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I magnifici 7 capolavori della letteratura russa
I magnifici 7 capolavori della letteratura russa
I magnifici 7 capolavori della letteratura russa
E-book2.373 pagine71 ore

I magnifici 7 capolavori della letteratura russa

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Info su questo ebook

PUŠKIN, La figlia del capitano
GOGOL’, I racconti degli arabeschi, Il naso e Il cappotto
TURGENEV, Un nido di nobili
DOSTOEVSKIJ, Le notti bianche
TOLSTOJ, Anna Karenina
BULGAKOV, Cuore di cane
ŠALAMOV, I racconti della Kolyma

Edizioni integrali

Sette giganti, interpreti e testimoni della storia del loro grande paese. Seguendo le vicende del contrastato amore tra Pëtr Grinëv e Maša Mironova, sullo sfondo di una Russia attraversata dalla rivolta dei cosacchi, Puškin porta a compimento la propria tormentosa interrogazione sul potere russo iniziata con la tragedia Boris Godunov. La vena ironica e surreale è invece più congeniale a Gogol’, la cui straordinaria capacità inventiva dà vita a un universo vario e multiforme di personaggi gretti e meschini o di ingenui manipolati cinicamente, protagonisti di vicende al limite del nonsenso, narrate con stile originale, come in questi Racconti degli arabeschi e soprattutto ne Il naso e ne Il cappotto. Con Turgenev e il suo Nido di nobili entriamo in quel periodo della storia russa in cui cominciavano a germogliare i semi di grandi stravolgimenti sociali e filosofici. Le notti bianche di Dostoevskij si situa nel periodo definito “romantico” dello scrittore, uno dei più grandi di tutti i tempi; il suo eroe è qui il sognatore, nella cui piatta esistenza piomba per un breve attimo la giovane Nasten’ka, simbolo del pulsare delle emozioni. Anche Anna Karenina, l’eroina dell’omonimo romanzo di Tolstoj, è alla ricerca delle emozioni potenti che rendono la vita degna di essere vissuta, e che lei ha perduto nella piattezza quotidiana di un matrimonio senza amore né passione. Una splendida figura di donna che non possiamo fare a meno di amare. Protagonista del racconto di Bulgakov è invece un cane sottoposto a un trapianto di organi umani: attraverso il paradosso e l’assurdo esplode, con scrittura graffiante e ironica fantasia, tutta la godibilissima capacità di satira sociale di uno scrittore le cui opere furono vietate in patria durante il periodo staliniano. Non la censura, ma addirittura l’internamento in un lager fu il prezzo pagato da Varlam Šalamov alla dittatura staliniana: degli anni trascorsi come “traditore del popolo” in quell’immenso «crematorio bianco» che è la Kolyma, estremo Nord-est siberiano, lo scrittore ci ha lasciato una commovente testimonianza nei suoi celebri Racconti della Kolyma.

LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854152427
I magnifici 7 capolavori della letteratura russa

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    Anteprima del libro

    I magnifici 7 capolavori della letteratura russa - Fëdor Michajlovič Dostoevskij

    Indice

    Aleksandr S. Puškin - La figlia del capitano

    Introduzione di Mauro Martini

    I. Sergente della guardia

    II. La guida

    III. La fortezza

    IV. Il duello

    V. L’amore

    VI. L’epoca di Pugačëv

    VII. L’assalto

    VIII. L’ospite indesiderato

    IX. Il distacco

    X. L’assedio della città

    XI. Il sobborgo dei ribelli

    XII. L’orfana

    XIII. L’arresto

    XIV. Il processo

    Appendice. Capitolo omesso

    Nota biobibliografica

    Nikolaj V. Gogol’ - I racconti degli Arabeschi

    I «Racconti» di Gogol’

    Introduzione a «I racconti degli Arabeschi»

    Il ritratto

    Il corso Neva

    Il diario di un pazzo

    Premessa a «Il naso» e «Il cappotto»

    Il naso

    Il cappotto

    Nota biobibliografica

    Ivan S. Turgenev - Un nido di nobili

    Introduzione di Daniela Paladini

    I.

    II.

    III.

    IV.

    V.

    VI.

    VII.

    VIII.

    IX.

    X.

    XI.

    XII.

    XIII.

    XIV.

    XV.

    XVI.

    XVII.

    XVIII.

    XIX.

    XX.

    XXI.

    XXII.

    XXIII.

    XXIV.

    XXV.

    XXVI.

    XXVII.

    XXVIII.

    XXIX.

    XXX.

    XXXI.

    XXXII.

    XXXIII.

    XXXIV.

    XXXV.

    XXXVI.

    XXXVII

    XXXVIII.

    XXXIX.

    XL.

    XLI.

    XLII.

    XLIII.

    XLIV.

    XLV.

    Epilogo

    Nota biobibliografica

    Fëdor M. Dostoevskij - Le notti bianche

    Introduzione di Luisa de Nardis

    Notte prima

    Notte seconda

    Storia di Nasten’ka

    Notte terza

    Notte quarta

    Mattino

    Nota biobibliografica

    Lev N. Tolstoj - Anna Karenina

    «Anna Karenina» e i tre gradi dell’amore

    Parte prima

    Parte seconda

    Parte terza

    Parte quarta

    Parte quinta

    Parte sesta

    Parte settima

    Parte ottava

    Nota biobibliografica

    Michail Bulgakov - Cuore di cane

    Cuore di cane, cervello di uomo

    Stile e lingua di Bulgakov

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Epilogo

    Nota biobibliografica

    Varlam Šalamov - I racconti della Kolyma

    Introduzione di Piero Sinatti

    La Kolyma: un profilo storico

    Banchina dell’inferno

    Epitaffio

    Il mullah tataro e l’aria pura

    Misura separata

    Il pacco

    Latte condensato

    Il pane

    Sulla parola

    Alias Berdy

    Sentenza

    Liturgia

    Kant

    Il mugo

    Fuoco e acqua

    La fotografia sbiadita

    Rjabokon’

    Il mendeliano

    La lettera

    Il fumo delle locomotive

    Nota biobibliografica

    430

    In queste edizioni

    I magnifici 7 capolavori della letteratura americana

    I magnifici 7 capolavori della letteratura erotica

    I magnifici 7 capolavori della letteratura francese

    I magnifici 7 capolavori della letteratura inglese

    I magnifici 7 capolavori della letteratura irlandese

    I magnifici 7 capolavori della letteratura italiana

    I magnifici 7 capolavori della letteratura per ragazze

    I magnifici 7 capolavori della letteratura per ragazzi

    I magnifici 7 capolavori della letteratura tedesca

    Le magnifiche 7 signore della letteratura inglese

    Prima edizione ebook: maggio 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5242-7

    www.newtoncompton.com

    I magnifici 7 capolavori

    della letteratura russa

    Puškin, La figlia del capitano

    Gogol’, I racconti degli arabeschi, Il naso, Il cappotto

    Turgenëv, Un nido di nobili

    Dostoevskij, Le notti bianche

    Tolstoj, Anna Karenina

    Bulgakov, Cuore di cane

    Šalamov, I racconti della Kolyma

    Edizioni integrali

    logonc

    Newton Compton editori

    AVVERTENZA

    Le opere sono presentate in ordine cronologico in base alle date di nascita degli autori.

    Aleksandr S. Puškin

    La figlia del capitano

    A cura di Mauro Martini

    Abbi riguardo dell’onore fin da giovane

    PROVERBIO

    Titolo originale: Kapitanskaja dočka. Traduzione di Mauro Martini.

    Introduzione

    Il 19 ottobre 1836 è nella vita di Aleksandr Sergeevič Puškin una giornata a tutti gli effetti particolare. Poche ore vi sono dedicate al lavoro, dal momento che ricorre il venticinquesimo anniversario dell’apertura del Liceo di Carskoe Selo e il banchetto esige la presenza del poeta che, com’è consuetudine, ha il dovere di celebrare in versi l’avvenimento. Ma quelle poche ore segnano comunque alcuni punti fermi. Il 19 ottobre 1836 è la data che compare in calce alla stesura in bella copia della Figlia del capitano, a conclusione di un’intensa revisione, costellata da numerosi ritocchi e aggiustamenti, del testo approntato in brogliaccio già nel luglio precedente (il 22, per l’esattezza). Il 19 ottobre 1836 è altresì la data di una lunga lettera mai spedita a Čaadaev, in cui Puškin, accusando ricevuta del fascicolo della rivista «Teleskop» che ospitava la prima delle Lettere filosofiche, prende nettamente le distanze dalle riflessioni dell’amico. E necessariamente il 19 ottobre 1836 è la data di composizione dei versi dedicati al Liceo, versi rimasti tuttavia incompiuti. Uno dei convenuti al banchetto serale in casa Jakovlev ha lasciato il racconto della lettura di quel canto: si sa quindi che Puškin declamò i suoi versi con le lacrime che gli rigavano il volto, che nel silenzio generale posò il foglio sulla tavola e si allontanò per mettersi a sedere su un divano in un angolo della stanza. Questa testimonianza è stata a più riprese utilizzata dai biografi del poeta per rafforzare la tesi di un suo malessere spirituale. Minor attenzione invece è stata prestata all’asperità tematica del canto che marca un’importante svolta nella sensibilità puškiniana.

