse arcate di monsieur De Brosse, quel goffo architetto del portale di Saint-Gervaise! quanto all'arte questo; e quanto alla storia, poi, abbiamo i ricordi del grosso pilastro, ancor tutto echeggiante dei pettegolezzi dei Patrus.

    Non è molto davvero.

    Ma ritorniamo alla sala grande dell'antico palazzo.

    Le due estremità di quel gigantesco parallelogramma erano occupate l'una dalla famosa tavola marmorea, tanto lunga, larga e spessa, che non fu mai vista, dicono le vecchie carte in uno stile che avrebbe messo appetito a Gargantua, una simil fetta di marmo al mondo; l'altra dalla cappella dove Luigi XI si era fatto scolpire inginocchiato dinanzi alla Vergine; e dove aveva fatto trasportare, senza preoccuparsi di lasciare due nicchie vuote nella fila dei re, le statue di Carlo Magno e di san Luigi, due santi che credeva accreditatissimi in cielo per essere stati re di Francia. Questa cappella, ancora nuova, costruita da appena sei anni, era tutta in quel gusto amabile fatto di delicata architettura, di meravigliosa scultura, di sottile e profonda cesellatura, che segna da noi la fine dell'era gotica e si perpetua fino verso la metà del XVI secolo nelle fantasie magiche della Rinascenza. Il piccolo rosone che si apriva sulla porta, era poi un vero capolavoro di leggerezza e di grazia: sembrava una stella di merletto.

    Nel mezzo della sala, di fronte alla porta maggiore era stata alzata una tribuna coperta di broccato d'oro, addossata al muro; e a entrata particolare era stata adibita una finestra dell'andito che conduceva alla stanza dorata: era stata alzata, quella tribuna, per gli ambasciatori fiamminghi e gli altri notabili personaggi invitati alla rappresentazione del mistero.

    Secondo l'usanza, il mistero doveva essere rappresentato sulla gran tavola di marmo. Questa era stata preparata appositamente fin dalla mattina; la ricca lastra marmorea tutta striata dai tacchi dei curiali parigini sosteneva una gabbia di legname assai alta, il cui piano superiore, visibile da tutta la sala, doveva servire da teatro, mentre l'interno, mascherata da tappezzerie, doveva servire da spogliatoio ai personaggi del mistero.

    Una rozza scala a pioli, appoggiata ingenuamente all'esterno, doveva stabilire la comunicazione tra la scena e lo spogliatoio, e servire così alle uscite come alle entrate. Non v'era personaggio imprevisto, né accidente, né colpo di scena che non avesse a salire per quella scaletta a pioli. Innocente e veneranda fanciullezza dell'arte e della macchina!

    Quattro sergenti del podestà del palazzo, guardiani obbligati di tutti i divertimenti del popolo, tanto i giorni di festa come i giorni di impiccagione, stavano ai quattro angoli della tavola marmorea.

    La rappresentazione doveva incominciare al dodicesimo tocco di mezzodì del grande orologio del palazzo: ben tardi senza dubbio per una rappresentazione teatrale, ma era stato necessario fare il comodo degli ambasciatori.

    Ora, tutta quella moltitudine aspettava lì dal mattino. Una gran parte di quei curiosi tremavano dall'alba sulla scalinata del palazzo; qualcuno perfino giurava di aver passato la notte sulla soglia della gran porta per essere sicuro di entrare primo. La folla cresceva di minuto in minuto, e come una corrente in piena cominciava ad alzarsi lungo i muri, a gonfiarsi attorno ai pilastri, a straripare sui cornicioni, sui davanzali delle finestre, su tutte le sporgenze dell'architettura, su tutti i rilievi delle sculture. Così lo scomodo, l'impazienza, la noia, la licenza di un giorno di cinismo e di follia, le proteste che scoppiavano ogni momento per un gomito puntuto o per una scarpa chiodata, la stanchezza di una lunga attesa, davano già, molto prima dell'ora in cui gli ambasciatori dovevano arrivare, un che di esasperato e di amaro ai clamori di quella popolazione chiusa, incastrata, stipata, schiacciata, soffocata. Non si udivano se non imprecazioni contro i fiamminghi, il prevosto dei mercanti, il cardinale di Borbone, il podestà del palazzo, Margherita d'Austria, i sergenti con l'asta, il freddo, il caldo, il cattivo tempo, il vescovo di Parigi, il papa dei matti, i pilastri, le statue, quella porta chiusa, quella finestra aperta: tutto con gran divertimento di certe frotte di scolari e di servi sparsi tra la folla, i quali mescolavano a quel generale malcontento i loro lazzi e i loro motti e punzecchiavano, per dir così, a colpi di spillo il malumore di tutti.

    Un gruppo di questi allegri demoni, tra gli altri, aveva sfondato la vetrata di una finestra, si era arditamente seduto sul cornicione e di lassù gettava occhiate e motteggi ora dentro ora fuori sulla folla della sala e su quella della piazza. Dai loro gesti di scherno, dai loro scoppi di riso, dai richiami beffardi che si scambiavano da una parte all'altra della sala con i loro compagni, era facile capire che quei giovani non sentivano affatto la stanchezza e la noia che sentiva il resto della gente, perché sapevano considerare l'attesa di tutti come uno spettacolo, e così aspettavano l'altro senza impazienza.

    «Ma per Dio! Siete voi, Joannes Frollo de Molendino!», gridava uno di quelli a una specie di diavolo biondo, dalla faccia amabile e maliziosa, aggrappato al fogliame d'un capitello. «Vi sta bene il vostro nome Jehan du Moulin: le vostre braccia e le vostre gambe hanno l'aria di quattro ali di mulino che girino al vento. Quant'è che siete lassù?»

    «Misericordia del diavolo!», rispose Joannes Frollo. «Sono più di quattr'ore, spero almeno che me le scontino sul tempo che dovrò stare in purgatorio. Ho sentito gli otto cantori del re di Sicilia intonare il primo versetto della messa cantata delle sette, nella Sainte-Chapelle».

    «Cantanti coi fiocchi», riprese l'altro, «e che hanno la voce ancora più acuta dei loro berretti! Prima di dedicare questa messa al signor san Giovanni il re avrebbe fatto bene a informarsi se al signor san Giovanni piace il latino salmodiato alla provenzale».

    «È stato per impiegare questi maledetti cantori del re di Sicilia!», strillò una vecchia tra la folla, sotto la finestra. «Non so se mi spiego! Mille lire parigine per una messa! E garantite sui proventi del mercato del pesce, per di più!».

    «Calma, vecchia!», interruppe un grosso e serio personaggio che si tappava il naso, vicino alla pescivendola; «bisognava bene decretare questa messa: volevate che il re ricadesse ammalato?»

    «Ben detto davvero, messer Gilles Lecornu, mastro pellicciaio del guardaroba del re!», gridò lo scolaretto aggrappato al capitello.

    Uno scroscio di risa di tutti gli scolari accolse il nome disgraziato del povero pellicciaio del re.

