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I grandi romanzi d'avventura
I grandi romanzi d'avventura
I grandi romanzi d'avventura
E-book2.981 pagine43 ore

I grandi romanzi d'avventura

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Info su questo ebook

Cooper, L’ultimo dei Mohicani • Verne, Ventimila leghe sotto i mari • Stevenson, La Freccia Nera • Kipling, Capitani coraggiosi • Salgari, Il Corsaro Nero • Conrad, Lord Jim • London, Zanna bianca 

Edizioni integrali

L’avventura è scoperta, esperienza, conquista. È l’esaltazione della sete di conoscenza: il più nobile dei desideri intellettuali in grado di trasformarsi in motore per l’azione. Nei romanzi qui raccolti, divenuti ormai classici, la ricerca di avventure spinge gli uomini ai quattro angoli del globo, dalle esotiche battaglie nei mari tropicali al fondo degli oceani, dalla lotta per la sopravvivenza alla guerra corsara, dalla navigazione piratesca fino alle montagne ricoperte di neve dell’Alaska. L’ultimo dei Mohicani è Uncas, il figlio di Chingachguk, del vecchio capo leale e generoso che guida la sua gente fra le battaglie, gli agguati e le carneficine della guerra coloniale tra francesi e inglesi nei territori selvaggi del Nord America, intorno al 1750. Nel celeberrimo Ventimila leghe sotto i mari, Verne immagina un oggetto misterioso, più grande e più rapido di una balena, solcare gli oceani a fine Ottocento. È un sommergibile, il Nautilus, guidato dall’indimenticabile figura del capitano Nemo. Ci trasporta nell’Inghilterra del XV secolo (durante la Guerra delle Due Rose) il capolavoro di Louis Stevenson La Freccia Nera: il giovane protagonista si unisce alla banda di fuorilegge chiamata la Freccia Nera. Ad animare le sue peripezie sono l’ansia di vendetta e il desiderio di giustizia. I Capitani coraggiosi di Kipling sono i marinai dei pescherecci impegnati nelle stagioni di pesca tra i ghiacci dell’Islanda e i banchi di Terranova, nel tempestoso Atlantico del nord: farà la loro rude conoscenza il giovane naufrago Harvey, issato a bordo della We’re Here. Sul mare si svolge anche l’avventura del conte di Ventimiglia, divenuto Il Corsaro Nero, uno dei personaggi più suggestivi creati dalla fantasia di Salgari: l’uomo che ha promesso di vendicare la propria famiglia annientata da un crudele nemico. Lord Jim è forse l’opera più conosciuta di Conrad e certamente una delle maggiori di tutta la sua vasta produzione: Jim ha perso l’onore anni fa, e da allora ha vagato tra un porto e l’altro dell’Oriente, soffocando il senso di colpa, finché il caso gli fa conquistare una posizione quasi regale in un remoto villaggio del Borneo. Zanna Bianca è il più noto dei libri di London: ripropone tutti i temi cari all’autore, la lotta per la vita, le grandi solitudini del Nord, la legge dura e inflessibile della sopravvivenza che accomuna e lega esseri umani e animali.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2015
ISBN9788854183513
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    Anteprima del libro

    I grandi romanzi d'avventura - AA.VV.

    es

    542

    Titoli originali: The Last of the Mohicans, traduzione di Corrado pavolini;

    Vingt mille lieues sous le mers, traduzione di Bona Alterocca;

    The Black Arrow, traduzione di Mario Manzari;

    Captains Courageous, traduzione di Anna Maria Speckel;

    Lord Jim, traduzione di Nicoletta Zanardi;

    White Fang, traduzione di Gino Scerrato

    Prima edizione ebook: maggio 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8351-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    AA. VV.

    I grandi romanzi d'avventura

    James Fenimore Cooper, L’ultimo dei Mohicani

    Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari

    Robert Louis Stevenson, La Freccia Nera

    Rudyard J. Kipling, Capitani coraggiosi

    Emilio Salgari, Il Corsaro Nero

    Joseph Conrad, Lord Jim

    Jack London, Zanna Bianca

    omino

    Newton Compton editori

    Avvertenza

    Le opere sono presentate in ordine cronologico in base alla data di pubblicazione.

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    L’ultimo dei Mohicani

    Introduzione

    I personaggi del romanzo

    I luoghi del romanzo

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo

    Capitolo ventesimo

    Capitolo ventunesimo

    Capitolo ventiduesimo

    Capitolo ventitreesimo

    Capitolo ventiquattresimo

    Capitolo venticinquesimo

    Capitolo ventiseiesimo

    Capitolo ventisettesimo

    Capitolo ventottesimo

    Capitolo ventinovesimo

    Capitolo trentesimo

    Capitolo trentunesimo

    Capitolo trentaduesimo

    Capitolo trentratreesimo

    Nota biobibliografica di James Fenimore Cooper

    Ventimila leghe sotto i mari

    Introduzione

    I personaggi del romanzo

    Parte prima

    Parte seconda

    Nota biobibliografica di Jules Verne

    La Freccia Nera

    Introduzione

    I personaggi del romanzo

    I luoghi del romanzo

    Prologo. Giovanni Sistematutto

    Libro primo. I due ragazzi

    Libro secondo. La Moat House

    Libro terzo. Lord Foxham

    Libro quarto. Il travestimento

    Libro quinto. Il Gobbo

    Nota biobibliografica di Robert Louis Stevenson

    Capitani coraggiosi

    Introduzione

    I personaggi del romanzo

    I luoghi del romanzo

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Nota biobibliografica di Rudyard J. Kipling

    Il Corsaro Nero

    Un arrembaggio dal lutto alla risata

    Premessa

    I personaggi del romanzo

    1. I filibustieri della Tortue

    2. Una spedizione audace

    3. Il prigioniero

    4. Un duello fra quattro mura

    5. L’appiccato

    6. La situazione dei filibustieri si aggrava

    7. Un duello fra gentiluomini

    8. Una fuga prodigiosa

    9. Un giuramento terribile

    10. A bordo della Folgore

    11. La duchessa fiamminga

    12. La prima fiamma

    13. Fascini misteriosi

    14. Gli uragani delle Antille

    15. La filibusteria

    16. Alla Tortue

    17. La villa del Corsaro Nero

    18. L’odio del Corsaro Nero

    19. L’assalto di Maracaybo

    20. La caccia al governatore di Maracaybo

    21. Nella foresta vergine

    22. La savana tremante

    23. L’assalto del giaguaro

    24. Le disgrazie di Carmaux

    25. Gli antropofaghi della foresta vergine

    26. L’imboscata degli Arawaki

    27. Fra le frecce e gli artigli

    28. I succhiatori di sangue

    29. La fuga del traditore

    30. La caravella spagnuola

    31. L’assalto al cono

    32. Nelle mani di Wan Guld

    33. La promessa d’un gentiluomo castigliano

    34. L’Olonese

    35. La presa di Gibraltar

    36. Il giuramento del Corsaro Nero

    Nota biobibliografica di Emilio Salgari

    Lord Jim

    Conrad: il mare e la colpa

    I luoghi del romanzo

    Nota dell’autore

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo

    Capitolo ventesimo

    Capitolo ventunesimo

    Capitolo ventiduesimo

    Capitolo ventitreesimo

    Capitolo ventiquattresimo

    Capitolo venticinquesimo

    Capitolo ventiseiesimo

    Capitolo ventisettesimo

    Capitolo ventottesimo

    Capitolo ventinovesimo

    Capitolo trentesimo

    Capitolo trentunesimo

    Capitolo trentaduesimo

    Capitolo trentatreesimo

    Capitolo trentaquattresimo

    Capitolo trentacinquesimo

    Capitolo trentaseiesimo

    Capitolo trentasettesimo

    Capitolo trentottesimo

    Capitolo trentanovesimo

    Capitolo quarantesimo

    Capitolo quarantunesimo

    Capitolo quarantaduesimo

    Capitolo quarantatreesimo

    Capitolo quarantaquattresimo

    Capitolo quarantacinquesimo

    Zanna Bianca

    Premessa

    Parte seconda

    Parte terza

    Parte quarta

    Parte quinta

    Nota biobibliografica di Jack London

    L’ultimo dei Mohicani

    di James Fenimore Cooper

    Introduzione di Stanislao Nievo

    Introduzione

    Da quando è nato nell’uomo il desiderio e il piacere del racconto, cioè da sempre, il libro d’avventura è un’attrazione naturale per chi legge, sotto qualsiasi latitudine, in qualunque lingua.

    Nel mondo occidentale per milioni di ragazzi è stato motivo di grande efficacia per un’apertura sull’esistenza in cui stanno entrando.