    Il Liceo era stato il prodotto di una delle tante velleità riformatrici dello zar Alessandro I. Secondo il progetto originario, esso avrebbe dovuto consentire ai rampolli della famiglia imperiale di avere un’educazione al di fuori del non esaltante ambiente di corte, di frequentare regolari e impegnativi corsi insieme ai figli della miglior nobiltà che a loro volta sarebbero stati trasformati in quadri competenti della futura amministrazione dell’impero. Le cose nella realtà erano andate diversamente: i fratelli minori di Alessandro, Nicola e Michajl, erano rimasti estranei all’iniziativa, mentre ai giovani nobili, riuniti in una dépendance della residenza estiva di Carskoe Selo, era stata a conti fatti riservata un’istruzione un po’ confusa, analoga a quella d’un istituto superiore, sicuramente non finalizzata agli scopi iniziali. Se il Liceo un risultato l’aveva avuto, questo era consistito nel creare una sorta di sensibilità comune tra coloro che l’avevano frequentato, adolescenti pur sempre selezionati che tra le mura scolastiche avevano vissuto l’epopea napoleonica, la guerra patriottica del 1812, la sconfitta di Bonaparte ad opera della Russia, l’anelito alla libertà delle generazioni più giovani. Una sensibilità così esasperata da consentire a quei ragazzi di sentirsi partecipi in prima persona di avvenimenti vissuti da altri. Ancora nel 1831 Puškin, chiamato a celebrare in versi il ventennale del Liceo, pur consapevole che «aliti di tempeste terrene / anche noi casualmente sfiorarono», non si risparmiava l’uso della prima persona plurale nell’evocazione di eventi presentati invece come frutto diretto dell’opera dei liceali (e basti il verso: «Bruciammo Mosca; Parigi ci fu schiava»). Cinque anni dopo, nulla rimane dell’entusiasmo preservato per due decenni buoni: di fronte agli antichi compagni ammutoliti, Puškin punta tutta la sua argomentazione sui mutamenti imposti dal quarto di secolo trascorso. «Sempre meno s’ode tra i canti il riso / Sempre più sospiriamo e tacciamo», s’è spenta l’eco dei festosi brindisi in onore di «sane speranze», ma soprattutto è sparito quel senso, apparentemente artificioso, di compartecipazione: agli ex liceali viene riservato il più realistico ruolo di semplici testimoni. E non a caso i versi si interrompono là dove subentra l’immagine dell’uragano di nuove nubi che si vanno addensando sulla terra, come se il poeta non fosse in grado di continuare, vittima ormai di un’impotenza che, contrariamente al passato, viene applicata anche retrospettivamente.

    Se è lecito gravare simbolicamente una data ben precisa di ben più complessi significati, elevandola al rango di definizione temporale d’una frattura esistenziale, allora non v’è dubbio che quel 19 ottobre 1836 segni per Puškin la conclusione dichiarata di un ben preciso periodo della sua vita. Non che il passato perda improvvisamente di peso e d’importanza. Lo comprovano se non altro le lacrime versate sulla declamazione di quell’addio allo «spirito del Liceo», spirito che proprio Puškin aveva, più di altri, costruito e tenuto in vita, nutrendolo anzi, nella sua opera, di continui rimandi linguistici e tematici comprensibili soltanto a chi di quello spirito era partecipe. E lo testimoniano altresì le pagine conclusive della Figlia del capitano, in cui, descrivendo Carskoe Selo, l’autore allenta il ritegno narrativo che conferisce al romanzo quella sua straordinaria tensione stilistica. Ma come esordisce il canto per il venticinquesimo anniversario del Liceo, byla pora, ossia c’è stata una stagione, una stagione che, appunto, non c’è più.

    In quell’autunno del 1836 quindi Puškin non è soltanto vittima di un malessere spirituale. È pur vero che mancano soltanto tre mesi alla sua morte e che egli sente il progressivo stringersi di quella morsa che di lì a poco gli imporrà di aggrapparsi alla difesa dell’onore coniugale come unica via, sia pur votata alla sconfitta, per preservare il suo onore di uomo, di poeta e di intellettuale. Ma quel malessere non gli impedisce di giocare fino all’ultima tutte le sue carte nell’incredibile partita, cominciata esattamente un decennio prima, con il potere imperiale. Una partita dalla posta assai elevata: l’esperimento della possibilità di rimanere uomo spiritualmente e intellettualmente libero senza rompere con un contesto che tale possibilità costantemente nega. Ed è proprio in quell’autunno del 1836 – che a Puškin senza dubbio ricorda l’altro suo magico autunno, quello di Boldino, nel 1830, laboratorio di tante sue celebri opere – che il poeta porta a compimento una sua personale transizione, tesa a distaccarlo dal passato e a fornirgli nuovi strumenti per la prosecuzione della sua sfida esistenziale.

    Transizione personale, ma al tempo stesso tutta «politica», perché vissuta nella consapevolezza dell’identità di destini tra il poeta e la Russia. E di tale transizione, La figlia del capitano, ben lungi dall’essere un racconto per l’infanzia o un romanzo prettamente storico, è la più completa rappresentazione. Si tralascino gli elementi autobiografici, già indirettamente presenti: il già citato ricordo di Carskoe Selo oppure il clima nella famiglia Grinëv alla notizia della condanna del figlio, rievocazione dell’analoga atmosfera vissuta in casa Puškin nel 1820 allorché il giovane poeta ebbe i primi guai politici in seguito alla pubblicazione di versi considerati sediziosi. E non si annetta eccessivo valore ai pur precisi rimandi storici, maggiormente apprezzabili grazie a un continuo confronto con la Storia di Pugačëv. L’interpretazione corrente vuole che La figlia del capitano sia in sostanza la narrazione del modo in cui la storia travolge nel suo passaggio i destini individuali, i destini di coloro che degli eventi possono essere soltanto le vittime e non i protagonisti. Una vicenda che, proprio in virtù del racconto dell’amore contrastato tra Grinëv e Maša Mironova, si accosterebbe, fatta salva l’assenza del ruolo salvifico della Provvidenza, a quella dei manzoniani Promessi sposi. E tale interpretazione si fonda sull’attività storiografica di Puškin, sulle sue ricerche archivistiche e documentarie, sui suoi scritti dedicati in modo particolare al Settecento, che nel romanzo troverebbero una loro sorta di sistemazione teorica. Eppure tale chiave di lettura, anche se rigorosamente argomentata, non rende piena giustizia alla complessità della Figlia del capitano.

    La sequenza logica imposta da quest’interpretazione suggerirebbe quindi, tanto per fare un esempio, la filiazione diretta del Pugačëv del romanzo dal Pugačëv della Storia, pubblicata ben due anni prima, nel 1834. Già Marina Cvetaeva ha osservato come tale procedimento sia in realtà impraticabile. Non soltanto La figlia del capitano è scritta da un poeta e la Storia di Pugačëv da un prosatore (e in una prosa, vale la pena di aggiungere, non sempre riuscita: si veda la mancata occasione delle pagine conclusive, quelle concernenti l’esecuzione del ribelle, risolte, come per una sorta di ritrosia, col ricorso a una testimonianza dell’epoca). In realtà Puškin non si è lasciato affatto condizionare dalle ricerche storiche per elaborare la sua immagine di Pugačëv: al contrario, prima si è creato un suo Pugačëv e poi si è sforzato di riconoscerlo nel materiale via via raccolto. Studiosi di valore si sono misurati col tentativo di fissare la puntualità storiografica puškiniana, e basti citare un Ovčinnikov che ha scandagliato con tutti i possibili riscontri archivistici proprio le pagine pugačëviane. Ma tutti sembrano ignorare il grande difetto «professionale» di Puškin che è quello di forzare la storiografia ai suoi personali interrogativi e di negare pregiudizialmente valore ai documenti rimasti muti di fronte a tali interrogativi. E non potrebbe essere altrimenti: il poeta in questo è decisamente figlio del suo tempo, di decenni che vedono sì aumentare l’interesse dei lettori nei confronti delle opere storiche, determinando così l’impensabile successo editoriale della Storia dello Stato russo di Karamzin, ma solo perché spinti dall’interesse per il proprio presente, per un’attualità sconvolta dagli eventi degli anni Dieci e Venti del xix secolo. Alla storiografia non si chiedono ricostruzioni, ma solo interpretazioni. Ed è sulla base di quest’esigenza che dilagherà la successiva storiosofia, della cui formazione lo stesso Puškin è responsabile. Non è quindi un caso che il poeta, dopo aver iniziato la stesura della Figlia del capitano nel 1833, abbia abbandonato il romanzo per attendere alla Storia di Pugačëv licenziata alle stampe nel 1834, in seguito al definitivo rifiuto da parte delle autorità di concedere l’accesso ai documenti conservati nell’Archivio di stato.