    «Lecornu! Gilles Lecornu!», dicevano gli uni.

    «Cornutus et hirsutus» [4], ribattevano gli altri.

    «Sicuro!», continuava il demonietto del capitello. «Che c'è da ridere? Onorabilissimo uomo quel signor Gilles Lecornu, fratello di maestro Jehan Lecornu, prevosto del palazzo del re, figlio di mastro Mahiet Lecornu, primo portiere del bosco di Vincennes, tutti borghesi di Parigi, e tutti ammogliati, di padre in figlio!».

    L'allegria raddoppiò. Il grosso pellicciaio, senza rispondere verbo, si affaticava a nascondersi: ma sudava e soffiava invano; come una bietta mazzuolata in un tronco d'albero, i suoi sforzi non gli servivano se non a inquadrare più solidamente tra le spalle dei vicini il suo faccione apoplettico, rosso di dispetto e di collera.

    Finalmente uno di questi, basso, grosso e venerabile come lui, venne in suo aiuto:

    «Vergogna! Degli scolari che parlano così a un borghese! Al tempo mio si sarebbero frustati ben bene e poi bruciati».

    La banda intera insorse.

    «Oilà! Che c'è? Chi ha cantato? Chi è quel gufo del malaugurio?»

    «Toh! lo riconosco», disse uno, «è maestro Andry Musnier!».

    «È uno dei quattro librai patentati dell'Université», disse un altro.

    «Tutto va per quattro là dentro»; gridò un terzo, «le quattro nazioni, le quattro facoltà, le quattro feste, i quattro procuratori, i quattro elettori, i quattro librai...».

    «E noi facciamogli il diavolo a quattro!», ribatté Jean Frollo.

    «Musnier, ti bruceremo i libri».

    «Musnier, ti bastoneremo i servitori».

    «Musnier, faremo la festa alla tua donna».

    «La buona e grossa mademoiselle Oudarde».

    «Fresca e allegra come se fosse già vedova».

    «Che il diavolo vi porti!», borbottò maestro Andry Musnier.

    «Maestro Andry!», gridò Jehan, sempre attaccato al suo capitello, «sta' zitto, se no ti casco sulla testa».

    Maestro Andry alzò gli occhi; parve considerare un momento l'altezza del pilastro e il peso di quel mattaccio, moltiplicò forse mentalmente il peso per il quadrato della velocità, e non fiatò più.

    Jehan, padrone del campo, seguitò trionfante:

    «E sono capace di farlo, sai? per quanto sia fratello di un arcidiacono!».

    «Bei messeri, quella nostra gente dell'Université! Non aver fatto rispettare i nostri privilegi in una giornata come questa! Insomma! c'è il maggio e c'è il falò alla Ville; c'è mistero e papa dei matti e ambasciatori fiamminghi alla Cité: e all'Université? Niente!».

    «Eppure place Maubert è grande abbastanza!», osservò uno degli scolari appollaiati sul davanzale della finestra.

    «Abbasso il rettore! gli elettori! e i procuratori!», gridò Joannes.

    «Bisognerà fare un falò questa sera al Champ-Gaillard», soggiunse un altro, «e con libri di maestro Andry!».

    «E con i leggii degli scrivani!», gridò il suo vicino.

    «E le bacchette dei bidelli!».

    «E le sputacchiere dei decani!».

    «E le dispense dei procuratori!».

    «E le madie degli elettori!».

    «E gli sgabelli del rettore!».

    «Abbasso!», riprese Jehan in falso bordone, «abbasso maestro Andry, i bidelli e gli scrivani; i teologi, i medici e i decretisti; i procuratori, gli elettori e il rettore!».

    «È la fine del mondo!», brontolò maestro Andry tappandosi le orecchie.

    «Giusto il rettore: eccolo là che passa nella piazza!», gridò uno di quelli della finestra.

    Fu un rivoltarsi di tutti verso la piazza.

    «È proprio il nostro venerabile rettore maestro Thibaut?», domandò Jehan Frollo du Moulin, che stando sopra uno dei pilastri dell'interno non poteva veder fuori.

    Era proprio il rettore, infatti, insieme a tutti i dignitari dell'Université che si recava in pompa magna a onorare l'ambasceria. Traversava in quel momento la piazza del palazzo. Gli scolari, pigiandosi alla finestra, li accolsero al loro passaggio con sarcasmi e applausi ironici. Il rettore che veniva avanti a tutti, fu servito per primo.

    «Buongiorno, signor rettore!, Olà! buongiorno dico!».

    «Come mai è qui quel vecchio giocatore? E i dadi?».

    «Come trotta su quella mula! Sono più lunghe le orecchie di lui, però!».

    «Olà! riverito signor rettore Thibaut! Tybalde, aleatori [5] vecchio rimbambito! vecchio giocatore!».

    «Dio vi protegga! Ne avete fatti molti di doppi sei, stanotte?».

    «Faccia floscia creata e stampata apposta per l'amore del gioco e dei dadi!».

    «Dove andate così di corsa, Thibaut, Tybalde ad dados! [6], che rivoltate la schiena all'Università?»

    «Andrà a cercare alloggio in via Thibautodé [7]!», gridò Jehan du Moulin.

    Tutta la banda ripetè la facezia con una voce di tuono e con dei battimani furibondi:

    «Andate a cercare alloggio in via Thibautodé, non è vero signor rettore, giocatore del diavolo?».

    Poi venne la volta degli altri dignitari.

    «Abbasso i bidelli! Abbasso i mazzieri!».

    «Di' su, Robin Poussepain, chi è mai quello là?»

    «È Gilbert de Suilly, Gilbertus de Soliaco, il cancelliere del collegio d'Autun».

    «Ecco la mia scarpa: tu che sei più avanti, buttagliela in faccia».

    «Saturnalitias mittimus ecce nuces» [8].

    «Abbasso i sei teologi in veste bianca!».

    «Sono quelli i teologi? Io credevo che fossero sei oche bianche regalate da Sainte-Geneviève alla città, per il feudo di Rogny».

    «Abbasso i medici!».

    «Abbasso le dispute cardinali e quodlibetarie!».

    «A te, il mio berrettone, cancelliere di Sainte-Geneviève! in premio dello sgambetto che mi hai dato. Non lo sapete? ha dato il mio posto per la nazione di Normandia al piccolo Ascanio Falzaspada, che è della provincia di Bourges, perché è italiano».

    «È un'ingiustizia!», gridarono tutti gli scolari. «Abbasso il cancelliere di Sainte-Geneviève!».

    «Ohé! Maestro Johachim de Ladehors! Ohe! Dahuille! Ohe! Lambert Hoctement!».

    «Che il diavolo sprofondi il procuratore della nazione di Alemagna!».

    «E i cappellani della Sainte-Chapelle, con le loro tuniche grige: cum tunicis grisis!».

    «Seu de pellibus grisis faurratis!» [9].