    Al di là delle fiabe dell’infanzia, il libro d’avventura da Mark Twain a Salgari, da Vamba (autore di Giamburrasca) a Verne ha costituito un’attrattiva, specialmente fra i maschi, in un grande numero di ragazzi. Alcuni di loro lo porteranno con sé nella vita come un breviario personale, da scegliere tra gli autori che per primi ci hanno rivelato il gusto della vita, la sognata e paventata prova del mondo.

    Oggi, alternative televisive hanno in parte fagocitato questa lettura pur mutandola e ampliandola. Ma la forma letteraria rimane la più personale maniera di seguire una storia, quella meno sensuale e accidiosa, fortemente personale perché non si vede la scena ma la si immagina. In un film vengono offerti gli elementi più acustici e visivi, senza nostra partecipazione elaborativa. La grandezza del libro sta nell’offrirci la traccia vasta e articolata di una vicenda, il suo paesaggio e l’ambiente morale, lasciandoci nello stesso tempo la libertà di partecipare e anche ideare personalmente quel che succede, pur indirizzandoci con le parole dell’autore.

    Il film d’avventura non ha questo, è forse più facile, ma certo ci appartiene meno del libro. Qui la presenza del lettore è quella di un «piccolo scrittore parziale», che a fianco all’autore e a volte con personalità diversa rende originale la storia scritta.

    Per tali ragioni il libro d’avventura, rispetto ad altre forme di conoscenza e apprendimento, non finirà, finché noi vorremo esser testimoni personali della vicenda, nel silenzio della lettura e nella pratica possibilità di risalire le pagine e inventarci la nostra partecipazione diretta che soltanto così rende il libro nostro, autentico.

    L’ultimo dei Mohicani, conosciuto e realizzato cinematograficamente anche in tempi recenti, ha tutte queste caratteristiche. Un vero libro d’avventura.

    È una storia che si svolge duecento anni fa, dai risvolti e dalle situazioni fantasiosi, che hanno il pregio di trasformare in elementi attuali vicende di popolazioni, eserciti e coloni stranieri in terre d’emigrazione.

    La vicenda si svolge nell’America settentrionale durante le guerre fra le colonie francesi del Canada e quelle inglesi, attorno al 1750, nella zona che dai monti Allegheny si estende a Nord fino alla baia di Hudson.

    Il libro inizia con la descrizione dei luoghi dove si svolgono le vicende, in una regione di montagne e pianure ricoperte di foreste e corsi d’acqua, percorse da diverse tribù d’indiani. I soldati di un accampamento inglese sono impegnati nei preparativi di partenza in soccorso del comandante d’un fortino inglese, Munro, assalito dall’esercito francese del generale Montcalm. Magua, la scolta indiana degli inglesi, ha portato il messaggio. All’alba, queste truppe si incolonnano inoltrandosi nella foresta. Così inizia la marcia e il libro.

    Intanto l’accampamento non si svuota, restano le famiglie, i civili, fra i quali si nota un gruppo anch’esso in partenza. Il teatro dell’azione è il medesimo. L’avventura si mette in marcia da un solo luogo, incolonnando su sentieri intricati persone con intenzioni diverse, guerriere le prime, pacifiche le seconde. È l’inizio dell’intreccio.

    In un’altra zona della stessa foresta due uomini, un anziano pellerossa e un europeo dalla pelle bruciata dal sole discutono sul diverso modo di leggere la realtà che esiste tra un europeo e un autoctono americano. Sono il vecchio Chingachguk, capo della tribù dei Lenni Lenape il ceppo più antico dei Mohicani – e il giovane ricognitore inglese che fin da bambino è vissuto con la tribù dei Delaware anch’essi Mohicani e che vanta sangue incontaminato. L’indiano mostra nel comportamento e nel linguaggio l’autorevolezza e l’orgoglio del capo tribù, ma dolorosamente presagisce anche la fine del suo popolo. Suo figlio Uncas sarà «L’ultimo dei Mohicani», esclama. Appena ne rivela il nome, il giovane balza davanti a loro con l’agilità d’un cervo.

    La vicenda entra così nel vivo e il titolo del libro diventa vaticinio alla storia, L’ultimo dei Mohicani, di J.F. Cooper.

    James Fenimore Cooper è un romanziere americano nato a Burlington (New Jersey) nel 1789, l’anno della Rivoluzione Francese, e morto nel 1851 a New York, mentre l’aurora delle indipendenze europee trascina il mondo verso la prima grande stagione di libertà del pianeta. Cooper è figlio d’un ricco colono, la sua esistenza è l’espressione letteraria e avventurosa del periodo romantico in cui vive. Per indisciplina viene cacciato dall’università di Yale, si arruola in marina e comincia a viaggiare e scrivere. Scrive trentatré romanzi di varia presa e successo, ma sempre in una miscela di avventure e situazioni melodrammatiche, perché questo è il senso possente che avverte in sé e comunica scrivendo. Centro del suo panorama geografico e sentimentale è la prateria americana, i drammi della foresta e della corsa all’Ovest, la lotta fra civiltà e natura, i diritti dell’uomo e la lotta in un ambiente selvaggio fra sfruttati e oppressori. Cooper ottiene gran successo specialmente con L’ultimo dei Mohicani, pubblicato nel 1826, e con L’uccisore di cervi, nel 1841. Suscita entusiasmi che accompagnano milioni di ragazzi in tanti paesi diversi per più di cento anni, e se anche oggi – passati quasi due secoli – traspare da questi libri un profumo di passato, la fragranza delle pagine di Cooper continua ancor oggi.

    «Il silenzio si protrasse, senza che voce umana venisse ad interromperlo, per molti ansiosi minuti. Poi la moltitudine ondeggiante si aprì, si richiuse e Uncas apparve in piedi nel cerchio vivente.»

    Ecco l’apparizione del protagonista, prigioniero degli indiani amici degli inglesi, e al tempo stesso prigioniero della tribù Delaware, un ramo dei Mohicani.

    Sale il dramma di un uomo prigioniero di due mondi, il suo che vive pienamente nella natura e quello invadente dei nuovi conquistatori, gli inglesi. Ma l’avventura qui tocca l’alba d’un giorno eterno. L’uomo due volte prigioniero si alza tra i suoi carcerieri e li domina con l’autorità del pensiero e dei princìpi, rivelandosi col tono della voce e i segni della stirpe che li soggiogano. Cooper esplode verso l’alto, trascina con la descrizione accurata e pungente del rovesciamento dei valori e con l’uso dell’agnizione il dramma di tanti protagonisti dei libri d’avventura.

    La storia tocca uno dei vertici, quindi la foresta torna padrona e nasconde altre storie, tutte legate. Legato anche il tradimento d’un pellerossa, Magua, che trascina la giovane europea Cora, la quale si sacrifica piuttosto che cedere al traditore.

    «Donna, ripeté Magua con voce rauca, sforzandosi invano di cogliere uno sguardo degli occhi sereni e splendenti di lei; scegli, ti dico.

    Ma Cora non lo udì, né diede ascolto alla sua domanda. La figura dell’Hurone tremava in ogni fibra, mentre alzava in alto il braccio, lasciandolo però ricadere con espressione perplessa, quasi dubbioso. Una volta ancora lottò con se stesso, risollevando l’arma; ma in quel momento si udì dall’alto un grido acuto e Uncas precipitò, saltando follemente giù da un’altezza spaventosa, sull’orlo della roccia. Magua si ritrasse d’un passo...»

    Passioni e odi si scatenano. Nell’anfiteatro romantico e selvaggio la vita corre, si perde, si vendica. È il ritmo, attualissimo, di Cooper.

    Ma altri sentimenti, altri sentieri prende l’avventura. Le armate in lotta, francesi e inglesi, si muovono sulla scacchiera dei loro accampamenti verso la grande partita che si svolge fra tribù e razze, fra antichi americani e nuovi emigrati. Storie di massacri, di duelli mortali, ma anche d’amore.

    Alice, bionda, occhi azzurri, timida e riservata un carattere classico dell’avventura ottocentesca sorellastra di Cora, anch’essa figlia del comandante inglese Munro, diventa protagonista d’una storia sentimentale. È un altro ramo della vicenda avventurosa in cui Cooper lancia i suoi personaggi. Le delicate manifestazioni di tenerezza del giovane maggiore Heyward, scout fidato delle due giovani, si trasformano in eroismo allorché Alice, prigioniera anch’essa, viene condotta nella tribù degli Huroni, alleati con i francesi. Per liberarla, il giovane si insinua nel villaggio indiano recitando la parte di medico dei francesi alleati. Con astuzia l’avvolge in un lenzuolo e aiutato da un amico camuffato da orso, traendo profitto da un’usanza degli Huroni, la porta in salvo.

    È una delle scene pittoresche dell’avventura attraverso le praterie e le foreste che rendono indimenticabile L’ultimo dei Mohicani.