    Difficile è altresì accettare la rigida distinzione da molti teorizzata tra un Puškin giovane e quindi ingenuo cultore di temi storici condizionati da una visione progressiva ed evolutiva della storia e un Puškin più maturo e di conseguenza maggiormente attento alla complessità delle dinamiche storiche. La maturazione culturale del poeta è dato innegabile, ma in Puškin, al di là dei manierismi del periodo giovanile, sorprende semmai l’assoluta continuità della sua radicale interrogazione sul principio di potere. Non c’è complessità che tenga: dalle prime odi di natura più o meno politica alla lettera a Čaadaev dell’ottobre 1836 sembra che alla storia venga addirittura negata una dimensione autonoma a tutto vantaggio d’una stretta identificazione tra storia e potere. Nel brogliaccio della lettera a Čaadaev l’iperbolica affermazione «È Pietro il Grande, che da solo è tutta la storia universale!» non denota certo una gran sensibilità storica ed è addirittura incomprensibile, se non la si legge alla luce di una più generale visione che proprio sul principio di potere fonda e annulla la storia. D’altro canto è a Puškin che si deve la più inquietante disamina del potere russo, vale a dire quel Boris Godunov, finito di scrivere nel novembre del 1825, un mese prima della rivolta dei decabristi. Proprio il Boris segna la distanza tra il poeta e gli artefici di quel generoso quanto vano tentativo di insurrezione. Il poeta con ogni probabilità, qualora si fosse trovato a Pietroburgo e non nell’esilio di Michajlovškoe, sarebbe sceso con i suoi amici in piazza del Senato: lo avrebbe ammesso Puškin stesso davanti allo zar Nicola, durante il colloquio che nel settembre dell’anno successivo poneva fine al lungo confino. Ma l’avrebbe spinto la lealtà verso i compagni, non certo la convinzione. Già da tempo Puškin aveva compreso che quello del potere era un principio pervasivo che non consentiva opposizioni dialettiche. E alle scene del Boris, montate come una grande iconostasi proprio per rendere la sostanziale atemporalità e astoricità della vicenda, aveva affidato la rappresentazione di tale pervasività. L’unico modo di affrontare il potere era quello di affondare nella radice stessa della sua essenza, di bonificarlo di ogni concrezione istituzionale o burocratica, di metterne a nudo l’aspetto creativo, necessariamente benigno. Solo illusoriamente il potere poteva avere una sua opposizione: non a caso nel Boris «il popolo rimane in silenzio» di fronte all’ascesa al trono del falso Dmitrij. È solo questa convinzione che spinge Puškin ad accettare le condizioni impostegli da Nicola: in quello zar che gli si propone come censore personale, consentendogli di scavalcare le mediazioni burocratiche, il poeta intravede la possibilità di accedere in qualche modo alla dimensione del potere puro, colto nella sua primigenia immediatezza. Il semplice fatto che, travolto dal suo smisurato orgoglio, Puškin non abbia nemmeno lontanamente previsto le mille umiliazioni di cui sarebbe rimasto vittima, fino alla «congiura» finale, testimonia anche d’una buona dose d’ingenuità.

    La figlia del capitano risponde in sostanza ai medesimi interrogativi del Boris, muovendo dalla didascalia finale sul popolo ammutolito. E fa giustizia di un’illusione nutrita, sia pur in maniera discontinua, da un Puškin a tratti persuaso che un’alleanza tra nobiltà e popolo fosse in grado di dar consistenza politica al suo disegno. Questa è ancora la tesi, peraltro espressa senza troppa convinzione, del Dubrovškij scritto nei mesi a cavallo tra il 1832 e il 1833.

    Ma, ancor prima della stesura dell’ultimo capitolo, lo scrittore aveva già abbozzato la vicenda della Figlia del capitano, dove Caterina ii e Pugačëv altro non sono che le maschere di due poteri, contrapposti e ostili, ma assolutamente identici per natura e struttura. Il ribelle semmai comprova il fatto che, quand’anche derivato dal popolo, il potere agisce secondo leggi proprie che ne determinano l’inevitabile degenerazione istituzionale. Non sparisce la convinzione di una sua primaria natura benigna: non a caso sia Pugačëv sia Caterina, comparendo in fasi diverse sotto mentite spoglie e quindi liberi dei loro «apparati», determinano la felice conclusione della storia. Ma non vi è dubbio che la riflessione puškiniana escluda ormai ogni possibile soluzione di ceto o di classe: sempre più il confronto con il potere si risolve in un duello che neutralizza ogni sviluppo storico e porta alla ribalta singoli antagonisti. In fin dei conti è proprio in quello stesso 1836 che Puškin rimette mano a una poesia del 1828, tramutando l’originario titolo La plebe nel più incisivo Il poeta e la folla. In essa si trova la definizione d’una sorta di missione poetica: «Non per gli affanni quotidiani, / Non per l’utilità, non per le battaglie, / Noi siamo nati per l’ispirazione, / Pei dolci suoni e le preghiere». Un’apparente dichiarazione di disimpegno, se questi versi non fossero coevi a quelli di Exegi monumentum, dove si legge: «Ho eretto un monumento da mano non creato, / Non sparirà il sentiero che ad esso il popolo guida». Il poeta rivendica quindi un distacco dalla folla, ma confida nel postumo ricongiungimento con il popolo. E questo è possibile solo perché Puškin, alla fine d’un suo travagliato processo di transizione, ha accettato di rimanere da solo, a mo’ d’avanguardia, nello scivoloso terreno del confronto con il potere.

    In tal senso si spiega anche il netto rifiuto delle tesi esposte da Čaadaev nella sua Lettera filosofica, soprattutto là dove spiega il malessere della Russia con la mancata accettazione del cattolicesimo. Puškin è reciso: «La religione è estranea ai nostri pensieri, alle nostre abitudini». Un’affermazione che liquida le argomentazioni di Čaadaev, ma anche quelle di un Ivan Kireevskij che opponeva invece la superiorità dell’ortodossia all’esaltazione del cattolicesimo. Dietro questa negazione sta la più generale ripulsa del dibattito storico come dimensione praticabile per un’autentica disamina della questione russa. Se nella Figlia del capitano Puškin aveva indicato come ambito d’una possibile sopravvivenza gli interstizi tra i poteri contrapposti, quelli in cui faticosamente si muove Grinëv lungo tutto il romanzo, per sé egli sceglie uno spazio intellettuale ancora tutto da costruire. «Il vero posto dello scrittore è il suo studio e solo l’indipendenza e il rispetto di noi stessi possono innalzarci al di sopra delle meschinità della vita e delle tempeste del destino»: così si chiude un lungo articolo consacrato alla demolizione di Voltaire. E lo studio diventa foscolianamente il luogo metaforico di un’organizzazione culturale che Puškin individua ormai come l’unica arma possibile per realizzare il suo disegno di bonifica del potere. Foscolianamente, si badi bene: al poeta russo è spesso capitato d’esser accostato, per pura coincidenza biografico-cronologica, alla sensibilità d’un Leopardi. Nulla di meno azzeccato. L’esperienza puškiniana in realtà ripercorre in maniera sorprendente, a distanza di poco meno d’un trentennio, la vicenda del Foscolo negli anni cosiddetti maturi del bonapartismo. Il tanto citato «moderatismo» del poeta dalmata, fatto di rifiuto del sovversivismo nei confronti del regime dominante ma anche di ostilità verso il servilismo imperante, è della stessa grana di quello di Puškin a faccia a faccia con lo zar. E non sono poche le affermazioni contenute nella foscoliana lezione inaugurale all’ateneo pavese del 22 gennaio 1809 che il poeta russo avrebbe potuto tranquillamente far proprie. Forse che anche il nuovo impegno di Puškin non consisteva, come si legge in quell’orazione, nello «snudare» l’«abuso» e la «deformità» di quelle «Opinioni» che «adulando l’arbitrio de’ pochi o la licenza della moltitudine, roderebbero i nodi sociali e abbandonerebbero gli Stati al terror del carnefice, alla congiura degli arditi, alle gare cruente degli ambiziosi»? Di questo nuovo impegno puškiniano restano i quattro numeri della rivista «Sovremennik» da lui curati: l’ultimo fascicolo, uscito il 22 dicembre 1836, ospita La figlia del capitano. Mancavano trentotto giorni alla morte del poeta.

    MAURO MARTINI

    I. Sergente della guardia

    – Della guardia sarebbe domani già capitano.

    – Non v’è occorrenza; che serva nell’armata.

    – Ben detto! si abbia la vita un po’ rattristata...

    ...

    E poi chi è suo padre?