    «Olà! oh, i maestri dell'arte! Che belle cappe nere: che belle cappe rosse!».

    «Che bella coda per il nostro rettore!».

    «Sembra proprio un doge di Venezia che va allo sposalizio del mare».

    «Guarda, Jehan: ecco i canonici di Sainte-Geneviève!».

    «Al diavolo la canonicheria!».

    «Abate Claude Choart! dottore Claude Choart! Cercate Marie la Giffarde, forse?»

    «E in rue de Glatigny».

    «Rifà il letto del roi des ribauds [10]».

    «Paga i suoi quattro denari; quatuor denarios».

    «Aut unum bonum» [11].

    «Volete che vi paghi a contante?».

    «Compagni! Maestro Simon Sanguin, l'elettore di Piccardia: ha messo la moglie sulla groppa».

    «Post equitem sedet atra cura» [12].

    «Coraggio, maestro Simon!».

    «Buongiorno, signor elettore!».

    «Buonanotte, signora elettrice».

    «Beati loro che vedono tutta questa roba!», sospirava Johannes de Molendino, sempre aggrappato alle foglie d'acanto del suo capitello.

    Intanto il libraio dell'Université, maestro Andry Musnier, si chinava all'orecchio del pellicciaio del re, mastro Lecornu.

    «Ve lo dico io, signor mio, è la fine del mondo!». Quando mai si è visto un simile traviamento della scolaresca? Sono le maledette invenzioni di questo secolo che rovinano tutto. Le artiglierie, le colubrine, le bombarde, e più di tutto quell'altra peste dell'Alemagna, la stampa! Non più manoscritti, non più libri! La stampa uccide l'arte libraria. È la fine del mondo!

    «Io lo vedo bene dal progresso che fanno i velluti», osservò il pellicciaio.

    A questo punto suonò mezzogiorno.

    «Oooh!...», fece tutta la folla in coro.

    Gli scolari si chetarono. Poi ci fu un grande scompiglio; uno stropiccio di piedi, un rigirare di teste; un gran scoppio generale di tosse e di soffiate di naso; tutti si collocavano, si alzavano, si raggruppavano, si accomodavano. Poi si fece un gran silenzio; tutti i colli restarono tesi, tutte le bocche aperte, tutti gli occhi alla tavola marmorea... Ma non si vide niente. I quattro sergenti del podestà erano ancora là, duri e immobili come quattro statue dipinte. Tutti gli occhi si rigirarono dalla parte della tribuna riservata agli ambasciatori fiamminghi. La porta restava chiusa e la tribuna vuota. Quella folla aspettava dall'alba tre cose: il mezzogiorno, l'ambasceria di Fiandra, il mistero. Il mezzogiorno solo era stato di parola.

    La cosa non andava giù. Si aspettò uno, due, tre, cinque minuti, un quarto d'ora: l'impazienza diventava rabbia. Serpeggiava un brontolio di gente irritata. «Il mistero! Il mistero!», si sentiva mormorare. I cervelli fermentavano. Una tempesta ancora allo stato di minaccia fluttuava alla superficie di quella folla. Fu Jehan du Moulin che ne cavò la prima scintilla.

    «Il mistero! e al diavolo i fiamminghi!» gridò a squarciagola, torcendosi come un serpente attorno al suo capitello.

    La folla batté le mani.

    «Il mistero!», ripetè tutta a una voce. «E la Fiandra a tutti i diavoli!».

    «O il mistero subito», riprese lo scolaro, «o propongo di impiccare il podestà del palazzo come commedia e moralità».

    «Ben detto!», gridò il popolo. «E perché non incominciamo a impiccare i suoi sbirri?». Ci fu una grande acclamazione. I quattro poveri diavoli impallidirono e si guardarono tra loro. La moltitudine si scagliava contro di loro: vedevano già la debole balaustra di legno che li separava dalla folla piegarsi e gonfiarsi sotto la pressione.

    Il momento era difficile. E si gridava da ogni parte:

    «Dàlli! Dàlli!».

    A questo punto la tappezzeria dello spogliatoio che già abbiamo descritto, si sollevò e ne uscì un personaggio la cui sola vista bastò a calmare la folla, e a cambiare come per incanto quella gran collera in gran curiosità.

    «Silenzio! Silenzio!».

    Il personaggio, tutt'altro che tranquillo, si avanzò tremando tutto fino all'orlo della tavola di marmo, con delle esagerate riverenze che man mano sempre più somigliavano a genuflessioni.

    Tuttavia la calma si era a poco a poco ristabilita. Non restava se non quel vago rumore che c'è sempre nel silenzio delle folle.

    «Signori borghesi», disse quello, «noi dobbiamo aver l'onore di declamare e rappresentare davanti Sua Eminenza il cardinale una bellissima moralità che ha per titolo: Il giusto judicio de la Signora Vergine Maria. Io faccio Giove. Sua Eminenza accompagna in questo momento la onorabilissima ambasceria del signor duca d'Austria, la quale è trattenuta tuttavia per ascoltare l'arringa del signor rettore dell'Université, alla Porte Baudets. Non appena l'eminentissimo cardinale giungerà, noi daremo inizio».

    È certo che ci voleva proprio l'intervento di Giove in persona per salvare i quattro disgraziati sergenti del podestà del palazzo. Se noi avessimo il bene di aver inventato questa verissima storia e di esserne perciò responsabili al cospetto di Sua Signoria la Critica, non si potrebbe davvero invocare contro di noi a questo proposito il precetto classico: Nec deus intersit [13]. Del resto, l'abbigliamento del signor Giove era assai bello e aveva molto contribuito a calmar la folla, meravigliandola. Giove era vestito d'un giaco coperto di velluto nero, a borchie d'oro: aveva un berrettone in capo guarnito di bottoni d'argento dorato: e se non fosse stato il belletto e l'enorme barba che gli copriva mezzo viso, nonché il rotolo di cartone dorato tutto irto di ritagli d'orpello che teneva in mano e nel quale gli occhi dei più sapienti riconoscevano subito la folgore; e se non fossero stati i suoi piedi color carne legati con nastri alla greca, egli avrebbe ben potuto sostenere il paragone, per la severità del suo vestito, con un arciere bretone del corpo di monsieur de Berry.

    CAPITOLO II.

    PIERRE GRINGOIRE

    Tuttavia, man mano che procedeva nella sua arringa, la soddisfazione e l'ammirazione unanimemente suscitata dal suo abbigliamento si dissipavano alle sue parole: quando poi fu arrivato a quella malaugurata conclusione: «Non appena l'eminentissimo cardinale giungerà, noi daremo inizio», la sua voce si perse in un tuono di urli.

    «Subito, cominciate! Il mistero! Il mistero subito!», gridava il popolo. E sopra tutte le voci si sentiva quella di Johannes de Molendino, che traforava il rumore come fa il piffero in una chiassosa festa di Nimes: «Cominciate subito!», strillava lo scolaro.