    Ma quello che più rende memorabile questo libro è il grande slancio verso l’ambiente, verso i fiumi e la foresta. Ciò imprime agli eventi, sostenendoli e inquadrandoli, il profondo senso della natura che raggiunge negli indiani per dedizione religiosa e negli europei per smarrimento razionale momenti in cui ogni elemento ha una dimensione assoluta.

    La foresta e i fiumi non possono essere completamente svelati, ma solo percorsi. La foresta è madre del genere umano, attrae, confonde e unisce le varie razze così distanti che convergono, s’incontrano e si scontrano in essa. I fiumi non sono civiltà, ma miniere antichissime e inesauribili del mondo in cui gli uomini trovano acqua, legni, scie e correnti per cui costruire poi la loro civiltà.

    Il libro si apre con un affresco che è un omaggio alla natura dell’America settentrionale, «delle nemiche province appartenenti», allora, «alla Francia e all’Inghilterra». Le nazioni coloniali si battono per il dominio delle terre in cui si svolge la storia. «Una vasta, boscosa e impervia cintura di verde divideva» le aree in questione. Così leggiamo nel primo capitolo, che subito si allarga in descrizione possente alle vie fluide che attraversano queste zone e cioè i fiumi, il lago sacro, con le isole nel mezzo.

    È un’epoca di scontri, il terzo anno dell’ultima guerra coloniale tra europei, mentre le tribù indiane, intrecciate nelle alleanze, si battono e si alleano con gli uni e gli altri.

    C’è un senso di rispettosa considerazione degli indiani da parte di Cooper, lui americano inneggiante alla freddezza e allo spirito d’un ragazzo della Virginia, George Washington, che al tempo degli eventi del libro è ancora giovane, e al tempo della scrittura dello stesso ormai è diventato gloria nazionale. Gli indiani sono chiamati selvaggi, in una visione che considera in modo ottocentesco il confine fra natura e civiltà. Ma già si avverte che la crisi dell’uomo bianco, di fronte all’uomo d’altro continente e razza, sta giungendo alle «rapide» nel fiume della storia, quelle che ci hanno portato oggi alle nuove relazioni interrazziali.

    Foresta, praterie, fiumi, cascate. In mezzo gli uomini tracciano sentieri e costruiscono fortificazioni, si battono, fuggono, torna il verde a vincere, il vento a soffiare indifferente e inarrestabile, fra momenti di calma, incendi e nel soffio del Nord che «si riversava sopra la distesa delle acque con tanta crudeltà e nitidezza da non lasciar nulla che l’occhio o la fantasia potessero congetturare».

    Nel mezzo restano gli effetti provocati dalle lotte degli uomini in armi, «orribili spettacoli che si presentavano di continuo sul cammino verso la riva del lago». I differenti caratteri degli uomini in marcia sono attratti dallo spettacolo drammatico, ma diverso per ognuno. È un libro di lotta, nella natura selvaggia.

    «Il sole s’era nascosto con il suo calore dietro ad una massa impenetrabile di vapori e centinaia di forme umane, abbronzate dalla feroce vampa dell’agosto, stavano irrigidendosi in pose scomposte sotto le raffiche d’un novembre prematuro.»

    Questa è la natura, il suo sdegno di fronte alla ferocia umana. La natura diventa personaggio, come avviene nelle grandi epopee e nelle fiabe, e qui Cooper si rivela scrittore d’ogni tempo.

    Rappresentazioni incisive del paesaggio e caratterizzazioni singolari nei personaggi rendono concrete le scene che si susseguono, sempre rapide, dalla descrizione dell’isola con la caverna in mezzo al fiume, alla ricerca delle tracce lasciate nella foresta dal passaggio di un nemico. Il linguaggio offre la realtà sia attraverso l’occhio occidentale che indiano, variando la narrazione coloritamente nell’accostamento del linguaggio dei pellerossa vicino alla natura, ben diverso da quello delle lingue europee che l’hanno distanziato da tempo. Molti personaggi hanno tre nomi diversi, l’inglese, il francese e l’indiano. Il giovane ricognitore inglese, che accompagna nella sua azione esplorativa l’intero racconto, è chiamato dai francesi La Longue Carabine e dagli indiani Occhio di Falco. È una storia raccontata da un unico scrittore ma dialogata da popoli diversi.

    Il presente del racconto a volte entra nel passato. All’inizio il presente si rende palpabile nella pronuncia del nome Uncas, e l’apparizione del giovane rappresenta anche l’inizio e la fine di qualcosa che va oltre la sua individualità, come pure l’intensità del sentimento che unisce l’anziano Chingachguk e il ricognitore. La loro è solitudine apparente, l’intensità della vita trascorsa insieme rimane parte indelebile, conferendo al libro il carattere dell’avventura.

    Il romanzo ha una forza comunicativa che il tempo conserva nelle tematiche attuali come razzismo e monopolio politico e in quelle di sempre come amicizia, solidarietà e disapprovazione ferma verso ciò che è degradante. L’ultimo dei Mohicani rimane un testo a sfondo naturalmente etico.

    «Una volta dormivamo là dove si udiva il lago salato parlare incollerito. Allora eravamo i padroni e i Sagamori del paese. Ma quando su ogni ruscello fu veduto un viso pallido, seguimmo i cervi fino al fiume della nostra nazione. I Delaware se n’erano andati.»

    È il saluto pieno di nostalgia del vecchio Mohicano che lancia un messaggio fino ad oggi, fino a noi. Ma «Quando il Manitu sarà pronto e dirà: Venite, seguiremo il fiume fino al mare, e riprenderemo quel che è nostro».

    Il tempo dei Mohicani tornerà. Oggi i loro figli vanno incontro ad un avvenire radicalmente diverso. Ma nel fondo del cuore come tanti amerindi superstiti cercano l’antica sorgente perduta. Una sorgente che tante etnie in tanti paesi inseguono nei loro sogni e la nostalgia scuote come un uragano lontano.

    Stanislao Nievo

    I personaggi del romanzo

    I protagonisti

    chingachguk. L’ultimo dei Mohicani, detto anche Sagamoro. «Una solitaria penna d’aquila gli traversava il capo ricadendo sulla spalla sinistra. L’ampio petto, gli arti generosamente modellati e la grave fisionomia del guerriero facevano pensare che egli aveva raggiunto il massimo vigore dei suoi giorni». Austero, leale, ieratico, generoso.

    uncas. Figlio di Chingachguk. Ardente, impaziente, di bellissimi lineamenti. È, al pari del padre, un grande cacciatore e un valorosissimo guerriero.

    leather stocking. (Calze-di-cuoio). Personaggio centrale della saga di Fenimore Cooper a lui dedicata e il cui vero nome è Natty Bumppo, viene indicato in questo romanzo quasi sempre col soprannome di occhio di falco. Questa varietà di nomi sottolinea il fatto che ogni tribù di indiani possedeva una propria lingua e perciò le medesime persone e i medesimi luoghi avevano molto spesso appellativi diversi. Occhio di Falco ha una persona «più asciutta che piena, con muscoli induriti da una continua esposizione alle intemperie». I francesi lo chiamano la longue carabine.

    alice munro. Fragile solo in apparenza, la bellissima fanciulla (capigliatura dorata e lucenti occhi azzurri) è un vero personaggio romantico: tenero e appassionato nello stesso tempo.

    cora munro. Aspetto e carattere completamente diversi ha invece la sua compagna di avventure: «trecce lucide e nere come le piume di un corvo, carnagione carica del suo sangue ricco, quasi pronto a sprizzare...». E un coraggio leonino, una forza di volontà straordinaria senza nulla perdere della sua ardente femminilità.

    duncan heyward. Prototipo dell’ufficiale britannico: ligio ai compiti assegnatigli, cavalleresco, leale. Ha una «aperta ammirazione» per Cora ed è incapace di qualsiasi sotterfugio: prende la vita frontalmente, pronto a vincere o a soccombere per la difesa delle proprie idee e dei propri compiti.

    magua. È detto anche Le Renard, Le Subtil e in vari altri modi. È il più perfido tra tutti i perfidi indiani che affollano i romanzi del West: subdolo, forte, agile, imprevedibile come un serpente velenoso.

    Gli inglesi

    john g. webb. Generale, comandante le armate inglesi nelle province settentrionali del Nord America.

    george h. munro. Tenente colonnello, comandante il Forte William Henry. Dopo la capitolazione del forte venne promosso colonnello in premio della sua valorosa difesa, ma morì il mese dopo (febbraio 1758) di crepacuore ad Albany, ove si era ritirato. Aveva già «tutti i capelli grigi, il volto rugoso», ma conservava un rigido portamento marziale. È padre amorevole e affettuoso.

    david gamut. Maestro di canto. Fedele, astuto, tenace, ma anche estremamente sensibile: quando Occhio di Falco si felicita per la sua salvezza, non sa trattenere le lagrime; costituisce la parentesi di blanda comicità necessaria tra tanta ostentata ferocia.