    KNJAŽNIN¹

    Mio padre Andrej Petrovič Grinëv nella sua giovinezza aveva prestato servizio agli ordini del conte Münnich² e si era congedato con il grado di primo maggiore nel 17**³ A partire da quel momento aveva vissuto nella sua tenuta di Simbirsk, dove aveva sposato la signorina Avdot’ja Vasil’evna Ju., figlia di un nobile povero della zona. Noi figli eravamo nove. Tutti i miei fratelli e tutte le mie sorelle morirono nell’infanzia.

    Mia madre era ancora incinta di me, che io ero già immatricolato nel reggimento Semënovškij⁴ come sergente, grazie alla benevolenza del maggiore della guardia principe В., nostro parente stretto. Se contro ogni aspettativa mia madre avesse generato una figlia, il babbo avrebbe comunicato là dove bisognava la notizia della morte del sergente mai presentatosi, e la faccenda sarebbe finita così. Io ero considerato in licenza fino a conclusione degli studi. A quei tempi non venivamo educati come si fa oggi. Dall’età di cinque anni fui confidato nelle mani del brachiere Savel’ič, assegnatomi come precettore per la sua sobria condotta. Sotto la sua sorveglianza a dodici anni avevo imparato a leggere e a scrivere in russo e potevo giudicare molto sensatamente delle qualità d’un cane levriero. Allora il babbo assunse per me un francese, Monsieur Beaupré, che fecero venire da Mosca con l’annuale provvista di vino e di olio d’oliva. Il suo arrivo non piacque per nulla a Savel’ič. «Grazie a Dio», bofonchiava fra sé e sé, «mi pare che il ragazzino sia lavato, pettinato, ben nutrito. Perché mai si deve buttar via altri soldi e prendere un musié, come se qui le persone non bastassero!».

    Beaupré era stato parrucchiere in patria, poi soldato in Prussia, successivamente era arrivato in Russia pour être outchitel⁵, senza troppo capire il significato di tale parola. Era un bravo ragazzo, ma sconsiderato e libertino all’estremo. La sua principale debolezza era la passione per il bel sesso; non di rado in risposta alle sue smancerie riceveva degli spintoni, per colpa dei quali gemeva giornate intere. Inoltre non era nemmeno (come lui stesso si esprimeva) nemico della bottiglia, ossia (per dirla in russo) gli piaceva bere più del necessario. Ma, visto che a casa nostra il vino veniva servito soltanto a pranzo, e anche in tal caso in misura di un calice a testa, e che per di più di solito il maestro veniva saltato, il mio Beaupré si abituò molto rapidamente all’acquavite russa e cominciò perfino a preferirla ai vini della sua patria, come di gran lunga più salutare per lo stomaco. Noi ci intendemmo immediatamente e, benché per contratto fosse costretto a insegnarmi il francese, il tedesco e tutte le scienze, egli preferì imparare in fretta da me a parlucchiare alla bell’e meglio in russo, dopodiché ciascuno si occupò delle sue faccende. Vivevamo d’amore e d’accordo. Un altro mentore non lo volevo proprio. Ma presto il destino ci separò, ed ecco in quale circostanza.

    La lavandaia Palaška, una ragazza grassa e butterata, e la guercia vaccara Akul’ka non si sa come s’accordarono di buttarsi contemporaneamente ai piedi di mia madre, incolpandosi di criminale debolezza e lagnandosi tra le lacrime di musié, che s’era approfittato della loro inesperienza. Alla mamma su queste cose non piaceva scherzare e se ne lamentò col babbo. La giustizia di mio padre era sommaria. Egli fece immediatamente chiamare quella canaglia d’un francese. Gli riferirono che musié mi stava facendo lezione. Il babbo entrò nella mia stanza. In quel momento Beaupré dormiva sul letto il sonno dell’innocenza. Io ero impegnato in una mia faccenda. Bisogna sapere che per me era stata fatta venire da Mosca una carta geografica. Essa stava appesa alla parete senza che mai ne venisse fatto uso alcuno e da tempo mi allettava per l’ampiezza e la buona qualità della carta. M’ero deciso a farne un aquilone e, approfittando del sonno di Beaupré, mi ero messo all’opera. Il babbo entrò proprio nel momento in cui stavo appiccicando una coda di stoppa al Capo di Buona Speranza. Vedendo i miei esercizi di geografia, il babbo mi tirò un orecchio, poi corse da Beaupré, lo svegliò senza troppi complimenti e cominciò a coprirlo di rimproveri. Beaupré, tutto confuso, voleva alzarsi e non poteva: lo sventurato francese era ubriaco fradicio. In tal modo la pagò una volta per tutte. Il babbo lo tirò giù dal letto per la collottola, lo spinse fuori della porta e quel giorno stesso lo cacciò di casa, con indescrivibile gioia di Savel’ič. E con ciò si concluse la mia educazione.

    Vivevo da minorenne⁶, dando la caccia ai colombi e giocando alla cavallina con i ragazzini della servitù. Intanto compii sedici anni. Allora il mio destino cambiò.

    Un giorno, in autunno, la mamma stava facendo cuocere in salotto la confettura di miele e io, leccandomi le labbra, guardavo la schiuma bollente. Il babbo leggeva vicino alla finestra l’Almanacco di corte⁷ che riceveva ogni anno. Quel libro gli faceva sempre un notevole effetto: non mancava mai di rileggerlo senza una particolare partecipazione e quella lettura gli causava sempre un sorprendente rimescolamento di bile. La mamma, che conosceva a memoria le sue usanze e le sue abitudini, cercava sempre di nascondere quello sciagurato libro il più lontano possibile, e in tal modo l’Almanacco di corte a volte non gli cadeva sottocchio per mesi interi. Di contro, quando gli capitava di trovarlo per caso, allora accadeva che per lunghe ore non se lo facesse toglier di mano. E così il babbo leggeva l’Almanacco di corte, stringendosi di quando in quando tra le spalle e ripetendo a mezza voce: «Luogotenente generale!... Nella mia compagnia era sergente!... Cavaliere di entrambi gli ordini russi!⁸... È forse da molto tempo che noi...». Infine il babbo scagliò l’Almanacco sul divano e si immerse in una fantasticheria che non lasciava presagire nulla di buono.

    All’improvviso si rivolse alla mamma: «Avdot’ja Vasil’evna, ma quanti anni ha Petruša?».

    «Va per i diciassette», rispose la mamma. «Petruša è nato lo stesso anno in cui la zia Nastas’ja Gerasimovna ha perso un occhio e...».

    «Va bene», la interruppe il babbo, «è il momento che faccia il servizio militare. È tempo che la pianti di correre per le stanze delle serve e di arrampicarsi sulle piccionaie».

    Il pensiero di un’imminente separazione da me colpì a tal punto la mamma da farle cadere il cucchiaio nella casseruola, mentre le lacrime si misero a scorrere sul suo viso. Al contrario, è difficile descrivere il mio entusiasmo. L’idea del servizio militare si fondeva in me con l’idea della libertà, dei piaceri della vita pietroburghese. Mi immaginavo ufficiale della guardia, il che, a mio parere, rappresentava il colmo della felicità umana.

    Al babbo non piaceva né cambiare i suoi propositi né differirne la realizzazione. Venne fissato il giorno della mia partenza. Alla vigilia il babbo annunciò d’aver intenzione di scrivere per mio tramite al mio futuro superiore, e chiese carta e penna.

    «Non dimenticare, Andrej Petrovič», disse la mamma, «di salutare anche da parte mia il principe В.; spero, scrivigli, che non voglia negare a Petruša la sua benevolenza».

    «Che assurdità!», rispose il babbo rabbuiandosi. «E perché mai dovrei scrivere al principe В.?»

    «Hai pur detto che volevi scrivere al superiore di Petruša».

    «Va bene, e allora?»

    «Allora il superiore di Petruša è il principe B. Petruša infatti è immatricolato al reggimento Semënovškij».

    «Immatricolato! E a me che cosa importa che sia immatricolato? Petruša a Pietroburgo non ci andrà. Che cosa imparerebbe, prestando servizio a Pietroburgo? a fare lo scialacquatore e il perdigiorno? No, presti servizio nell’esercito, così farà la sua gavetta, sentirà l’odore della polvere da sparo e diventerà un soldato, non un cicisbeo. Immatricolato nella guardia! Dov’è il suo passaporto? dallo qua».

    La mamma andò a cercare il mio passaporto, che era conservato nel suo cofanetto insieme con la camicina con cui ero stato battezzato, e lo porse a mio padre con mano tremante. Il babbo lo lesse con attenzione, lo posò sul tavolo davanti a sé e cominciò la sua lettera.

    La curiosità mi torturava: dove mai mi mandavano, se non a Pietroburgo? Non toglievo gli occhi dalla penna del babbo, che scorreva abbastanza lentamente. Finalmente terminò, sigillò la lettera in un unico plico insieme con il passaporto, si tolse gli occhiali e, chiamatomi a sé, mi disse: «Eccoti la lettera per Andrej Karlovič R.⁹, mio vecchio compagno e amico. Tu vai a Orenburg a prestar servizio ai suoi ordini».