    «Abbasso Giove e il cardinale di Borbone!», gridavano Robin Poussepain e gli altri scolari appollaiati sulla finestra.

    «Subito la moralità!», ripeteva la folla, «Subito! subito! Sacco e corda ai commedianti e al cardinale!».

    Il povero Giove, stravolto, tremante di paura, pallido sotto il suo rossetto, lasciò cascare la sua folgore, prese in mano il suo berrettone: e salutava e tremava e balbettava: «Sua Eminenza... gli ambasciatori... la signora Margherita di Fiandra...». In verità non sapeva che dire: aveva solo una gran paura di essere impiccato.

    O impiccato dal popolaccio per aspettare, o impiccato dal cardinale per non avere aspettato, il poveretto vedeva da due parti il medesimo abisso, cioè una forza prepotente pronta a schiacciarlo.

    Fortunatamente qualcuno venne in suo aiuto.

    Un tale che stava al di là della balaustra nello spazio libero intorno alla tavola marmorea, e che nessuno aveva notato fino allora, tanto bene la sua lunga e smilza figura si nascondeva a ogni raggio visuale dietro il pilastro cui era appoggiato; questo tale, dicevamo, alto, magro, pallido, biondo, giovane ancora sebbene già col viso segnato, con gli occhi brillanti e una bocca sorridente, vestito d'una saia nera frusta e lustra per l'uso, si avvicinò alla tavola di marmo e fece un segno al disgraziato. Ma quello, fuori di sé, non vedeva.

    Il nuovo venuto fece un passo di più:

    «Giove!», disse. «Mio caro Giove!».

    E quello non sentiva.

    Finalmente il lungo biondo, impazientito, gli gridò quasi sotto il naso:

    «Michel Giborne!».

    «Chi mi chiama?», fece Giove come destato di soprassalto.

    «Io!», disse il personaggio vestito di nero.

    «Ah!», fece Giove.

    «Cominciate immediatamente», ripresel'altro. «Accontentate il popolo: penserò io a placare il signor podestà, e lui placherà il cardinale».

    Giove respirò.

    «Miei signori borghesi!», gridò con tutto il suo fiato alla folla che rumoreggiava ancora. «Noi diamo inizio immediatamente».

    «Evoe, Iuppiter! Plaudite, cives!» [14], gridarono gli scolari.

    «Evviva! Evviva!», gridò il popolo.

    Fu un battimani assordante, e Giove era già rientrato sotto la tappezzeria, che ancora la sala tremava per gli applausi.

    Intanto il personaggio sconosciuto che aveva così magicamente fatto di tempesta bonaccia, come dice il nostro vecchio e amato Corneille, era modestamente rientrato nella penombra del suo pilastro e vi sarebbe rimasto semza dubbio, invisibile, immobile e muto come prima, se non ne fosse stato tirato fuori da due giovani donne, che essendo in prima fila tra gli spettatori, avevano notato il suo dialogo con Michel Giborne, ovvero Giove.

    «Maestro!», chiamò una di quelle.

    «Zitta dunque, mia cara Liénarde!», fece la sua vicina, graziosa, e fresca nella sua veste festiva. «Non è mica del clero, è un laico: non gli si dice maestro, gli si dice messere».

    «Messere!», disse Liénarde.

    «Che cosa desiderate da me, signorine?», domandò premurosamente lui.

    «Oh! niente», disse Liénarde tutta confusa, «è la mia vicina Gisquette la Gencienne che vi vuol parlare».

    «Ma no!», disse subito Gisquette arrossendo. «È Liénarde che vi ha chiamato: Maestro; e io le ho detto che bisognava chiamarvi: Messere».

    Le due ragazze abbassarono gli occhi. E l'altro, che non chiedeva di meglio che attaccare discorso, le guardò con un sorriso dicendo:

    «Non avete dunque proprio nulla da dirmi, signorine?»

    «Niente davvero!», rispose Gisquette.

    «Nulla», disse Liénarde.

    L'altro giovane biondo fece un passo per ritirarsi; ma le due curiose non vollero lasciare la presa.

    «Messere», esclamò Gisquette, con l'impeto di una cateratta che si apra o di una donna che ha preso una decisione: «Voi conoscete quel soldato che farà la parte della Vergine nel mistero?»

    «Vorrete dire la parte di Giove?», disse lo sconosciuto.

    «Ma sì», fece Liénarde. «Che bestia! Voi conoscete dunque Giove?»

    «Michel Giborne?», rispose l'anonimo. «Sicuro».

    «Ha una bella barba!», disse Liénarde.

    «E sarà bello quello che rappresenteranno là sopra?», domandò timidamente Gisquette.

    «Bellissimo, signorina», rispose senza ombra di esitazione il senza nome.

    «Che cosa sarà?», disse Liénarde.

    «Il giusto judicio de la Signora Vergine Maria, moralità, signorine mie».

    «Ah! ecco!», disse Liénarde.

    Ci fu una pausa che lo sconosciuto troncò.

    «È una moralità nuovissima, e che non s'è mai rappresentata».

    «Dunque non è la stessa che fu data due anni fa», disse Gisquette, «il giorno dell'ingresso del legato, e dove si vedevano tre belle ragazze che facevano da...».

    «Da sirene», continuò Liénarde.

    «E tutte nude!», aggiunse il giovane. Liénarde abbassò pudicamente gli occhi. Gisquette la guardò, poi fece lo stesso. E lui seguitò sorridendo:

    «Quella fu una cosa molto piacevole a vedersi. Questa di oggi è una moralità fatta appositamente per la damigella di Fiandra».

    «E canteranno delle canzonette?», domandò Gisquette.

    «Eh!», fece lo sconosciuto. «In una moralità! Non bisogna confondere i generi. Se fosse una farsa, oh, allora sì!».

    «Che peccato!», esclamò Gisquette. «Quel giorno, davanti alla fontana di Ponceau c'erano certi uomini e donne dei boschi che combattevano e facevano gran gesti e cantavano mottetti e canzonette».

    «Ciò che conviene per un legato», sentenziò abbastanza secco lo sconosciuto, «non conviene per una principessa».

    «E vicino a quei selvaggi», proseguì Liénarde, «c'erano certi strumenti che suonavano così bene».

    «E per rinfrescare i passanti», riprese Gisquette, «la fontana gettava per tre bocche vino, latte e ippocrasso e chi ne voleva ne beveva».

    «E un poco più sopra del Ponceau», proseguì Liénarde, «alla Trinità, si rappresentava una passione senza parole».

    «Me ne ricordo bene!», gridò Gisquette. «C'era Dio sulla croce e i due ladroni uno a destra e uno a sinistra».

    Qui le giovani comari, riscaldandosi al ricordo dell'ingresso del legato, si misero a parlare tutt'e due insieme.

    «E più avanti ancora, alla Porte-aux-Peintres, c'erano degli altri personaggi con dei vestiti che bisognava vedere».

    «E alla fontana Saint-Innocent, quei cacciatori che inseguivano una cerva con un gran fracasso di cani e di trombe!».