    Il francese

    charles montcalm. Generale. Cinico, pragmatico; sotto la parrucca incipriata pensa solo agli interessi propri e del suo paese, senza eccessive preoccupazioni umanitarie.

    È, insomma, il degno alleato di Magua.

    I pellerossa

    ammazzacervi. Ragazzo gonfio d’orgoglio e abbastanza astuto, aiuta Occhio di Falco in un frangente quasi disperato, riuscendo a recuperare due preziosi fucili.

    tamenund. Patriarca della tribù dei Delaware. Giusto e saggio, è forse in diretta comunicazione con il Grande Spirito. «Il colore della sua pelle differiva da quello della maggior parte di coloro che lo circondavano, più forte e più scuro qual era: tinta prodotta dai contorni delicati e serpeggianti di figure complicate eppur splendide, tatuate su quasi tutta la sua persona.»

    l’oratore dei delaware. È l’oratore più stimato della tribù, parlando tutte le lingue in uso tra gli aborigeni del Nord America. È un fine diplomatico, capace di «chinare con gravità la testa in acquiescenza a dichiarazioni di cui conosce benissimo la falsità.»

    cuor duro o le coeur dur. Capo dei Delaware. Altezzoso, superbo, ma anche credulone, si lascia facilmente irretire dalle asserzioni dell’astuto Magua. Solo lo stupore lo fa talvolta uscire dalla consueta apatia della sua razza.

    staffette e messaggeri e guide indiane. Attenzione! Il tradimento è quasi sempre celato nei loro cuori e nelle loro intenzioni.

    1m

    Il generale Charles marchese di Montcalm.

    2m

    Borsa indiana ricamata con aculei di porcospino.

    I luoghi del romanzo

    forte willlam henry. Costruito nel 1757, venne chiamato in un primo tempo dai geografi francesi Forte George, dal nome del vicino lago.

    forte george. Attiguo al precedente, fu costruito due anni dopo dal generale Amherts. Occupava gli stessi spazi dell’antico insediamento del campo trincerato ideato dall’allora maggiore Munro.

    forte edward. Costruito durante il regno di George ii, è stato chiamato così dal nome del figlio minore del Principe di Galles. Era il più vulnerabile agli attacchi degli indiani, Huroni e Wapanachki (altro nome dei Lenni Lenape).

    casematte del rio wood. Erano piccole fortezze costruite alle frontiere settentrionali della colonia di New York, quali difese contro indiani e francesi. Il generale Montcalm ne espugnò alcune sul Lago Champlain e sulle rive dell’Hudson superiore.

    hudson. Fiume che nasce dai monti Adirondacks e sfocia nella baia di New York. Era la più importante via di comunicazione per raggiungere i Grandi Laghi.

    mohawk. Fiume, affluente di destra dell’Hudson. Era completamente navigabile all’epoca in cui si svolge il romanzo di Fenimore Cooper.

    grandi laghi. I Great Lakes sono i cinque maggiori dell’America settentrionale. Sono di origine glaciale e intercomunicanti per mezzo di canali, al confine tra gli Stati Uniti e il Canada. Non si trovano tutti al medesimo livello, ma su diversi piani separati da varie rapide e cascate. I loro nomi sono: Superiore, Huron, Michigan, Erie e Ontario. L’azione del romanzo si svolge a ridosso dei primi due.

    schroon (o scaroon secondo la dizione dell’Autore). Fiume, affluente di sinistra dell’Hudson, che scorre attraverso una valle punteggiata da laghetti e dagli stagni dell’altopiano, mentre alte montagne ne delimitano il corso da ogni lato.

    Le scene conclusive del romanzo avvengono appunto in prossimità d’uno di questi laghetti, che Fenimore Cooper chiama Scaroon.

    ballstone, sorgenti. Nello stesso luogo sorge ora la cittadina di Bellston, la maggiore stazione termale americana. «In quella remota vallata c’era una fonte gorgogliante, circondata da un terreno di colore marrone, cupo e opaco. [...] Quest’acqua piace ai pellerossa, soprattutto quando il loro corpo è ammalato.»

    glenn, cascate. Si trovano sull’Hudson a quaranta miglia al disopra del punto di inizio della marea, là dove il fiume diventa navigabile anche per le corvette. «Un braccio del fiume scorre lungo un precipizio stretto e profondo, che la corrente aveva scavato direttamente nella roccia.»

    castello degli oneida. In realtà si tratta d’un villaggio con poche case e capanne sparpagliate, ma il termine «castello» indica anche oggi per i bianchi la sede d’un raggruppamento di indiani.

    3m

    Forte William Henry e la disposizione dei combattenti.

    4m

    La via d'acqua da Montreal ad Albany durante il XVIII secolo.

    5m

    Un forte nella zona di frontiera.

    6m

    Abito femminile di pelle, prima metà del XIX secolo.

    Capitolo primo

    L’orecchio è aperto e il cuore preparato:

    Il peggio che annunziarmi puoi non è

    Che una terrena sconfitta: orsù, dimmi:

    È perduto il mio regno?

    shakespeare, Riccardo ii

    Caratteristica delle guerre coloniali nell’America settentrionale era che bisognasse muovere incontro alle fatiche e ai pericoli di quelle selvagge contrade, ancor prima che i contrapposti eserciti giungessero a fronteggiarsi. Una vasta, boscosa ed impervia cintura di verde divideva le nemiche province appartenenti alla Francia e all’Inghilterra. Il robusto colono, e l’addestrato europeo che gli combatteva al fianco, dedicavano mesi interi a lottare contro le rapide dei fiumi, o a superare gli impervi passi montani prima d’imbattersi in una qualche occasione di far mostra del proprio coraggio in più marziali conflitti.

    Tuttavia, emulando la pazienza e lo spirito di sacrificio dei bravi guerrieri indigeni, imparavano a vincere ogni difficoltà; e si sarebbe detto che, con l’andar del tempo, non vi fosse più recesso della foresta così oscuro, o luogo appartato così solingo da poter sottrarsi alle scorrerie di quanti avevano fatto voto di sangue pur di esercitare la propria vendetta, o pur di sostenere nel suo freddo egoismo la politica dei lontani monarchi europei.

    Forse nessun’altra zona, in tutta la vasta estensione dei territori intermedi, potrebbe fornire un più vivido quadro della crudeltà e ferocia con cui i selvaggi conducevano allora la guerra, di quella che giace tra gli affluenti superiori dello Hudson e i laghi adiacenti.

    Le agevolazioni offerte in quei luoghi dalla natura alla marcia dei combattenti, erano di tanta evidenza da non poter essere trascurate.

    Il lungo specchio del Champlain, che partendo dalle frontiere del Canada s’insinuava molto addentro ai confini della prossima provincia di New York, veniva a formar così un passaggio naturale la cui lunghezza abbreviava della metà il cammino che i francesi erano costretti a superare per poter colpire i nemici. Verso la sua estremità meridionale esso riceveva il tributo d’un altro lago, le cui acque erano limpide al punto che i missionari gesuiti le avevan proclamate le sole degne di servire alla tipica purificazione del battesimo: sì che il lago ne ebbe la gloria di chiamarsi «du Saint Sacrement». Non altrettanto devoti, gli inglesi pensarono invece di conferir bastevole onore alle sue fonti immacolate con l’attribuirgli il nome del loro principe regnante, il secondo della Casa di Hannover. Per tal via i due popoli si erano uniti nel defraudar gli ignoranti possessori di quel selvoso paesaggio del loro diritto di perpetuare l’appellativo originale di «Horican»¹.

    Aprendosi un cammino tortuoso tra innumerevoli isole, e racchiuso com’era tra i monti, il «lago sacro» si estendeva di un’altra dozzina di miglia verso sud. Insieme all’altopiano che qui ostacolava il passaggio delle acque, aveva inizio un tratto d’altrettante miglia, che portava il viaggiatore fino alle rive dello Hudson, in un punto dove – con le consuete ostruzioni delle rapide, o rifts come venivano chiamate nel linguaggio locale – il fiume, a seconda della marea, si faceva navigabile.

    Se, a perseguire i suoi ardimentosi piani di disturbo, la temeraria impresa dei francesi s’ingegnava di superare persino le remote e difficili gole dell’Alleghany, è facile immaginarsi che la sottigliezza proverbiale di quel popolo non avrebbe trascurato i vantaggi derivanti dalla natura del territorio che abbiamo testé descritto. Esso divenne, e nella più terribile guisa, l’arena sanguinosa sulla quale pressoché tutte le battaglie per la conquista di quelle colonie furono combattute. Fortificazioni vennero innalzate in alcuni punti dominanti i tratti migliori di quella strada, ed esse furono prese e riprese, rase al suolo e ricostruite, secondo che la vittoria si posasse sull’una o sull’altra delle opposte bandiere. Mentre il contadino si teneva lontano da quei pericolosi passaggi, restando entro i confini meglio sicuri delle antiche colonie, gli eserciti – più numerosi di quelli che in patria avevano spesso deciso le sorti della Corona – si scorgevano seppellirsi in quelle foreste, donde di rado facevan ritorno se non ridotti a bande di scheletri spettrali all’aspetto per le fatiche sostenute, o abbattuti dalla sconfitta. Sebbene le arti della pace fossero ignote in quella fatale regione, le sue foreste brulicavano di uomini; le sue ombre e le sue radure rimandavano le risate, o ripetevano le lascive esclamazioni di molti giovani brillanti e temerari, che trovatisi a passare da quelle parti nel meriggio della loro allegria, andavano poi a tuffarsi in una lunga notte d’oblio.