    E così tutte le mie brillanti speranze svanivano! Invece dell’allegra vita pietroburghese mi attendeva la noia in una regione sperduta e lontana. Il servizio militare, cui solo un momento prima pensavo con tanto entusiasmo, mi apparve come una terribile sciagura. Ma non c’era di che discutere. L’indomani mattina fu portato davanti all’ingresso un calesse da viaggio: vi sistemarono la valigia, la cassetta col servizio da tè e dei fagotti con panini e timballi, ultimi segni delle mollezze domestiche. I miei genitori mi benedissero. Il babbo mi disse: «Addio, Pëtr. Servi fedelmente colui al quale presterai giuramento; obbedisci ai superiori; non andare a caccia del loro favore; nel servizio non farti troppo avanti; dal servizio non ti sottrarre; e ricorda il proverbio: abbi riguardo per il vestito fin da quando è nuovo, e dell’onore fin da giovane». La mamma in lacrime raccomandava a me di aver riguardo della mia salute e a Savel’ič di aver cura del suo bambino. Mi fecero indossare un pellicciotto di lepre e sopra a questo una pelliccia di volpe. Salii sul carro con Savel’ič e mi misi in viaggio, struggendomi in lacrime.

    Quella medesima notte arrivai a Simbirsk, dove mi toccava trascorrere ventiquattr’ore al fine di acquistare delle cose necessarie, compito che era stato affidato a Savel’ič. Scesi in una locanda. Fin dal mattino Savel’ič se ne andò per botteghe. Annoiatomi di guardare dalla finestra il vicolo fangoso, mi misi a bighellonare per tutte le stanze. Entrato nella sala da biliardo, vidi un signore alto, sui trentacinque anni, con lunghi baffi neri, in veste da camera, la stecca in mano e la pipa fra i denti. Giocava col segnapunti che quando vinceva mandava giù un bicchierino di vodka, mentre quando perdeva doveva cacciarsi sotto il biliardo a quattro zampe. Mi misi a guardare la loro partita. Quanto più a lungo essa durava, tanto più frequenti si facevano le passeggiate a quattro zampe, finché all’ultimo il segnapunti rimase sotto il biliardo. Il signore proferì su di lui alcune espressioni forti come si trattasse d’un discorso funebre e mi propose di fare una partita. Rifiutai dal momento che non sapevo giocare. Il che, con tutta evidenza, gli sembrò strano. Mi guardò con una certa qual compassione, tuttavia attaccammo discorso. Venni a sapere che si chiamava Ivan Ivanovič Zurin, era capitano nel ** reggimento degli ussari, si trovava a Simbirsk per prendere in consegna le reclute e abitava nella locanda. Zurin mi invitò a pranzare con lui, approfittando di quel che Dio mandava, da buoni soldati. Accettai volentieri. Ci mettemmo a tavola. Zurin beveva molto e versava da bere anche a me, dicendo che era d’uopo avvezzarsi al servizio militare; mi raccontava barzellette da caserma, a sentir le quali mancava poco che mi mettessi a rotolare per le risa, e ci alzammo da tavola ottimi amici. A quel punto egli propose di insegnarmi a giocare a biliardo. «Questo», disse, «è indispensabile per noi militari. Nel corso di una campagna, per esempio, arrivi in un paesetto: di che cosa vuoi occuparti? Non è che si possa sempre bastonare gli ebrei. Volente o nolente, finirai alla locanda e ti metterai a giocare a biliardo; e per questo si deve saper giocare!». Ne rimasi pienamente convinto e mi accinsi a imparare con grande diligenza. Zurin mi incoraggiava a gran voce, si sorprendeva dei miei rapidi progressi e, dopo alcune lezioni, mi propose di giocare a soldi, un soldo a partita, non tanto per la vincita, quanto per non giocare gratis, il che, a suo dire, era una pessima abitudine. Accettai anche questo e Zurin ordinò del ponce e mi invitò ad assaggiarlo, ripetendo che al servizio militare dovevo pur abituarmi; e senza ponce che servizio sarebbe mai stato! Gli diedi retta. Nel frattempo il nostro gioco proseguiva. Quanto più spesso sorseggiavo dal mio bicchiere, tanto più mi facevo ardito. Le mie palle volavano ogni minuto fuori sponda; mi accaloravo, rampognavo il segnapunti che contava Dio sa come, di volta in volta moltiplicavo la posta, insomma mi comportavo come un ragazzino che ha ottenuto la libertà. Frattanto il tempo era trascorso inavvertitamente. Zurin diede un’occhiata all’orologio, ripose la stecca e mi informò che avevo perso cento rubli. Questo mi turbò un pochettino. Il mio denaro lo teneva Savel’ič. Cominciai a scusarmi. Zurin mi interruppe: «Ma figurati! Non c’è di che preoccuparsi. Io posso anche aspettare e intanto andiamo da Arinuška».

    Che volete? Conclusi quella giornata dissolutamente come l’avevo cominciata. Cenammo da Arinuška. Ogni minuto Zurin mi versava da bere, ripetendo che ai fini del servizio militare era il caso di abituarsi. Al momento di alzarmi da tavola, a stento mi reggevo in piedi; a mezzanotte Zurin mi ricondusse alla locanda.

    Savel’ič ci venne incontro all’ingresso. Sbottò in un «ah!», scorgendo gli indubbi segni del mio zelo per il servizio militare. «Che hai combinato, signore?», disse con voce lagnosa, «dove hai fatto questo bel pieno? Ah, signore! un peccato del genere non si è mai visto!». «Taci, rimbambito!», gli risposi farfugliando, «di sicuro sei ubriaco, vattene a dormire... e mettimi a letto».

    L’indomani mi risvegliai col mal di testa, rammentando confusamente le vicende del giorno prima. Le mie riflessioni furono interrotte da Savel’ič che entrò nella mia stanza con una tazza di tè. «Troppo presto, Pëtr Andreič», mi disse, scuotendo la testa, «troppo presto cominci a far baldoria. E da chi mai hai preso? Mi sembra che né tuo padre né tuo nonno fossero degli ubriaconi; di tua madre nemmeno a parlarne: da quando è nata, all’infuori del kvas¹⁰ non ha voluto portar nulla alle labbra. Di chi è la colpa di tutto? di quel maledetto musié. Non faceva altro che correre dalla Antip’evna: "Madam, je vu pri, vodkju". Ed eccoti il je vu pri! Non c’è che dire: ti ha dato una bella istruzione, quel figlio d’un cane. C’era proprio la necessità di prendere come precettore un miscredente, come se al padrone non bastassero le persone di casa!».

    Mi vergognavo. Gli voltai le spalle e gli dissi: «Vattene, Savel’ič; non voglio il tè». Ma non c’era modo di fermare Savel’ič, quando si metteva a fare una predica. «Vedi, Pëtr Andreič, che cosa vuol dire far baldoria. La testa si fa pesante e non si ha voglia di mangiare. Una persona che beve è buona a nulla... Bevici su un po’ di salamoia di cetrioli col miele, ma meglio di tutto sarebbe smaltire la sbornia con un mezzo bicchiere di acquavite. Non lo vorresti?».

    In quel mentre entrò un ragazzo e mi consegnò un biglietto da parte di I.I. Zurin. Lo aprii e lessi le seguenti righe:

    Caro Pëtr Andreevič,

    ti prego di mandarmi tramite il mio ragazzo i cento rubli che ieri hai perso con me. Ho un estremo bisogno di quattrini.

    Sempre a tua disposizione.

    Ivan Zurin

    Non c’era nulla da fare. Assunsi un’aria indifferente e, rivolgendomi a Savel’ič che «dei denari, della biancheria e degli affari miei avea la cura»¹¹, ordinai di consegnare al ragazzo cento rubli. «Come! perché?», chiese lo stupefatto Savel’ič. «Glieli devo», risposi con tutta la freddezza di cui ero capace. «Glieli devi!», ribatté Savel’ič, che di minuto in minuto sprofondava in un crescente stupore, «ma quando mai, signore, sei riuscito a indebitarti con lui? La faccenda non mi piace proprio. Sia come vuoi, signore, ma io quattrini non ne sborso».

    Pensai che, se in quel cruciale istante non avessi avuto la meglio su quel vecchio cocciuto, in seguito mi sarebbe riuscito difficile affrancarmi dalla sua tutela e, guardandolo fieramente, dissi: «Io sono il tuo padrone, e tu sei il mio servo. I quattrini sono miei. Li ho persi al gioco, perché così mi è frullato per il capo. Ti consiglio di non star a cavillare e di far quel che ti si ordina».