    «E al macello di Parigi, quei palchi che fingevano la bastiglia di Dieppe!».

    «E quando passò il legato, eh, Gisquette? si diede l'assalto, e gli inglesi ebbero tutti le teste tagliate».

    «E anche contro la porta dello Châtelet c'erano tanti bei personaggi!».

    «E sul Pont-au-Change, tutto coperto di tende!».

    «E quando il legato passò fecero volar più di duecento dozzine di uccelli di tutte le razze! che bellezza, Liénarde!».

    «Ma sarà molto più bello oggi!» disse finalmente il loro interlocutore, che mostrava di essere un poco impaziente.

    «Ci assicurate proprio che questo mistero sarà bello?», domandò Gisquette.

    «Senza dubbio!», rispose lui; poi aggiunse con una certa enfasi: «Sono io l'autore».

    «Davvero?», esclamarono le ragazze stupite.

    «Davvero!», rispose il poeta, gonfiandosi un poco. «Cioè a dire, siamo due: Jehan Marchand, che ha segato le tavole e rizzato il palco e tutte le parti in legno, e io che ho scritto la moralità. Io mi chiamo Pierre Gringoire».

    L'autore del Cid non avrebbe detto con maggior fierezza: Pierre Corneille. I nostri lettori hanno potuto osservare che doveva essere passato un certo tempo da quando Giove era rientrato sotto la tappezzeria fino a questo momento in cui l'autore della moralità si era scoperto così di sorpresa all'ammirazione ingenua di Gisquette e di Liénarde. Cosa da notarsi: tutta quella folla, qualche minuto prima così bollente, ora aspettava tranquilla sulla parola del commediante; il che prova una volta di più quella eterna verità, provata ogni giorno anche nei nostri teatri, che cioè il miglior mezzo di far pazientare il pubblico è quello di annunciare con solennità che si comincia immediatamente.

    Ma lo scolaro Jehan non dormiva.

    «Olà!», gridò tutto a un tratto in mezzo al silenzio generale. «Giove! Signora Vergine, ciarlatani del diavolo! che gioco è questo? Cominciate! o ricominciamo noi!».

    Bastò. Una musica di strumenti d'ogni genere si fece udire dall'interno dell'impalcatura: la tappezzeria si sollevò; quattro personaggi truccati e imbellettati ne uscirono, salirono la rozza scaletta del teatro e giunti tutti sul tavolato si misero in fila dinanzi al pubblico, inchinandosi profondamente. Allora la musica tacque: il mistero incominciava.

    I quattro personaggi dopo essere stati generosamente ripagati con applausi per i loro profondi inchini, iniziarono, in mezzo a un religioso silenzio, un prologo di cui vogliamo proprio far grazia al lettore. Del resto, come vediamo accadere anche oggi, il pubblico non badava tanto alle parole quanto ai costumi di quei personaggi: né aveva torto. Erano vestiti tutti e quattro metà di bianco e metà di giallo, e non c'era differenza tra loro se non nella qualità della stoffa: la prima era di broccato d'oro e argento, la seconda di seta, la terza di lana, la quarta di tela. Il primo personaggio impugnava con la destra una spada, il secondo portava due chiavi d'oro, il terzo una bilancia, il quarto una vanga; e per porgere aiuto alle pigre intelligenze incapaci di veder chiaro attraverso quei trasparenti attributi, si leggevano delle scritte in fondo a quei vestiti: su quello di broccato, io MI CHIAMO CLERO; su quello di seta: io MI CHIAMO NOBILTÀ; SU quello di lana: IO MI CHIAMO MERCATURA; SU quello di tela: io MI CHIAMO LAVORO. Il sesso delle due allegorie maschili era chiaramente indicato a qualunque spettatore che sapesse il fatto suo dalle vesti meno lunghe e dal berretto che portavano in capo, mentre le due allegorie femminili avevano vesti più lunghe e in capo un cappuccio.

    Ci sarebbe voluta molta cattiva volontà per non comprendere attraverso la poesia del prologo che Lavoro era maritato a Mercatura e Clero a Nobiltà e che le due coppie felici possedevano un magnifico delfino d'oro che intendevano dare in premio alla donna più bella. Andavano così girando il mondo in cerca di questa bellezza, e dopo avere scartato la regina di Golconda, la principessa di Trebisonda, la figlia del Gran Kan dei Tartari, ecc., ecc., Lavoro e Clero, Nobiltà e Mercatura erano venuti a riposarsi sulla tavola di marmo del Palais de Justice, rivendendo all'onesto uditorio un repertorio tale di sentenze e di massime, quale appena occorreva allora per addottorarsi alla Facoltà delle Arti.

    In sostanza però la cosa era bella. Tuttavia, in quella folla sulla quale le quattro allegorie versavano a gara i loro fiotti di metafore, non esisteva un orecchio più attento, né un cuore più commosso né un occhio più fisso, né un collo più rigido, che l'occhio, l'orecchio, il collo e il cuore dell'autore, del poeta, di quel fiero Pierre Gringoire, che un po' prima non aveva saputo resistere alla superba gioia di dire il suo nome alle due graziose ragazze. Era ritornato al suo posto dietro il pilastro; e di là guardava, ascoltava, godeva. I benevoli applausi che avevano accolto il principio del suo prologo, risuonavano ancora nei suoi precordi, ed era compiutamente assorto in quella specie di contemplazione estatica con cui l'autore vede sempre le sue idee cadere a una a una dalla bocca dell'attore nel silenzio di un vasto uditorio. Degno Pierre Gringoire!

    Ci dispiace dirlo, ma questa prima estasi fu ben presto turbata. Il poeta aveva appena avvicinato le sue labbra a quella inebriante coppa di gioia e di trionfo, che una goccia d'amaro vi cadde.

    Un mendicante tutto lacero, che non poteva esercitare convenientemente la sua professione stretto com'era in mezzo alla folla, né forse aveva trovato da far bene nelle tasche dei vicini, aveva pensato di arrampicarsi in qualche punto in vista per attirare gli sguardi e le elemosine. Si era dunque issato, mentre cominciava il prologo, su per i pilastrini della tribuna riservata, fin sulla cornice che era sotto la balaustra; e lì si era seduto sollecitando l'attenzione e la pietà della moltitudine con i suoi stracci e col mostrare una piaga schifosa che gli copriva il braccio destro. Tutto questo però senza dir parola: sicché il prologo proseguiva senza incidenti: né sarebbe nato alcun disordine degno di nota se la disgrazia non avesse voluto che lo scolaro Johannes scorgesse dall'alto del suo pilastro il mendicante e le sue smorfie. Un riso frenetico si impossessò di quel bizzarro ragazzo; e senza preoccuparsi di interrompere lo spettacolo e turbare il raccoglimento universale, gridò gagliardamente:

    «Guarda lì quel furbaccio che domanda l'elemosina».