    Fu in codesto scenario di lotte intrise di sangue che si svolsero gli avvenimenti che cercheremo di narrare, mentre era in corso il terzo anno dell’ultima guerra combattuta tra Inghilterra e Francia per il possesso d’un paese che nessuna delle due era destinata a conservare.

    L’inettitudine dei capi militari in quelle terre straniere, e la fatale mancanza d’energia dei governanti in patria, avevan fatto scadere l’immagine della Gran Bretagna dall’orgogliosa altezza dove l’avevan posta i talenti e le imprese dei suoi guerrieri e statisti d’un tempo. Non più temuta dai suoi nemici, quanti le erano servi andavano rapidamente perdendo quella fiducia che il rispetto in sé usa suscitare. In sì mortificante avvilimento, i coloni, benché incolpevoli delle balordaggini della loro patria d’origine, e troppo umili per poter esser chiamati responsabili di quegli errori, non ne erano che i naturali partecipi.

    Da poco essi avevano veduto un’armata scelta, proveniente dalla nazione che – nutrendo verso di essa un rispetto filiale, avevano ciecamente creduto invincibile –, un esercito, dicevamo, guidato da un capo eletto per le sue rare doti militari da una folla di guerrieri ben addestrati, venir sconfitto vergognosamente da un pugno di francesi e d’indiani, e salvato dal totale annichilimento soltanto grazie alla freddezza e allo spirito d’un ragazzo della Virginia, la cui fama in seguito si è diffusa, quasi riverberasse l’influsso ostinato della sua onestà morale, sino agli estremi confini della cristianità². Un vasto territorio si era trovato devastato da quel disastro inopinabile, e mali anche più sostanziosi furono preceduti da pericoli bizzarri o immaginari. Pareva ai coloni allarmati che le grida dei selvaggi si mescolassero con ogni raffica capricciosa del vento, che impetuosa scaturiva dalle sterminate foreste del West. La natura terrificante dei loro spietati nemici accresceva a dismisura gli orrori naturali della guerra. Innumerevoli massacri recenti erano tuttora vividi nel ricordo; né c’era nelle varie province orecchio tanto sordo da non aver accolto il racconto di qualche storia spaventosa di assassinii notturni, dei quali attori principali erano i barbarici indigeni della foresta. Mentre il credulo, eccitato viaggiatore andava narrando le perigliose vicende di quei luoghi selvaggi, il sangue dei più timidi si raggelava nel terrore, e le madri lanciavano occhiate ansiose ai loro fanciulli, anche se questi riposavano tranquilli nella sicurezza delle grandi città. In breve, l’influsso della paura che ingigantisce i pericoli tendeva ad annientare i calcoli della ragione, e a rendere schiavi della più vile delle passioni quanti non avrebbero dovuto dimenticare la salda difesa della propria virilità. Anche i cuori meglio fiduciosi e intrepidi incominciarono a credere che il risultato della contesa andasse facendosi incerto; e d’ora in ora cresceva l’abietto numero di quanti prevedevano che, presto o tardi, tutti i possessi della Corona inglese in America sarebbero rimasti soggiogati dai cristiani suoi nemici o devastati dalle scorrerie dei loro spietati alleati.

    Quando perciò, nel forte che dominava l’estremità meridionale del lembo di terra posto tra lo Hudson e i laghi, giunse notizia che Montcalm era stato veduto avanzare lungo il Champlain con un esercito «numeroso come le foglie degli alberi», la veridicità del fatto venne accolta con la riluttanza trepida della paura, più che con la rude gioia che ogni guerriero dovrebbe provare scorgendo un nemico alla portata dei suoi colpi. Quella notizia era stata riferita, verso il tramonto d’una giornata di piena estate, da una staffetta indiana, latrice altresì dell’urgente richiesta di Munro – comandante d’una piazza fortificata sita sulla sponda del «lago sacro» – di rinforzi rapidi e poderosi. Abbiamo già accennato che la distanza tra i due forti non raggiungeva le cinque leghe. Il rozzo sentiero, che in origine aveva costituito la loro linea di comunicazione, era stato allargato per consentire un passaggio ai carriaggi; cosicché la distanza che il figlio della foresta superava in due ore, poteva facilmente essere percorsa da un distaccamento di truppe, col relativo bagaglio, tra il sorgere e il tramontare del sole estivo. I leali servitori della Corona britannica avevano assegnato ad uno di tali fortilizi il nome di William Henry e all’altro quello di Edward in onore del principe, appartenente alla famiglia reale, più caro al cuore di ciascuno. Il veterano scozzese di cui abbiamo già fatto cenno comandava il primo, con un reggimento di truppe regolari e pochi militi locali; forza davvero di gran lunga troppo modesta per affrontare la formidabile potenza che Montcalm stava conducendo ai piedi dei suoi terrapieni. Nel secondo si trovava però il generale Webb, comandante delle armate del re nelle province settentrionali, con un corpo di più che cinquemila uomini. Riunendo inoltre i vari distaccamenti ai suoi ordini, quell’ufficiale avrebbe potuto raggiungere quasi il doppio di questo blocco di combattenti contro l’intraprendente francese, il quale s’era avventurato tanto lontano dai propri rinforzi, con un esercito solo di poco numericamente superiore.

    Tuttavia, scoraggiati dalla loro avversa fortuna, sia gli ufficiali che i soldati apparivano più disposti ad attendere l’avvicinarsi di quel formidabile antagonista fin dentro ai loro fortilizi piuttosto che ad interromperne l’avanzata (emulando l’esempio fortunato dei francesi al Fort du Quesne) e a sferrare un colpo contro le sue truppe in marcia.

    Allorché la prima sorpresa provocata dalla notizia si fu un poco placata, per tutto il campo trincerato – estendentesi lungo la riva dello Hudson a formare una catena di difese avanzate attorno al corpo del forte medesimo – si sparse la voce che un distaccamento scelto di millecinquecento uomini sarebbe dovuto partire all’alba per il Forte William Henry, posto all’estremità settentrionale del territorio che divideva il fiume dai laghi. Quella che sulle prime non era che una voce divenne ben presto certezza, al momento in cui fu impartito, dai quartieri del comandante in capo ai vari corpi destinati per quell’incarico, l’ordine di prepararsi ad una rapida partenza. Allora ogni dubbio sulle intenzioni di Webb scomparve, per dar luogo, durante un paio d’ore, a passi affrettati e a volti ansiosi. Il militare novellino correva di qua e di là, intralciando i propri preparativi con l’eccesso medesimo d’uno zelo violento e febbrile; mentre il veterano navigato si dedicava alle necessarie sistemazioni con una decisione che escludeva ogni apparenza di fretta; sebbene i lineamenti severi e l’occhio ansioso rivelassero a sufficienza com’egli non provasse un troppo grande entusiasmo professionale per una guerra ancor nuova e temuta in quelle selvagge contrade. Alla fine il sole tramontò in un mare di fulgore dietro ai lontani monti occidentali; e mentre l’oscurità stendeva il suo velo attorno a quel luogo solitario, il chiasso dei preparativi venne attenuandosi; l’ultima luce scomparve nelle capanne di legno degli ufficiali; gli alberi proiettarono ombre sempre più cupe sui terrapieni e sul fiume gorgogliante, e ben presto il campo tutto cadde preda d’un silenzio non meno profondo di quello che regnava nella vasta foresta circostante.

    Secondo gli ordini impartiti la sera precedente, il sonno dell’esercito fu rotto dal rullo dei tamburi che diffondevano il segnale, e i cui rotolanti echi parvero uscire, nell’aria umida del mattino, da ogni varco dei boschi, mentre il giorno incominciava appena a stampare l’esile contorno di qualche alto pino, sulla incipiente luminosità d’un cielo d’oriente morbido e senza nuvole. In un attimo, l’intero campo fu in movimento, mentre anche il più umile soldato si staccava dal giaciglio per assistere alla partenza dei compagni e condividere l’eccitamento e gli incidenti di quell’ora. L’allineamento della squadra prescelta, semplice com’era, fu presto condotto a termine. La truppa reale, regolare e addestrata, si disponeva fieramente sulla destra della linea, e i coloni prendevano posizione, meno pretenziosamente, sulla sinistra, con una docilità agevolata dalla lunga pratica. Le avanscoperte partirono; robuste guardie precedettero e seguirono i pesanti veicoli che recavano i bagagli; e prima che la grigia luce del mattino si trovasse addolcita dai raggi del sole, il corpo principale dei combattenti, postosi in colonna, lasciava l’accampamento, con uno sfoggio di elevato portamento militare che bastò a soffocare le apprensioni di più d’un novizio in procinto di far le sue prime prove con le armi, mentre ancora in vista degli ammirati compagni, quel fronte orgoglioso, quell’ordinato allineamento, suscitavano l’attenzione: finché le note dei pifferi, fatte sempre più fioche dalla lontananza, parvero aiutar la foresta ad inghiottire quella massa vivente che lentamente le era penetrata in cuore.