    Savel’ič fu così colpito dalle mie parole che congiunse le mani e rimase di sale. «Che stai a fare là fermo!», gridai irato. Savel’ič scoppiò a piangere. «Batjuska¹² Pëtr Andreič», proferì con voce tremante, «non farmi morire di crepacuore. Luce mia! ascolta me che sono vecchio; scrivi a questo brigante che hai scherzato, che noi una somma del genere non l’abbiamo neppure. Cento rubli! Dio misericordioso! Digli che i tuoi genitori ti hanno severamente proibito di giocare, tranne che a noci...». «Basta raccontar balle», lo interruppi duramente, «caccia i soldi o ti mando via a pedate».

    Savel’ič mi guardò con profonda amarezza e andò a prendere il denaro per il mio debito. Il povero vecchio mi faceva pena; ma volevo conquistare la mia libertà e dar prova di non essere più un bambino. I quattrini furono mandati a Zurin. Savel’ič si affrettò a portarmi via da quella maledetta locanda. Spuntò ad annunciarmi che i cavalli erano pronti. Con la coscienza inquieta e un muto pentimento partii da Simbirsk senza salutare il mio maestro e pensando di non rivederlo mai più.

    1 Jakov Borisovič (1742-1791): drammaturgo, favolista e traduttore. La citazione è tratta dalla commedia Il fanfarone (1786).

    2 Burkhard Christoph (1683-1767): maresciallo di campo di origine danese. Preso servizio con Pietro I, raggiunse il suo massimo potere sotto l’imperatrice Anna Ioanovna. Sotto il suo comando le truppe russe conseguirono numerose vittorie durante la guerra russo-turca (1735-1739).

    3 Nel manoscritto Puškin aveva indicato l’anno per esteso: si trattava del 1762, vale a dire dell’anno della presa del potere di Caterina. Grinëv padre rappresenta quella fazione dell’aristocrazia russa che si oppose a Caterina II e ai suoi numerosi favoriti.

    4 Era consuetudine dell’epoca che i figli della nobiltà venissero immatricolati al momento della nascita in uno dei due reggimenti della guardia (Semënovškij e Preobrazenškij). Il Semënovškij era stato fondato da Pietro I nel 1687 e insignito del titolo di reggimento della guardia nel 1700.

    5 Outchitel è la trascrizione francese del russo uč citel’, maestro.

    6 Nella Russia del Settecento un nobile era minorenne (nedorosl’) fino ai quindici anni, prima di entrare nel servizio militare o civile. Nel tardo diciottesimo secolo il termine assunse la sfumatura ironica di giovane ignorante sulla scorta della famosa commedia Il minorenne (1782) di Denis Ivanovič Fonvizin (1744-1792).

    7 L’Almanacco di corte (Pridvornyj Kalendar), che tra le altre cose riportava tutte le promozioni civili e militari, venne pubblicato annualmente dal 1735 al 1917.

    8 Si tratta degli ordini di sant’Andrea e di sant’Alessandro Nevškij.

    9 Questo personaggio presenta molti punti di contatto con Ivan Andreevič Rejnsdorp, il governatore di Orenburg durante la rivolta di Pugačëv, per il cui operato si rimanda alla Storia di Pugačëv.

    10 Bevanda analcolica fermentata a base di acqua, pane e malto.

    1111 Verso tratto dal poema Epistola ai miei servi Šumilov, Van’ka e Petruša di Fonvizin.

    12 Letteralmente piccolo padre, è appellativo di familiare rispetto.

    II. La guida

    Paese, paesuccio mio,

    Paese sconosciuto!

    Non fui io a capitarvi,

    Non fu il mio buon cavallo a portarmi;

    Mi sospinsero, baldo giovine,

    La foga, il vigore della gioventù

    E l’ebbrezza della bettola

    ANTICA CANZONE

    Le mie riflessioni di viaggio non furono granché piacevoli. La mia perdita al gioco, ai prezzi dell’epoca, non era di poco conto. Non potevo non riconoscere dentro di me che il mio comportamento nella locanda di Simbirsk era stato stupido, e mi sentivo in colpa nei confronti di Savel’ič. Tutto ciò mi tormentava. Il vecchio sedeva cupo in serpa, tenendomi le spalle voltate, e taceva, limitandosi a gemere di tanto in tanto. Io volevo assolutamente rappacificarmi con lui e non sapevo da che parte cominciare. Alla fine gli dissi: «Su, su, Savel’ič! Ora basta, facciamo la pace, la colpa è mia; lo vedo anche da me che è colpa mia. Ieri l’ho fatta grossa e ti ho offeso senza ragione. Prometto di comportarmi d’ora innanzi con maggior giudizio e di prestarti ascolto. Su, non arrabbiarti; facciamo la pace».

    «Eh, batjuška Pëtr Andreič!», rispose con un profondo sospiro. «È con me stesso che sono adirato; mia è la colpa di tutto. Come ho potuto lasciarti da solo nella locanda! Che fare? Il diavolo ci ha messo la coda: mi è saltato in mente di passare dalla moglie del sagrestano, di andare a trovare la comare. Proprio così: sono andato dalla comare, mi son fatto incarcerare. Una gran bella disgrazia!... Come mi presenterò agli occhi dei padroni? che cosa diranno quando sapranno che il loro bambino beve e gioca?».

    Per rincuorare il povero Savel’ič, gli diedi la mia parola che da quel momento non avrei disposto nemmeno di un copeco senza il suo consenso. A poco a poco si tranquillizzò, anche se di tanto in tanto ancora borbottava fra sé e sé, scrollando il capo: «Cento rubli! Un bell’affare!».

    Mi avvicinavo al luogo di destinazione. Intorno a me si stendevano tristi deserti, solcati da colline e burroni. Tutto era ricoperto di neve. Il sole tramontava. Il calesse procedeva per una strada stretta o, per meglio dire, lungo la traccia lasciata dalle slitte dei contadini. D’un tratto il vetturino si mise a guardare in una direzione e alla fine, toltosi il berretto, si voltò verso di me e disse:

    «Signore, non è che vorresti tornare indietro?»

    «E perché mai?»

    «Il tempo non lascia sperare niente di buono: si sta alzando un po’ di vento; vedrai come spazza il nevischio».

    «E che male c’è?»

    «Vedi che cosa c’è laggiù?» (Il vetturino indicò con la frusta verso oriente).

    «Io non vedo niente, all’infuori della steppa bianca fino al cielo chiaro».

    «E laggiù, laggiù: quella nuvoletta».

    Ed effettivamente al limitare del cielo vidi una nuvoletta bianca che inizialmente avevo preso per una collinetta lontana. Il vetturino mi spiegò che la nuvoletta preludeva a un turbine di neve.

    Avevo sentito parlare delle tempeste di neve di quelle parti e sapevo che spesso interi convogli ne venivano sepolti. Savel’ič, conformemente all’opinione del vetturino, consigliava di tornare indietro. Ma il vento non mi sembrava forte; speravo di raggiungere per tempo la stazione di posta successiva e ordinai di avanzare più rapidamente.

    Il vetturino si lanciò al galoppo; ma continuava a guardare verso oriente. I cavalli correvano di concerto. Intanto il vento si faceva di minuto in minuto sempre più forte. La nuvoletta si trasformò in una bianca nube che si alzava pesantemente, cresceva e gradualmente invadeva il cielo. Cominciò a cadere una neve fina; e all’improvviso si rovesciò a larghe falde. Il vento ululava; si alzò la tormenta. In un solo attimo il cielo scuro si confuse col mare di neve. Tutto sparì. «Ehi, signore», gridò il vetturino, «è un bel guaio: è un turbine!...».

    Gettai un’occhiata fuori del calesse: tutto era buio e vorticava. Il vento ululava con un’intensità così crudele da parer animato; la neve ricopriva me e Savel’ič; i cavalli andavano al passo e presto si fermarono. «Perché non vai avanti?», domandai con impazienza al vetturino. «E a che serve andare?», replicò lui, scendendo di serpa, «già così non si sa dove siamo finiti: non c’è strada e intorno è buio». Cominciai a ingiuriarlo. Savel’ič intervenne in sua difesa. «Non hai voluto prestare ascolto», disse irato, «avresti fatto ritorno alla locanda, ti saresti bevuto il tè, avresti riposato fino al mattino, la tempesta si sarebbe placata e avremmo proseguito. Dove stiamo correndo? Nemmeno stessimo andando a nozze!» Savel’ič aveva ragione. Non c’era niente da fare. La neve continuava a cadere. Intorno al calesse si stava alzando un cumulo. I cavalli restavano fermi, tenendo le teste basse e rabbrividendo di tanto in tanto. Il vetturino s’aggirava senza aver altro da fare che sistemare i finimenti. Savel’ič brontolava; io guardavo da ogni parte, sperando di vedere sia pur un indizio di abitato o di strada, ma non potevo distinguere nulla, ad eccezione del confuso turbinare della tempesta... D’un tratto scorsi qualcosa di nero. «Ehi, vetturino!», gridai, «guarda: cos’è che nereggia laggiù?». Il vetturino si mise a guardare attentamente. «Lo sa Dio, signore», disse, sedendosi al suo posto, «un carro non è, un albero nemmeno, e pare che si muova. Dev’essere un lupo oppure una persona».