    Chiunque ha gettato una pietra sopra un esercito di ranocchie o tirato un colpo di fucile a uno stormo di uccelli, si può fare un'idea dell'effetto che produssero quelle parole insignificanti in mezzo all'attenzione generale. Gringoire ne fu scosso tutto come da una corrente elettrica. Il prologo si fermò a mezzo, e tutte le teste si rivoltarono tumultuosamente verso il mendicante, il quale lungi dall'esserne contrariato, vide in questo incidente una bella occasione di far buona raccolta, e si mise a dire con un'aria dolente e socchiudendo gli occhi: «Fate la carità per l'amor di Dio!».

    «Vedi un po'», continuò Johannes, «ma quello è Clopin Trouillefou! Ehi, di', amico, ti dava noia alla gamba che te la sei messa sul braccio quella piaga?».

    E così dicendo, gettò con destrezza scimmiesca una piccola moneta nel cappello bisunto che il mendicante tendeva col suo braccio malato. Elemosina e sarcasmo furono raccolti tranquillamente dall'accattone il quale continuava a dire col suo tono lamentoso: «La carità per l'amor di Dio!».

    Questo episodio aveva notevolmente distratto l'uditorio, e buona parte degli spettatori, con Robin Poussepain e gli altri scolari in testa, applaudivano allegramente a questo bizzarro duetto improvvisato nel bel mezzo del prologo dagli strilli di quello scolaro e dalla salmodia dell'imperturbabile accattone.

    Gringoire era addolorato. Rientrato in sé dopo il primo stupore, si sfiatava a gridare ai quattro personaggi della scena: «Continuate! Che diavolo? Continuate!», senza nemmeno degnarsi di dare un'occhiata ai suoi disturbatori.

    In questo momento, si sentì tirare per il lembo del soprabito: si rivoltò, un po' seccato, e durò fatica a sorridere. Come avrebbe potuto non sorridere, visto che era stato il ben tornito braccio di Gisquette la Gencienne quello che, infilandosi attraverso la balaustra lo aveva così chiamato?

    «Signore», disse la ragazza, «vanno avanti ancora?»

    «Sicuro! Senza dubbio!», rispose Gringoire, molto sconcertato dalla domanda.

    «Allora», riprese quella, «volete avere la cortesia, messere, di spiegarmi...».

    «Quello che diranno?», fece pronto Gringoire. «Volentieri!...».

    «No, no», disse, Gisquette, «quello che hanno detto finora!».

    Gringoire fece un salto come un uomo al quale si tocchi una piaga aperta.

    «Peste a questa stupida imbecille!», mormorò tra i denti.

    E, da quell'istante, Grisquette fu assolutamente perduta per lui.

    Intanto gli attori avevano obbedito alla sua ingiunzione, e il pubblico, vedendo che quelli tornavano a recitare, s'era rimesso ad ascoltare non senza perdere molte rare bellezze in quella specie di sutura che si dovette praticare per ricongiungere i due pezzi del prologo così bruscamente spezzato.

    Gringoire ne pativa. Tuttavia a poco a poco la tranquillità si era ristabilita: lo scolaro taceva, il mendicante contava le monete che erano cadute nel suo cappello, e la rappresentazione aveva riafferrato l'animo della gente.

    Era, di fatto, una bella opera, dalla quale crediamo che anche oggi si potrebbe rappresentare, magari adattandola un poco. L'esposizione un po' lunga e un po' vuota, cioè secondo le regole, era semplice, e Gringoire nel candido santuario del suo tribunale interiore, ne ammirava la chiarezza. Come facilmente si crederà, i quattro personaggi allegorici dicevano di essere un po' stanchi per aver girato le tre parti del mondo senza essere riusciti a disfarsi convenientemente del loro delfino d'oro. E qui elogi di quel pesce meraviglioso, con mille allusioni delicate al giovane fidanzato di Margherita di Fiandra, allora dolorosamente chiuso ad Amboise, il quale non poteva nemmeno supporre che proprio per lui Lavoro e Clero, Nobiltà e Mercatura, avessero fatto il giro del mondo. Il suddetto delfino dunque era giovane, era bello, era forte, e soprattutto (magnifica origine di ogni virtù regale!) era figlio del leone di Francia. Io dichiaro che questa ardita metafora è bellissima, e che la storia naturale del teatro, in un giorno di allegoria e di epitalami reali, non si sdegna affatto per un delfino nato da un leone. Anzi, sono proprio questi rari e pindarici pasticci quelli che provano la presenza dell'entusiasmo. Nondimeno, per fare un po' di critica, si può osservare che il poeta avrebbe anche potuto sviluppare questa sua bella idea in meno di duecento versi. Ma è anche vero che il mistero doveva durare da mezzogiorno alle quattro, secondo la prescrizione del signor prevosto, dunque bisognava pure dire qualcosa. E la gente ascoltava pazientemente.

    D'un tratto, nel bel mezzo di una disputa fra la signora Mercatura e donna Nobiltà, proprio nel punto in cui mastro Lavoro profferiva questo verso mirifico:

    One ne vis dans les bois bête plus triomphante [15];

    la porta della tribuna riservata, che fino allora era rimasta chiusa così a sproposito, ancor più a sproposito si aprì: e la voce sonora dell'usciere annunciò bruscamente: Sua Eminenza monsignore il cardinale di Borbone.

    CAPITOLO III.

    IL CARDINALE

    Povero Gringoire! Il fracasso di tutti i doppi petardi di San Giovanni, la scarica di venti archibugi a forchetta, la detonazione di quella famosa serpentina della torre di Billy, che al tempo dell'assedio di Parigi, la domenica de 29 settembre 1465, uccise sette borgognoni con un sol colpo, l'esplosione di tutta la polvere da cannone immagazzinata alla Porte du Temple, non gli avrebbe così crudelmente straziato le orecchie in quel momento solenne e drammatico, come fecero quelle poche parole uscite dalla bocca dell'usciere: Sua Eminenza monsignore il cardinale di Borbone.

    Non che Pierre Gringoire temesse monsignore e nemmeno che lo avesse in disdegno. Non era né tanto debole né tanto tracotante. Vero eclettico, come si direbbe ai nostri giorni, Gringoire era uno di quegli spiriti elevati e fermi, moderati e calmi, che sanno sempre tenere il giusto mezzo (stare in dimidio rerum), e che amano i lumi della ragione e della liberale filosofia, pure tenendo in considerazione i cardinali. Stirpe preziosa e non mai estinta di filosofi, ai quali la saggezza, come un'altra Arianna, sembra aver dato un gomitolo di filo perché ritrovino sempre la via nel labirinto delle cose umane. Se ne vedono in ogni tempo e sono sempre gli stessi, cioè a dire sempre secondo i tempi. E senza contare il nostro Pierre Gringoire che li rappresenterebbe nel XV secolo, se noi giungessimo a dargli la fama che merita, fu certamente un tale spirito quello che animò il Padre Du Bruel quando scriveva nel XVI secolo queste parole semplicemente sublimi, degne di tutti i secoli: «Io sono parigino di nascita, parrisiano di linguaggio, poiché parrhisia in greco significa libertà di parola; e io ne ho usato perfino contro i cardinali, zio e fratello di monsignore il principe di Conty: ma sempre con il dovuto rispetto alla loro grandezza, e senza offendere nessuno del loro seguito, il che è molto».