    I rumori più alti della colonna, invisibile nel suo ritrarsi, avevano ormai cessato d’essere trasportati dalla brezza fino agli ascoltatori, e l’ultimo ritardatario era già scomparso all’inseguimento dei commilitoni; ma tuttavia sussistevano i segni di un’altra partenza, in una capanna di tronchi d’insolite dimensioni e comodità, dinanzi alla quale andavano su e giù le sentinelle che formavan la guardia personale del generale inglese. Ivi era adunata una mezza dozzina di cavalli, equipaggiati in maniera che due almeno di essi dovevano esser destinati a trasportare persone di sesso femminile, e d’un rango che solitamente non s’incontra tanto addentro nei selvaggi territori del paese. Un terzo cavallo portava monture e armi d’un ufficiale del comando; mentre gli altri, per la semplicità dei finimenti e pei sacchi da viaggio ond’erano carichi, si preparavano evidentemente a ricevere altrettanti sottoposti, già pronti a soddisfare coloro che servivano. A rispettosa distanza dall’insolito spettacolo stavano raccolti diversi gruppi d’oziosi pieni di curiosità, parte dei quali ammiravano il sangue e la struttura dell’ardente destriero militare, mentre altri osservavano tutti quei preparativi con l’ottusa meraviglia della curiosità volgare. C’era un uomo tuttavia che, con la fisionomia e gli atti, formava una spiccata eccezione in mezzo a quanti componevano il gruppo degli spettatori, non essendo egli né ozioso né ignorante all’apparenza.

    Nell’aspetto codesta creatura era estremamente goffa, pur senza essere in alcun modo deforme. Aveva ossa e giunture come la maggior parte degli uomini, gli difettavano però le proporzioni consuete. All’impiedi, la sua statura superava quella dei compagni; mentre, seduto, appariva inferiore alle normali misure della razza umana. Eguale contraddizione a quella delle sue membra sembrava sussistere in tutto quanto l’individuo. La testa era grossa, strette le spalle, lunghe le braccia a ciondoloni, mentre le mani eran piccole, benché non delicate. Gambe e cosce eran magre, quasi scarnite, ma di lunghezza eccezionale; e le ginocchia si sarebbero dette da gigante, non le avessero superate basi ancor più larghe su cui, in maniera tanto stonata, si ergeva una soprastruttura così contraddittoria nei suoi elementi. L’abbigliamento poi, spaiato e assurdo, serviva soltanto a rendere più evidente la sua goffaggine. Una giacca celeste, con brevi e larghe falde, e una corta mantella, esponevano un collo lungo e magro, e gambe ancor più lunghe e più magre, alle feroci critiche dei male intenzionati. La parte inferiore dell’abito era di tela gialla, aderente alla persona, e legata alle ginocchia nodose da grandi fiocchi di nastro bianco, che l’uso aveva insudiciato un bel po’. Calze di cotone tutte maculate, e scarpe (ad una delle quali si attaccava uno sprone di metallo), completavano la zona inferiore dell’abbigliamento di questa bizzarra figura, nessuna curva o spigolo della quale restava nascosto, ma era anzi accuratamente esibito dalla vanità o dall’ingenuità del possessore. Da sotto la patta d’uno sporco panciotto di seta imbottita, profusamente adorno di merletto d’argento ormai opaco, si affacciava uno strumento che, in un ambiente così marziale, si sarebbe potuto facilmente scambiare per qualche ignoto e pericoloso attrezzo di guerra. Benché piccolo, l’insolito oggetto aveva eccitato curiosità in quasi tutti gli europei dell’accampamento, sebbene parecchi nativi fossero stati visti a maneggiarlo senza paura non solo, ma con la massima familiarità. Un grande tricorno civile, come quelli usati dal clero negli ultimi trent’anni, sormontava l’assieme, conferendo dignità a una fisionomia bonaria e alquanto vacua, che sembrava reclamare un aiuto del genere per sostener la gravità d’un qualche impegno elevato e straordinario.

    Mentre il gregge comune si teneva a rispettosa distanza dall’alloggio di Webb, l’uomo che abbiamo testé descritto si avvicinò a grandi passi al gruppo dei domestici, esprimendo ora libere critiche, ora lodi sui meriti dei singoli cavalli, a seconda che soddisfacessero o meno il suo giudizio.

    «Questa bestia, amico, concluderei che non è stata allevata qui, ma che viene da paesi stranieri, o forse proprio dalla nostra isoletta al di là del mare», disse con voce rimarchevole, per dolcezza e morbidezza di tono, almeno quanto la sua stessa persona per la stranezza delle proporzioni. «Posso parlarne senza vanterie, essendo stato in entrambi i porti: quello che è situato alla bocca del Tamigi, e che si chiama come la capitale della Vecchia Inghilterra, e quello che ha nome Haven con l’aggiunta della parola New. Ho anche veduto vascelli e brigantini raccogliere i branchi, come all’imbarco dell’arca, per salpare verso l’isola della Giamaica onde barattare e trafficare in quadrupedi; mai però prima d’ora avevo veduto una bestia che come questa corrispondesse all’autentico cavallo da battaglia delle Scritture: Esso scalpita nella valle e gioisce della propria forza nel muovere contro gli armati. Nitrisce fra le trombe: ah, ah! e fiuta da lungi la battaglia, il tuonare dei capitani e le grida. Si direbbe che la razza del cavallo d’Israele sia giunta fino ai nostri giorni; non ti pare, amico?»

    Ma non ricevendo risposta a così straordinaria domanda (che davvero, espressa com’ era con vigore di toni pieni e sonori, avrebbe meritato una qualche attenzione) colui che in tal modo aveva declamato il linguaggio del sacro libro, si volse verso la silenziosa figura cui storditamente si era rivolto, incontrando però un nuovo e più potente tema d’ammirazione in un oggetto che venne a colpirgli lo sguardo. I suoi occhi si arrestarono infatti sulla sagoma immobile, eretta e rigida, della «staffetta indiana» che aveva portato all’accampamento le sgradite notizie della sera avanti. Pur trovandosi in uno stato di assoluto riposo, e quasi indifferente, nel suo tipico stoicismo, all’eccitata agitazione che lo circondava, una cupa fierezza si mischiava in quel selvaggio alla calma, così da colpir l’attenzione di occhi anche più sperimentati di quelli che in quel momento lo studiavano col mal celato stupore. L’indigeno portava indosso sia il tomahawk che il coltello della sua tribù; eppure il suo aspetto non era quello d’un guerriero. Anzi, v’era nella sua persona una cert’aria di trascuratezza, pari a quella che avrebbero potuto procurargli grandi e recenti fatiche ch’egli non avesse avuto ancora il tempo di smaltire. I colori della guerra s’erano mescolati in tenebrosa confusione sul suo volto fiero, rendendo le sue scure fattezze ancor più selvagge e repulsive che se l’arte avesse voluto raggiungere quell’effetto prodotto dal caso. Gli occhi soltanto, scintillando come stelle roventi tra nuvole basse, apparivano in tutta la loro selvaggia ferocia. Per appena un attimo quel suo sguardo scrutatore, eppur prudente, s’incontrò con quello vagante dell’altro, ma subito, un po’ per astuzia un po’ per disprezzo, mutando direzione, s’immobilizzò quasi contemplasse lontani orizzonti.

    Una così breve e silenziosa comunicazione fra due uomini tanto singolari è arduo dire quali inattese parole avrebbe potuto ispirare al bianco, se la sua curiosità sempre sveglia non fosse stata di nuovo richiamata su altri oggetti. Un diffuso movimento tra i domestici, e il moderato suono di dolci voci, annunciò l’approssimarsi di coloro la cui sola presenza mancava per consentire alla cavalcata di muoversi. L’ingenuo ammiratore del cavallo di guerra immediatamente si ritrasse per avvicinarsi a una piccola, scheletrita giumenta dalla lunga coda, che distrattamente brucava nei pressi l’erba scolorita del campo, e qui, appoggiando un gomito sulla coperta che nascondeva una parvenza di sella, si fece spettatore della partenza, mentre un puledro consumava placido la colazione mattutina dalla parte opposta.