    Ordinai che ci muovessimo verso l’oggetto sconosciuto, che immediatamente cominciò a venirci incontro. Due minuti più tardi raggiungemmo un uomo.

    «Ehi, buon uomo!», gli gridò il vetturino. «Di’, sai forse dov’è la strada?»

    «La strada è proprio qui; sto sul battuto», rispose il viandante, «ma a che pro?»

    «Senti, contadinotto», gli dissi io, «conosci questa zona? Ti prenderesti l’impegno di portarmi dove io possa passare la notte?»

    «La zona la conosco», rispose il viandante, «grazie a Dio, l’ho attraversata a piedi e a cavallo da un capo all’altro. Ma lo vedi da te che tempo fa: c’è proprio da perdere la strada. Meglio fermarsi qui e aspettare, può darsi che la bufera si plachi e il cielo si schiarisca: in tal caso troveremo la strada seguendo le stelle».

    Il suo sangue freddo mi risollevò il morale. Avevo già deciso, affidandomi alla volontà divina, di pernottare in mezzo alla steppa, quando d’un tratto il viandante sedette agilmente in serpa e disse al vetturino: «Va bene, grazie a Dio, l’abitato non è distante; gira a destra e va’».

    «E perché devo andare a destra?», chiese il vetturino con aria scontenta. «Dove vedi la strada? Sarà: cavalli altrui, bardatura non tua, corri e non fermarti¹³».

    Il vetturino mi sembrava esser nel giusto. «In effetti», dissi io, «perché pensi che l’abitato non sia lontano?» «Ma perché il vento si è messo a soffiare da quella direzione», rispose il viandante, «e sento odore di fumo; di conseguenza il villaggio è vicino». La sua prontezza e la finezza del suo olfatto mi sorpresero. Ordinai al vetturino di muoversi. I cavalli procedevano a stento nella neve profonda. Il calesse avanzava adagio, ora scavalcando un cumulo di neve, ora sprofondando in un fosso e inclinandosi un momento da un lato, un momento dall’altro. Sembrava la navigazione d’un bastimento sul mare in tempesta. Savel’ič si lamentava, urtandomi ogni minuto i fianchi. Abbassai la stuoia, mi avvolsi nella pelliccia e mi assopii, cullato dal canto della bufera e dal rollio della lenta andatura.

    Feci un sogno che non ho mai potuto dimenticare e nel quale ancora adesso vedo un che di profetico, quando lo confronto con le strane circostanze della mia vita. Il lettore mi perdonerà, dal momento che verosimilmente sa per esperienza come l’uomo per sua stessa natura si abbandoni alla superstizione, malgrado tutto il possibile disprezzo verso i pregiudizi.

    Mi trovavo in quella condizione dei sensi e dell’anima in cui la realtà, cedendo il passo alle fantasticherie, si fonde con queste nelle confuse visioni del primo sonno. Mi sembrava che la tempesta continuasse a infuriare e noi vagassimo ancora nel deserto nevoso... Improvvisamente scorsi un portone ed entrai nel cortile padronale della nostra casa di campagna. Il mio primo pensiero fu il timore che il babbo si infuriasse con me per l’involontario ritorno sotto il tetto paterno e che egli lo ritenesse una disobbedienza premeditata. In preda all’inquietudine salto giù dal calesse ed ecco che vedo la mamma venirmi incontro sulla veranda con un aspetto di profonda pena. «Piano», mi dice, «tuo padre è malato, in punto di morte, e desidera darti l’ultimo saluto». In preda allo spavento, la seguo fino in camera da letto. Vedo che la stanza è debolmente illuminata; accanto al letto vi sono delle persone con le facce tristi. Pian piano mi avvicino al letto; la mamma alza la cortina e dice: «Andrej Petrovič, Petruša è arrivato; è tornato indietro, sapendo della tua malattia; benedicilo». Mi metto in ginocchio e punto i miei occhi sul malato. Ebbene?... Invece di mio padre vedo che sul letto giace un contadino dalla barba nera che mi sogguarda allegramente. Sconcertato mi voltai verso la mamma, dicendole: «Che cosa vuol dire tutto ciò? Questo non è il babbo. E per qual motivo dovrei mai chiedere la benedizione a un contadino?» «Fa lo stesso Petruša», mi rispose la mamma, «questo è il tuo padrino; baciagli la mano e lascia che ti benedica...». Io non ero d’accordo. Allora il contadino saltò giù dal letto, tirò fuori un’accetta da dietro la schiena e cominciò ad agitarla in tutte le direzioni. Volevo scappare... e non potevo; la stanza si riempì di cadaveri; io inciampavo nei corpi e scivolavo su pozze di sangue... Il tremendo contadino mi chiamava dolcemente, dicendo: «Non aver paura, vieni che ti benedico...». Orrore e sconcerto si impossessarono di me... E in quell’istante mi risvegliai; i cavalli si erano fermati; Savel’ič mi tirava per la mano, dicendo: «Scendi, padrone: siamo arrivati».

    «Dove siamo arrivati?», chiesi, sfregandomi gli occhi.

    «A una locanda. Il Signore ci ha assistito, siamo andati a sbattere dritto contro lo steccato. Scendi in fretta, signore e va’ a scaldarti».

    Scesi dal calesse. La bufera continuava, sia pur con minor forza. Era così buio da cavarsi gli occhi. Il padrone ci venne incontro sul portone, tenendo una lanterna sotto la falda della mantella, e mi condusse in una stanza, angusta, ma sufficientemente pulita; una torcia la illuminava. Alla parete erano appesi una carabina e un alto berretto cosacco.

    Il padrone, un cosacco originario dello Jaik¹⁴, sembrava un contadino sulla sessantina, ancora fresco e vivace. Savel’ič, che mi seguiva, portò la cassetta da viaggio e ordinò del fuoco per preparare quel tè che mai mi era parso così necessario. Il padrone andò a darsi da fare.

    «Dov’è la guida?», chiesi a Savel’ič.

    «Qui, vostra signoria», mi rispose una voce dall’alto. Guardai verso il soppalco e vidi una barba nera e due occhi sfavillanti. «Allora, amico, hai preso freddo?» «E come non prender freddo con indosso solo questo caffetano leggero leggero! Avevo un pellicciotto, ma perché nascondere il peccato? L’ho impegnato ieri dal taverniere: il gelo non sembrava poi così forte». In quel momento il padrone entrò con un samovar bollente; offrii alla nostra guida una tazza di tè; il contadino scese dal soppalco. Il suo aspetto mi sembrò degno di nota: era sulla quarantina, di media statura, alquanto magro e di spalle larghe. La sua nera barba era un po’ brizzolata; i grandi occhi vivi erano in continuo movimento. Il suo volto aveva un’espressione abbastanza gradevole, ma astuta. I capelli erano tagliati a caschetto; indossava un caffetano lacero e ampie brache tartare. Gli porsi la tazza di tè; l’assaggiò e fece una smorfia. «Vostra signoria, fatemi questa gentilezza, ordinate che portino un bicchiere di vino, il tè non è bevanda per noi cosacchi». Esaudii di buon grado il suo desiderio. Il padrone cavò da un armadio una fiasca e un bicchiere, gli si accostò e, guardandolo in faccia: «Eh eh», gli disse, «ancora da queste parti! Da dove t’ha portato Dio?». La mia guida ammiccò espressivamente e rispose con un detto: «Nell’orto volavo, la canapa beccavo; m’ha tirato la nonna un sassolino e ha sbagliato il colpo. Be’, e i vostri?».

    «Già, i nostri!», rispose il padrone, continuando la conversazione allegorica. «Volevano suonare a vespro, ma la moglie del pope non l’ha consentito: prete in giro, diavoli al camposanto».

    «Taci, zio», ribatté il mio vagabondo, «ci sarà la pioggia, allora ci saranno anche i funghi; ci saranno i funghi, e allora ci sarà anche il cestello. Ma adesso (e qui ammiccò di nuovo) cacciati l’accetta dietro la schiena: il guardaboschi è in giro. Vostra signoria! alla vostra salute!». Pronunciate queste parole, prese il bicchiere, si fece il segno della croce e bevve d’un fiato. Poi mi si inchinò e tornò sul soppalco.

    Allora io non potevo capire nulla di quella conversazione nel gergo della malavita; solo in seguito indovinai che si trattava di questioni dell’esercito dello Jaik, a quel tempo appena pacificato dopo la rivolta del 1772¹⁵. Savel’ič aveva ascoltato con un’aria di profondo malcontento. Guardava con sospetto ora il padrone ora la guida. La locanda, o, come si dice da quelle parti, l’umët, si trovava fuori mano, nella steppa, lontano da ogni luogo abitato, ed era molto simile a un covo di briganti. Ma non c’era nulla da fare. Non si poteva neppure pensare di riprendere il viaggio. L’inquietudine di Savel’ič mi divertiva molto. Intanto mi preparai per la notte e mi stesi su una panca. Savel’ič decise di piazzarsi sulla stufa; il padrone si coricò sul pavimento. Rapidamente tutta l’izba cominciò a russare, e io mi addormentai come morto.