    Non vi era dunque né paura né odio nell'impressione sgradevole che provò Pierre Gringoire alla venuta del cardinale. Al contrario: il nostro poeta aveva troppo buonsenso e un vestito troppo logoro per non dare il giusto peso al fatto che tutte quelle mirabili allusioni del suo prologo, e particolarmente la glorificazione del delfino, figlio del leone di Francia, fosse udita da un orecchio eminentissimo. Ma non è l'interesse quello che domina nella nobile natura dei poeti. Supponiamo che l'entità del poeta sia rappresentata dal numero dieci: è certo che un chimico, analizzandola, farmacopolizzandola, come dice Rabelais, la troverebbe composta di una parte di interesse contro nove di amor proprio. Ora nel momento in cui la porta si era aperta per il cardinale, le nove parti di amor proprio di Gringoire, gonfiate e tumefatte dal soffio dell'ammirazione popolare, erano in uno stato di prodigiosa crescita e soffocavano addirittura quella piccola, impercettibile parte di interesse che noi abbiamo ammessa nella costituzione del poeta. Ingrediente prezioso, del resto, questo briciolo di interesse, resto di realtà e di umanità senza di cui i poeti non toccherebbero terra. Gringoire gioiva sentendo, vedendo, palpando, quasi, direi, una folla di ribaldi, è vero, ma che importa? una folla stupefatta, pietrificata, e come asfissiata dalle incommensurabili tirate che scaturivano da ogni parte, a ogni istante, nel suo epitalamio. Sono sicuro che anche lui si beava con gli altri dello spettacolo, e, al contrario di La Fontaine che alla rappresentazione della sua commedia Le Florentin domandò: Chi è quel disgraziato che ha composto questa filastrocca? Io dico che Gringoire avrebbe volentieri domandato a qualche vicino: Di chi è questo capolavoro? Si può dunque giudicare che razza di effetto facesse su di lui il brusco e intempestivo arrivo del cardinale.

    Tutto quello che poteva temere, accadde, e forse anche peggio. L'ingresso di Sua Eminenza mise sottosopra l'uditorio. Tutte le teste si rigirarono verso la tribuna. Bastò perché non si capisse più niente.

    «Il cardinale! Il cardinale!», ripetevano tutte le bocche. Lo sventurato prologo fu di nuovo interrotto.

    Il cardinale si soffermò sull'ingresso della tribuna. Mentre girava un'occhiata assai indifferente sull'uditorio, il tumulto raddoppiò. Ciascuno voleva vedere meglio: era una gara a chi poteva mettere la testa sulle spalle del suo vicino.

    Era, di fatto, un alto personaggio la cui vista valeva qualunque altra commedia. Carlo, cardinale di Borbone, arcivescovo e conte di Lione, primate di Gallia, era a un tempo imparentato a Luigi XI per suo fratello Pietro, signore di Beaujeu, che aveva sposato la figlia maggiore del re, e imparentato a Carlo il Temerario per sua madre, Agnès di Borgogna. Ora il lato dominante e peculiare del carattere del primate di Gallia era la cortigianeria e la devozione ai potenti. Si può giudicare di quanti infiniti grattacapi gli erano state causa quelle due parentele e quale difficile viaggio dovesse fare la sua barca spirituale tra simili scogli temporali, per non spezzarsi né contro Luigi né contro Carlo, questi Scilla e Cariddi che avevano divorato il duce di Nemours e il connestabile di Saint-Pol [16] . Grazie al cielo se l'era cavata e aveva navigato fino a Roma senza guai. Ma benché fosse in porto, anzi precisamente perché era in porto, ricordava con molta inquietudine le diverse sorti della sua carriera politica per così lungo tempo pericolosa e travagliata. Così egli soleva dire che l'anno 1476 era stato per lui nero e bianco; intendendo significare che egli aveva perduto in quell'anno sua madre la duchessa di Bourbonnais, e il suo cugino, duca di Borgogna, e che un lutto lo aveva consolato dell'altro.

    Del resto era un buon uomo; menava vita fastosa da cardinale, si rallegrava volentieri con il vino delle vigne reali di Challuau, non odiava affatto Richarde la Garmoise e Thomasse la Saillarde, faceva elemosina più spesso e volentieri alle giovani che alle vecchie, e per tutte queste ragioni riusciva molto simpatico al popolo di Parigi. Camminava sempre circondato da una piccola corte di vescovi e di abati di alto linguaggio, galanti, disinvolti, e all'occorrenza capaci di far baldoria: non poche volte le buone fedeli di Saint-Germaine d'Auxerre, passando la sera sotto le finestre illuminate del palazzo di Borbone, erano state scandalizzate nell'udire le medesime voci che il giorno avevan loro cantato vespero, salmodiare al tintinnio dei bicchieri il proverbio bacchico di papa Benedetto XII, quello che aveva aggiunto una terza corona alla sua tiara: Bibamus papaliter [17] .

    Questa popolarità, così a buon diritto conquistata, preservò il cardinale, al suo ingresso, da una cattiva accoglienza da parte della folla, la quale, già così turbolenta, era ben poco disposta a portar rispetto a un cardinale mentre si apparecchiava a eleggere di lì a poco nientemeno che un papa. Ma i parigini non portano rancore; e poi, essendo riusciti a far incominciare la rappresentazione, quei buoni borghesi l'avevano già vinta sul cardinale, e questo trionfo li accontentava. E poi il cardinale era un bell'uomo e portava bene la sua cappa scarlatta.