    Un giovane, in divisa d’ufficiale, accompagnò fino ai cavalli due donne che, a quanto si poteva arguire dall’abito, si preparavano ad affrontare le fatiche d’un viaggio attraverso il bosco. Una di esse – la più giovane all’aspetto, benché giovani fossero entrambe – permetteva di cogliere rapide visioni della sua carnagione abbagliante, d’una capigliatura dorata e di lucenti occhi azzurri, mentre lasciava che l’aria mattutina sollevasse il velo verde che dal suo feltro discendeva molto in basso. Il rossore d’occidente che ancora s’attardava sopra i pini non era più luminoso o delicato del rosato delle sue guance; né la giornata che s’iniziava era più allietante del vivace sorriso che costei rivolse al giovane, mentre questi l’aiutava a montare in sella. L’altra donna, che sembrava ugualmente condividere le attenzioni dell’ufficiale, nascondeva le proprie bellezze alla vista dei soldati con una cura che si sarebbe detta meglio confacente a una più adulta esperienza. Si poteva tuttavia rendersi conto che la sua figura, benché plasmata con le medesime squisite proporzioni dell’altra (proporzioni di cui non una grazia veniva celata dall’abito da viaggio ch’ella indossava), era un poco più piena e più matura di quella della compagna.

    Non appena le due donne furono in sella, il loro accompagnatore balzò con leggerezza sul cavallo da battaglia, e tutti e tre s’inchinarono verso Webb, il quale cortesemente era in attesa della loro partenza sulla soglia della capanna; poi, facendo mutar direzione ai loro cavalli, essi si avviarono con la scorta, seguendo un lento ambio, verso l’ingresso settentrionale dell’accampamento. Nel percorrere quel breve tratto non scambiarono tra di loro una sola parola; ma una lieve interiezione sfuggì alla più giovane delle due donne, allorché la staffetta indiana le scivolò inaspettatamente vicino, ponendosi dinanzi a lei sulla strada militare. Sebbene quel movimento improvviso e conturbante dell’indiano non strappasse la minima esclamazione all’altra donna, pure la sorpresa fece sì che anche il velo di lei si socchiudesse, rivelando uno sguardo colmo d’indescrivibile pietà, di ammirazione e di orrore, mentre i suoi occhi scuri seguivano le agili movenze del selvaggio. Le trecce di codesta signora erano lucide e nere come le piume di un corvo. La carnagione di lei non era abbronzata, ma sembrava piuttosto carica del suo sangue ricco, quasi pronto a sprizzare. Tuttavia non v’era né rozzezza né mancanza di sfumature in quella fisionomia squisitamente regolare, dignitosa e immensamente bella. Ella sorrise, quasi per compatir la propria distrazione momentanea, e mostrò nel sorriso una fila di denti di tal candore da disgradarne il più puro avorio; poi, riassettando il velo, la giovane curvato il volto, cavalcò via in silenzio, quasi che i suoi pensieri fossero lontani dalla scena circostante.

    1 Dato che ogni tribù degli indiani possedeva una propria lingua o un proprio dialetto, così accadeva di solito ch’essi assegnassero più nomi ai medesimi luoghi, benché quasi tutti quegli appellativi si limitassero a descriverne le caratteristiche. Difatti una definizione letterale di questo bellissimo specchio d’acqua, in uso presso la tribù che ne abitava le rive, sarebbe: «la coda del lago». Il Lago George – com’è chiamato volgarmente oggi; anzi, legalmente – forma infatti, a guardarlo sulla carta geografica, una sorta di coda al Lago Champlain. Di qui il suo nome.

    2 George Washington: il quale, dopo aver ammonito invano il generale europeo del pericolo in cui stava sventatamente precipitandosi, salvò in quell’occasione i resti dell’esercito britannico con la sua decisione e il suo coraggio. La fama da Washington conquistata in quella battaglia fu il principale motivo dell’esser egli stato scelto più tardi a comandare gli eserciti americani. È degna di nota la circostanza che, mentre l’America intera risuonava della sua fama ben meritata, il nome di lui non figura in nessun resoconto europeo della battaglia; quanto meno l’A. ne ha fatto invano ricerca. Così la madre patria, con un tal sistema di dominio, si appropria persino della rinomanza dei sudditi.

    Capitolo secondo

    Sola, sola: ohimè, ah, sola!

    shakespeare, Il Mercante di Venezia

    Mentre una delle belle creature che abbiamo tanto rapidamente presentato al lettore si smarriva così nei propri pensieri, l’altra, ripresasi tosto dalla paura che le aveva strappato un’esclamazione, domandò, ridendo della propria debolezza, al giovane che le cavalcava a fianco:

    «Sono frequenti nelle foreste fantasmi come quello, Heyward? oppure è questo uno spettacolo appositamente ordinato per nostro divago? Se quest’ultima ipotesi è giusta, la gratitudine deve farci chiudere la bocca; ma se è giusta la prima, Cora e io avremmo bisogno di attingere abbondantemente da quella ricca scorta di coraggio ereditario di cui ci vantiamo, ancor prima di doverci incontrare col formidabile Montcalm».

    «Quell’indiano è una staffetta dell’esercito; e, a giudicar dai costumi del suo popolo, può esser considerato un eroe», rispose l’ufficiale. «Si è offerto di condurci al lago, lungo un sentiero mal noto, più rapidamente che se avessimo seguito i lenti movimenti della colonna; e, di conseguenza, più gradevolmente.»

    «Non mi va a genio», fece la fanciulla rabbrividendo, con un terrore parte finto parte autentico. «Voi lo conoscete certamente bene, Duncan, altrimenti non vi affidereste con tanta sicurezza nelle sue mani.»

    «Dite piuttosto Alice, che non gli affiderei voi due. Lo conosco infatti, altrimenti non godrebbe della mia fiducia, e men che mai in questo caso. Si dice che sia canadese; e tuttavia ha militato con i nostri amici Mohawk, i quali, come sapete, appartengono ad una delle Sei Nazioni alleate³. Lo ha condotto fra noi, a quanto ho sentito dire, un avvenimento cui vostro padre ha partecipato, e nel corso del quale quel selvaggio fu trattato con severità... ma non ricordo più bene questa storia, che era di scarso interesse; basti sapere che adesso egli è nostro amico.»

    «Se è stato nemico di mio padre, mi piace sempre meno!», esclamò la fanciulla ormai in preda all’ansia. «Volete rivolgergli la parola, maggiore Heyward, affinché io possa udirne la voce? Per sciocco che ciò possa sembrare, mi avete più volte sentito confermar la mia fede nei toni della voce umana!»

    «Sarebbe inutile; inquantoché la risposta, è più che probabile, si limiterebbe ad un’interiezione. Sebbene forse comprenda l’inglese, egli simula, come la maggior parte del suo popolo, d’ignorarlo; e men che mai accondiscenderà a parlarlo adesso, mentre la guerra pretende da lui il massimo sfoggio della sua dignità. Ma ecco che si arresta; il sentiero nascosto lungo il quale dobbiamo viaggiare è certamente prossimo.»

    La congettura del maggiore Heyward si dimostrò esatta. Allorché raggiunsero il punto dove l’indiano, additando la siepe che orlava la strada militare, aveva sostato, apparve un sentiero stretto e oscuro, che avrebbe potuto, non senza qualche piccolo inconveniente, accogliere una persona per volta.

    «Qui dunque si apre la nostra strada», disse sottovoce il giovane. «Non manifestate timore, altrimenti potreste suscitar quel pericolo che mostrate di paventare.»

    «Cora, che cosa ne pensi?», domandò la bella riluttante. «Se viaggiassimo insieme ai soldati, per spiacevole che potesse risultarcene la presenza, non ci sentiremo più sicure di uscirne salve?»

    «Poco familiare quale siete, Alice, con le pratiche dei selvaggi, v’ingannate sulla fonte dell’effettivo pericolo», disse Heyward. «Se i nemici avessero raggiunto questo territorio (cosa in nessun modo probabile, inquantoché le nostre avanscoperte sono all’opera), essi si troverebbero senza alcun dubbio nei pressi della colonna, là dove abbondano più numerosi gli scalpi. La via che il distaccamento segue è nota, mentre la nostra, decisa da appena un’ora, dev’essere ancora segreta.»

    «Dovremmo sospettare di quell’uomo soltanto perché le sue maniere non sono le nostre, e la sua pelle è scura?», domandò Cora freddamente.