    Risvegliatomi il mattino alquanto tardi, vidi che la bufera si era placata. Il sole splendeva. La neve si stendeva come un velo accecante sull’immensa steppa. I cavalli erano già attaccati. Pagai il padrone, il quale ci chiese una cifra talmente modesta che perfino Savel’ič non discusse con lui e non si mise a contrattare com’era sua abitudine, e i sospetti della sera prima si cancellarono completamente dalla sua testa. Chiamai la guida, la ringraziai dell’aiuto offertoci e ordinai a Savel’ič di darle mezzo rublo di mancia. Savel’ič si oscurò in volto. «Mezzo rublo di mancia!», disse, «e perché mai? Perché hai acconsentito a condurlo alla locanda? Sia fatta la tua volontà, signore: non abbiamo mezzi rubli di troppo. A voler dar la mancia a chiunque, si finisce in fretta col dover digiunare». Non potevo discutere con Savel’ič. I quattrini, secondo la mia promessa, erano sotto la sua piena giurisdizione. Mi spiaceva però non poter dare una ricompensa a un uomo che mi aveva tratto fuori se non da una disgrazia, quantomeno da una situazione molto spiacevole. «Bene», dissi gelido, «se non vuoi dargli il mezzo rublo, prendigli qualcosa dal mio guardaroba. È vestito troppo leggero. Dagli il mio pellicciotto di lepre».

    «Ma andiamo, batjuška Pëtr Andreič!», disse Savel’ič. «Perché dargli il tuo pellicciotto di lepre? Se lo andrà a bere, quel cane, nella prima bettola».

    «Questa, vecchietto mio, non è più una tua preoccupazione», disse il mio vagabondo, «che me lo beva o no. Sua signoria mi regala una pelliccia togliendosela dalle spalle: questa è la volontà del padrone, e il tuo compito di servo è quello di non discutere e di obbedire».

    «Tu Dio non lo temi, brigante!», gli rispose Savel’ič con voce irata. «Tu vedi che il bambino ancora non ragiona, e ti compiaci di derubarlo, semplice com’è. A che ti serve il pellicciotto del padrone? Non ce la farai neppure a infilarlo su quelle tue spallacce maledette».

    «Ti prego di non star a cavillare», dissi al mio precettore, «porta qui subito il pellicciotto».

    «Signore onnipotente!», gemette il mio Savel’ič. «Un pellicciotto di lepre quasi nuovo! L’avesse poi dato a chiunque altro, ma a un ubriacone impenitente!».

    Tuttavia il pellicciotto di lepre saltò fuori. Il contadinotto cominciò subito a provarselo. In effetti il pellicciotto, per il quale io stesso ero un po’ cresciuto, gli andava alquanto stretto. In qualche modo comunque si ingegnò e lo indossò, strappando le cuciture. Savel’ič a momenti si metteva a urlare, sentendo i fili cedere. Il vagabondo era straordinariamente soddisfatto del mio regalo. Mi accompagnò al calesse e disse con un profondo inchino: «Grazie, vostra signoria! Che il Signore vi renda merito della vostra bontà. Mai dimenticherò i vostri favori». Se ne andò per la sua strada, e io mi rimisi in cammino, senza prestar attenzione alla stizza di Savel’ič, e presto scordai la burrasca del giorno precedente, la mia guida e il pellicciotto di lepre.

    Giunto a Orenburg, mi presentai immediatamente al generale. Vidi un uomo di alta statura, ma già curvato dalla vecchiaia. I suoi lunghi capelli erano completamente bianchi. La sua vecchia uniforme slavata ricordava le guerre dei tempi di Anna Ioannovna¹⁶, e nella sua parlata si sentiva forte l’accento tedesco. Gli consegnai la lettera del babbo. Nel sentire il suo nome mi lanciò un rapido sguardo: «Tio mio!», disse. «A qvanto pare, è passato un bel po’ di tempo da qvando Andrej Petrofič afefa ancora la tua età, e adesso ecco che giofinotto ha già! Ach, il tempo, il tempo!». Dissuggellò la lettera e si mise a leggerla a mezza voce, facendo le sue annotazioni. «Egregio signor Andrej Karlovič, spero che vostra eccellenza... che zerimonie son mai qveste? Pfui, com’è che non si fergogna? È naturale, la disziplina innanzitutto, ma è così che si scrife a un fecchio camerata? ...vostra eccellenza non ha dimenticato... hmm... e... quando... il defunto feldmaresciallo Münn... nella campagna... come pure... la Karolinka... Eh eh, Bruder! vuol dire che si ricorda ancora delle nostre antiche pirichinate? Veniamo al dunque... Vi mando il mio monellaccio... hmm... da tenere con guanti di riccio... Che cosa sono qvesti gvanti di riccio? Defe trattarsi d’un proferbio russo... Che cosa significa tenere con gvanti di riccio?», ripeté, rivolgendosi a me.

    «Significa», gli risposi con l’aria più innocente possibile, «trattare dolcemente, non troppo duramente, dare maggior libertà, tenere con guanti di riccio».

    «Hmm, capisco... e non dargli libertà... no, è efidente che gvanti di riccio non significano qvesto... Allego... il suo passaporto... Dof’è mai? Ah, eccolo... informare il Semënovskij... Bene, bene: tutto sarà fatto... Consentirai che io ti abbracci al di fuori dei gradi e... da vecchio compagno e amico... ah! alla fine l’ha capito... eccetera eccetera... Allora, batjuška», disse, una volta letta la lettera e messo da parte il mio passaporto, «tutto sarà fatto: sarai trasferito in qualità di ufficiale al reggimento *** e, affinché tu non perda tempo, va’ domani stesso alla fortezza Belogorskaja, dove sarai agli ordini del capitano Mironov, una buona e onesta persona. Là farai l’autentico servizio militare, imparerai la disciplina. A Orenburg per te non c’è nulla da fare; le distrazioni sono nocive a un giovanotto. E oggi fammi la cortesia di pranzare da me.»

    «Di male in peggio!», pensai tra me e me, «a che cosa mi è mai servito l’esser già sergente della guardia nel ventre materno? Dove mi ha portato questo? Al reggimento *** e in una sperduta fortezza al confine delle steppe kirgizo-kajsackie!...». Pranzai da Andrej Karlovič, eravamo in tre col suo vecchio aiutante di campo. Una rigida economia tedesca regnava alla sua tavola e penso che la paura di vedere di tanto in tanto un ospite in più alla sua mensa di scapolo sia stata in parte causa del mio frettoloso invio alla guarnigione. Il giorno seguente mi congedai dal generale e mi diressi verso il luogo della mia destinazione.

    13 Proverbio russo.

    14 Jaik è l’antica denominazione del fiume Ural. Cfr. Storia di Pugačëv, in particolare il primo capitolo.

    15 Anche in questo caso è d’ausilio il primo capitolo della Storia di Pugačëv.

    16 Nipote di Pietro I, fu imperatrice di Russia dal 1730 al 1740.

    III. La fortezza

    Noi in fortezza viviamo,

    Pane mangiamo e acqua beviamo;

    Ma quando la crudel e ostil coorte

    Verrà da noi per aver torte,

    Imbandiremo per gli ospiti un cenone:

    Caricheremo a mitraglia il cannone.

    CANZONE SOLDATESCA

    Persone all’antica, batjuška.

    IL MINORENNE¹⁷

    La fortezza Belogorskaja era situata a quaranta verste¹⁸ da Orenburg. La strada passava per la riva scoscesa dello Jaik. Il fiume non era ancora gelato, e le sue onde plumbee nereggiavano mestamente fra le uniformi rive, coperte di neve bianca. Dietro di esse si stendevano le steppe kirgize. Sprofondai in riflessioni, per la gran parte tristi. La vita di guarnigione aveva per me scarso fascino. Cercavo di immaginarmi il capitano Mironov, il mio futuro superiore, e me lo figuravo come un vecchio severo, iracondo, ignorante di tutto, eccezion fatta per il suo servizio, e pronto per ogni bagattella a mettermi ai ferri a pane e acqua. Intanto cominciava a imbrunire. Avanzavamo alquanto veloci. «È lontana la fortezza?», chiesi al mio vetturino. «Non è lontana», rispose. «La si vede già». Guardavo da tutte le parti, aspettandomi di scorgere dei bastioni minacciosi, delle torri e un terrapieno; ma non vedevo nulla, all’infuori di un villaggetto cinto da una palizzata. Da un lato stavano tre o quattro cumuli di fieno, mezzo sepolti dalla neve; dall’altro c’era un mulino sbilenco, con le pale di tiglio,

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