    Entrò dunque, salutò la folla con quel sorriso ereditario che i grandi hanno per il popolo, e si diresse a passi lenti verso la sua poltrona di velluto rosso, avendo l'aria di pensare a tutt'altro. Il suo corteggio, il suo stato maggiore, come si direbbe oggi, di vescovi e di abati irruppe dietro di lui nel gran palco, non senza provocare un raddoppiamento di rumore e di curiosità giù in basso. Era una gara per segnarseli a dito, per riconoscerli, per riconoscerne almeno uno: chi scopriva il vescovo di Marsiglia, Alaudet, se ben rammento; chi il primicerio di Saint-Denis; chi Robert de Lespinasse abate di Saint-Germain-des-Prés, quel libertino fratello di una delle amanti di Luigi XI; e tutti questi nomi erano gridati con un monte di strafalcioni e di cacofonie. Quanto agli scolari, facevano d'ogni erba un fascio. Era la loro giornata, la loro festa dei matti, il loro saturnale, l'orgia annuale degli scrivani e degli scolari. Non c'era turpitudine che non fosse permessa, anzi, cosa sacra in quel giorno. E poi c'erano delle celebri donnine allegre tra la folla: Simone Quatrelivres, Agnès la Gadine, Rubine Piédebou. Non era dunque il meno che si potesse fare bestemmiare a piacere e bistrattare il nome di Dio, in un così bel giorno, in così buona compagnia di uomini di chiesa e di ragazze allegre? Così nessuno se ne faceva la minima colpa: e in mezzo a quel fracasso c'era una tremenda sinfonia di bestemmie e di enormità che usciva da quelle lingue scatenate: lingue di chierici e di scolari, legate il resto dell'anno dalla paura dei ferri roventi di san Luigi. Povero san Luigi, quale ingiuria proprio al suo palazzo di giustizia! Ognuno di quei demoni aveva preso di mira, tra i nuovi ospiti della tribuna, una sottana nera, o grigia, o bianca, o violetta. Quanto a Johannes Frollo de Molendino, nella sua qualità di fratello di arcidiacono, s'era attaccato senz'altro, arditamente, alla sottana scarlatta: e cantava a squarciagola, fissando sfacciatamente il cardinale: Cappa repleta mero! [18]

    Tutti questi particolari che noi, per edificazione del lettore, raccogliamo, erano talmente coperti dal frastuono generale che non arrivavano alla tribuna d'onore; in ogni caso, però, il cardinale non se ne sarebbe sdegnato, tanto erano entrate nel costume le licenze di quella giornata. E per di più era preoccupato, e la sua faccia lo dimostrava, da un altro pensiero che lo seguiva da vicino e che entrò quasi con lui nel palco: e cioè l'ambasceria di Fiandra.

    Non già che egli fosse così profondo uomo politico da preoccuparsi delle possibili conseguenze di quel matrimonio di sua cugina Margherita di Borgogna con suo cugino Carlo, delfino di Vienna: quanto potrebbe durare l'intesa del duca d'Austria e del re di Francia, come sopporterebbe il re d'Inghilterra la preferenza negata a sua figlia; tutto ciò lo inquietava pochissimo; e faceva egli ogni sera buon viso al vino delle tenute reali di Challoit, senza neppur lontanamente sospettare che qualche bottiglia di quel vino medesimo (un po' riveduto e corretto, a dire il vero, dal medico Coictier), cordialmente offerto a Edoardo IV da Luigi XI, avrebbe tolto un giorno a Luigi XI l'incomodo di Edoardo IV. La onoratissima ambasceria di monsignor il duca d'Austria non recava al cardinale nessuna di queste cure, ma lo importunava per un'altra ragione. Era in realtà un po' duro, come già dicemmo alla seconda pagina di questo libro, essere obbligato a far festa e buona accoglienza, lui, un Carlo di Borbone, a dei borghesi qualunque; lui, cardinale, a degli impiegati di municipio; lui francese, allegro convitato, a dei fiamminghi bevitori di birra: e, per di più, in pubblico. Fece certo, in quell'occasione, una delle più tristi smorfie che avesse fatto mai per compiacere il re.

    Si voltò dunque verso la porta con la miglior grazia del mondo (tanto studio ci mise), quando l'usciere annunciò con la sua voce stentorea: I signori invitati del signor duca d'Austria. Inutile dire che tutta la sala fece altrettanto.

    Allora arrivarono, a due a due, con una gravità che contrastava stranamente con la vivacità del corteggio ecclesiastico di Carlo di Borbone, i quarantotto ambasciatori di Massimiliano d'Austria, con alla testa il reverendo padre Nostro Signore, Jehan, abate di Saint-Bertin, cancelliere del Toson d'oro, e Jacques Goy, signore Dauby, gran podestà di Gand.

    Si fece nell'assemblea un grande silenzio, rotto da qualche risata soffocata, per ascoltare tutti i nomi assurdi e tutte le qualifiche borghesi, che ognuno di quei personaggi comunicava imperturbabilmente all'usciere, e che questi, a sua volta, scaricava alla rinfusa sulla folla, storpiandoli spietatamente. Erano: maestro Loys Roelof, scabino della città di Louvain; messer Clays d'Etuelde, scabino di Bruxelles; messer Paul de Baeust, signore di Voirmizelle, presidente di Fiandra; maestro Jehan Coleghens, borgomastro della città di Anversa; maestro George de la Moere, primo scabino della kuere della città di Gand; maestro Gheldolf van der Hage, primo scabino dei parchons della detta città; e il signore di Bierbecque e Jehan Pinnock, e Jehan Dymaerzelle, ecc., ecc., podestà, scabini, borgomastri; borgomastri, scabini, podestà; tutti duri, posati, inamidati, vestiti a festa, di velluti e di damaschi, con i loro berrettoni di velluto nero con nappe di fil d'oro di Cipro; buone teste fiamminghe, insomma, facce degne e severe, sul tipo di quelle che Rembrandt faceva scaturire, così forti e così gravi, sopra il fondo nero della sua Ronda notturna; personaggi che portavano tutti scritto in fronte quanta ragione aveva avuto Massimiliano d'Austria confidando interamente, come diceva il suo manifesto, nel loro tatto, valentia, esperienza, lealtà ed ottima prudenza.

    Per uno solo bisognava far eccezione. Si trattava di un viso sottile, intelligente, scaltro, muso di scimmia e di diplomatico, davanti al quale il cardinale fece tre passi e un profondo inchino, e che tuttavia si chiamava soltanto Guillaume Rym, consigliere e ministro della reggenza per la città di Gand. Poche persone sapevano chi era questo Guillaume Rym. Eppure era un genio raro, che in un tempo di rivoluzione sarebbe balzato fuori luminoso al di sopra dei maggiori avvenimenti, ma che nel XV secolo era ridotto a tenebrosi intrighi, a lavorare sempre sotterra, come i minatori, per dir le parole del duca di Saint-Simon. Del resto, esso era ben apprezzato dal primo minatore d'Europa; macchinava familiarmente con Luigi XI, e conosceva spesso i più segreti bisogni del re.

    Ma tutte queste cose le ignorava naturalmente quella folla, la quale si meravigliava di veder trattato con tanto riguardo dal cardinale quella losca figura di podestà fiammingo.

    CAPITOLO IV.

    MASTRO JACQUES COPPENOLE

    Mentre il ministro di Gand e il porporato si scambiavano una riverenza profondissima e qualche parola a bassa voce, un uomo alto, dalla faccia larga e dalle spalle fortissime, si presentò per mettersi a lato di Guillaume Rym; pareva un molosso dietro una volpe. Il suo berretto di feltro e il suo vestito di cuoio facevano contrasto in mezzo ai velluti e alle sete lì intorno. Pensando che fosse qualche palafreniere fuori di strada, l'usciere l'arrestò.

    «Oh! amico! qua non si può».

    L'uomo dal vestito di cuoio gli rispose con una spallata, e cavandosi di corpo una voce che richiamò l'attenzione di tutta la sala, gridò:

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