    Alice non esitò più a lungo; ma assestando al suo Narraganset⁴ una secca frustata, fu la prima ad allontanare i ramoscelli dei cespugli, per seguir la staffetta lungo quel buio e disagiato sentiero. L’ufficiale guardò con aperta ammirazione la giovane che aveva parlato per ultima, e permise alla più bionda – anche se non più bella – compagna di lei di procedere senza aiuto, dandosi nascostamente da fare per agevolare il cammino a colei che era stata chiamata Cora. I domestici dovevano aver ricevuto istruzioni in precedenza; difatti, invece di penetrare nella boscaglia, seguirono la strada della colonna, misura questa che, a detta di Heyward era stata ispirata dalla sagacia della loro guida, al fine di diminuir le tracce di tutto quel passaggio, nel caso che selvaggi canadesi si appostassero tanto più in avanti del loro esercito. Per molti minuti l’intricato sentiero non consentì altri dialoghi; e finalmente i viaggiatori emersero da quella larga striscia di cespugli che costeggiava la strada maestra, per penetrare sotto alle oscure, alte arcate della foresta. Qui il cammino era meno accidentato; e non appena la guida si rese conto che le donne erano in grado di padroneggiare le loro cavalcature, si avviò, con un’andatura fra trotto e passo, con una velocità che manteneva ad un ambio svelto ma placido gli animali dal garretto sicuro ch’esse montavano. Il giovane si era voltato a parlare con Cora, la giovane dagli occhi neri, allorché un lontano risuonar di zoccoli, che rumorosamente calpestavano alle loro spalle le radici lungo l’aspro sentiero, lo indusse a trattenere il destriero; e, come le sue compagne tirarono anch’esse le redini nel medesimo istante, così l’intero gruppo si fermò, quasi cercando di venir illuminato circa l’inattesa interruzione.

    In brevi attimi si scorse un puledro insinuarsi, come un cerbiatto, fra i tronchi diritti dei pini; e, dopo un altro momento, il poco avvenente individuo descritto nel capitolo precedente giunse in vista, con tutta la velocità che riusciva a spremere dalla sua magra bestia senza perciò giungere con essa a un’aperta rottura di rapporti. Fino ad allora codesto personaggio era sfuggito all’osservazione dei viaggiatori, ma se egli aveva il potere d’arrestare un occhio distratto quando, a piedi, esibiva la gloria della sua statura, le sue eleganze equestri avevano anche maggior probabilità di attrarre l’attenzione. Benché senza tregua facesse sentire al fianco della cavalla il suo unico calcagno armato, il passo più regolare che riuscisse a cavarne era un caracollante galoppo delle zampe posteriori, imitato per pochi incerti istanti da quelle anteriori, le quali però si accontentavano in genere d’un trotto allungato. Era forse la sveltezza dei mutamenti dall’uno all’altro di codeste andature a determinare una sorta d’illusione ottica, che esagerava le possibilità dell’animale; è certo tuttavia che Heyward, il quale sapeva giudicare con occhio sicuro dei meriti d’un cavallo, non riuscì nemmeno col più attento studio a stabilire attraverso qual sorta di movimento il suo inseguitore si aprisse la strada con tanta perseverante fatica.

    Il lavorio, i movimenti del cavaliere non erano meno vistosi di quelli della sua cavalcatura. A ogni mutamento nelle evoluzioni di quest’ultima, egli sollevava sulle staffe l’alta persona, producendo in tal modo, con la sua lunghezza eccezionale delle gambe, crescite e diminuzioni tanto improvvise della sua figura da vietare ogni congettura circa le sue dimensioni effettive. Se a ciò si aggiunge che, con quell’applicazione ex parte dell’unico sprone, un fianco della cavalla sembrava avanzar più rapidamente dell’altro, e che il fianco dolente veniva segnalato dagli ininterrotti sbandieramenti di una folta coda, avremo portato a termine il ritratto sia della bestia che dell’uomo.

    La bella fronte aperta e virile di Heyward, che si era a tutta prima aggrottata, si spianò a poco a poco, e le sue labbra si arricciarono in un lieve sorriso, mentre squadrava lo sconosciuto. Alice non fece il minimo sforzo per reprimere la propria allegria; e persino l’occhio scuro e pensoso di Cora s’illuminò d’un buonumore che per solito pareva venir soffocato più dall’abitudine che dall’indole della sua proprietaria.

    «Cercate qualcuno tra noi?», domandò Heyward, come l’altro si fu avvicinato abbastanza da poter rallentare la corsa. «Spero che non siate messaggero di cattive notizie?»

    «Infatti», rispose lo sconosciuto, accuratamente agitando il suo feltro triangolare, in modo da suscitare un soffio d’aria nell’atmosfera soffocante della foresta, e lasciando negli ascoltatori il dubbio su quale fosse la domanda del giovane a cui rispondeva; ma quando si fu rinfrescato il viso ed ebbe ripreso fiato, continuò: «Saputo che state dirigendovi verso il William Henry, e siccome anch’io mi sto recando laggiù, ho concluso che la buona compagnia avrebbe risposto ai desideri delle due parti».

    «Sembra possediate il privilegio d’un voto autorevole», replicò Heyward; «noi siamo tre, mentre voi non avete consultato che voi stesso.»

    «Infatti. La prima cosa è rendersi conto di cosa si desidera. Una volta sicuri di questo (ma se v’entrano le donne la cosa non è tanto semplice), la successiva è di agire secondo la decisione presa. Sono riuscito a far entrambe le cose, ed eccomi qui.»

    «Se volete recarvi al lago, avete sbagliato strada», disse Heyward sprezzantemente. «La strada maestra che vi conduce si trova almeno a mezzo miglio alle vostre spalle.»

    «Infatti», replicò lo sconosciuto, nient’affatto smontato da quella fredda accoglienza. «Sono stato una settimana all’Edward e avrei dovuto esser muto per non informarmi della strada da percorrere. Ma se fossi muto, della mia professione non si parlerebbe più.» Uscì in una leggera risata, come di chi sia trattenuto dalla modestia dal dar più aperto sfogo alla propria ammirazione per un motto di spirito perfettamente incomprensibile agli ascoltatori; poi riprese: «Non è prudente, per uno della mia professione, mostrarsi troppo familiare con coloro che deve istruire; motivo per cui non seguo la colonna dell’esercito. Concludo inoltre che un gentiluomo del vostro rango ha da essere il miglior giudice in riguardo ai problemi d’un viaggio; talché ho deciso di unirmi a voi, certo che la cavalcata, compiuta in amichevole compagnia, ne diverrà più piacevole».

    «Decisione alquanto arbitraria, se non precipitata!», esclamò Heyward, indeciso se dar libero sfogo ad una collera crescente, o se ridere in faccia all’interlocutore. «Ma voi parlate d’istruzione, e di professione. Siete forse aggregato al corpo dei coloni, come maestro nella nobile scienza della difesa e dell’offesa? O siete uno di quelli che tracciano linee ed angoli, con la pretesa di spiegar le matematiche?»

    Lo sconosciuto squadrò per un momento, con aria sorpresa, colui che lo interrogava; poi, dimettendo ogni traccia di vanagloria, ed anzi assumendo un’espressione di solenne umiltà, rispose:

    «Offese, spero non ve ne siano per nessuno; difese, non ho da farne... per grazia del buon Dio, non avendo commesso peccato alcuno da quando ho chiesto supplichevole la misericordia del Suo perdono. Non comprendo quella vostra allusione a linee ed angoli; e lascio che la spieghi chi è stato eletto a quel santo ufficio. Non ambisco a doni maggiori d’una modesta conoscenza dell’arte gloriosa del pregare e del render grazie, quale la si esplica nella salmodia».

    «Costui è manifestamente un discepolo d’Apollo», esclamò Alice divertita, «e io lo prendo sotto la mia particolare protezione. Orsù, liberatevi da codesto cipiglio, Heyward e, caritatevole verso le mie orecchie desiderose, consentitegli di viaggiare al nostro seguito. Senza contare», soggiunse a voce bassa ed affrettata, lanciando un’occhiata a Cora, che a una certa distanza seguiva lentamente i passi della guida silenziosa e cupa, «che egli può essere un amico da sommare alle nostre forze, nel momento del bisogno.»

    «E credete, Alice, ch’io affiderei le persone che amo a questo sentiero segreto, se immaginassi che potesse presentarsi un bisogno del genere?»

    «No, no, ora non lo penso più; ma questo strano uomo mi diverte; e se ha musica nell’anima noi non dobbiamo respingerne con malagrazia la compagnia.» Con aria invitante, la fanciulla indicò col frustino la strada, mentre i suoi occhi incontravano gli occhi del giovane. Questi si attardò un attimo per non distoglierli da quelli di lei; poi, cedendo alla dolce insistenza di Alice, Heyward spronò il cavallo e in pochi salti si trovò di nuovo a fianco di Cora.

    «Sono lieta d’avervi incontrato, amico», disse la fanciulla facendo cenno allo sconosciuto di procedere, mentre nel contempo incitava il Narrangaset a riprendere l’ambio. «I miei parenti mi hanno quasi persuasa, nella loro indulgenza, di non esser del tutto priva di merito quando prendo parte a un duetto, potremo quindi

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