Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L’essenza proibita del tempo
L’essenza proibita del tempo
L’essenza proibita del tempo
E-book175 pagine2 ore

L’essenza proibita del tempo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Sveva Simoni è una scrittrice personale. Per mestiere racconta la vita degli altri, scattandone una fotografia parlata e racchiudendola allʼinterno di un vero libro. Finzione e realtà si intrecciano abilmente nei suoi racconti, racconti allegri o intimi, a volte dolorosi, altre leggeri.

I suoi libri sono proprio come la vita: un alternarsi di pagine chiare e pagine scure.

Le ragioni che lʼhanno portata alla creazione della sua attività sono molte, ma la principale ha a che fare con il tempo: attraverso la scrittura può eludere la sua dittatura e ricreare un mondo di ricordi, presenze e speranze, che non segue regole umane.

Per essere la narratrice di quella altrui, però, Sveva lentamente sembra dimenticarsi di essere la protagonista della propria.

Eʼ in quel momento che alza gli occhi dai suoi libri e si rende conto che il tempo, quello che ha cercato di ingannare, è andato avanti. Senza di lei.

La realtà davanti alla quale si ritrova la spinge a prendere una decisione: anche la sua vita ha bisogno di unʼautrice e il primo capitolo che dovrà affrontare è quello relativo allʼamore.

Eʼ durante la scrittura di quelle prime righe che incontra un uomo che sembra solo quanto lei e che potrebbe rappresentare una risposta al vuoto che sente; quando crede di aver trovato il protagonista maschile del suo personale romanzo, però, le cose improvvisamente subiscono una svolta, sovvertendo le sue convinzioni.

Nel tentativo, non privo di risvolti comici, di provare ad essere per una volta protagonista della propria storia, la giovane donna non sa ancora che il colpo di scena più grande dovrà scriverlo proprio lei, in prima persona, quando finzione e realtà si intrecceranno così tanto da non poter più essere distinte.

Lʼessenza proibita del tempo e il racconto della vita si uniranno per farle intraprendere un viaggio che non avrebbe mai creduto di dover affrontare.
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2013
ISBN9788891108395
L’essenza proibita del tempo

Correlato a L’essenza proibita del tempo

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su L’essenza proibita del tempo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L’essenza proibita del tempo - Donatella Venditto

    Baricco

    Capitolo 1

    Nevicava quella mattina di dicembre e la lenta, quasi sospesa, discesa dei fiocchi creava una luce quieta, che sembrava posarsi su un tempo finito e perfetto.

    Negli ultimi mesi, però, avevo imparato che in questo mondo tutto tende verso un infinito indecifrabile, di cui non siamo altro che riflessi momentanei.

    Un manto bianco, simile a della soffice bambagia, aveva già ricoperto il giardino e il bordo del muro che lo recintava, dandomi l’impressione che i colori non esistessero più.

    Come se si trovasse davanti un foglio bianco da riempire di parole, la mente corse a ritroso e tornò su quella pagina.

    In fondo, ne ero convinta, tutto era cominciato in quell’istante.

    "Il viaggio è una perfetta metafora della vita. Ti scorrono davanti agli occhi posti, ricordi e sensazioni che lasci indietro nel momento stesso in cui li raggiungi, in un presente che vive al confine con un immediato passato.

    Oggi sei più giovane di quanto non sarai mai più e più vecchio di quanto tu non sia mai stato’ .

    Solo adesso comprendevo quanta verità ci fosse in quell’aforisma.

    Siamo qui per viverci il respiro, istante per istante e per prepararci già, nell’attimo stesso in cui lo viviamo, a salutarlo. In fondo la vita è questo: un viaggio misterioso e affascinante, nel quale da miliardi di anni l’umanità si perde e ritrova senza stancarsi mai di esistere, nonostante tutto."

    «Non riesci a farne a meno, eh?» Mia madre scosse la testa, trattenendo un sorriso.

    Staccai la penna dalla mia moleskine con la pagina del giorno riempita solo a metà.

    «A cosa ti riferisci?»

    «Lo sai!» Schioccò un’occhiata veloce al mio taccuino, per poi tornare subito a

    concentrarsi sulla strada.

    «Non ho scritto per quasi due settimane e domani dovrò ricominciare a tempo pieno, sto solo cercando di riabituarmi gradualmente!». Sorrisi, mentre una sensazione di nausea sembrava resistere alla mia momentanea resa. Scrivere mentre viaggiavo mi procurava sempre un leggero malessere, ma la realtà era che non riuscivo a farne a meno.

    «Spero che tu non abbia cominciato raccontando quanto sia stato noioso passare una vacanza con tua madre!».

    «No, non ancora, ma ci stavo arrivando!» Mia madre mi lanciò un pupazzo portafortuna che teneva sul cruscotto della sua monovolume, ma io riuscii abilmente a schivarlo.

    Scrivere era il mio mestiere, ma la necessità di tornare a esercitarmi era solo una scusa.

    Per me era un’esigenza e ogni momento libero mi rendeva meno ansiosa se riuscivo a occuparlo con le parole.

    Erano l’unico strumento in grado di dare una forma a ciò che provavo.

    Lasciare sulla carta le mie impressioni dava loro vita e mi aiutava a comprendere me stessa e la realtà che mi circondava. Mi rendevo conto che, molto spesso, per scriverla rinunciavo a viverne una parte, così accettai il velato consiglio di mia madre e presi a guardare fuori, cercando di assaporare il viaggio di ritorno.

    L’autostrada correva veloce di fronte a me. Gli occhi catturavano frammenti fuggenti di una terra che per due settimane aveva fatto compagnia alle mie giornate.

    Il luccichio del sole risplendeva nel mare, i ragazzi in costume giocavano fuori dagli stabilimenti balneari in uno stanco pomeriggio domenicale e la natura, bruciata dai raggi di una Versilia di fine agosto, accoglieva la scena come un giaciglio protettivo.

    Appoggiai la schiena al sedile e cercai di trovare una posizione comoda per osservare quella vita che fuggiva via da me. L’aria calda che entrava dai finestrini sembrava accarezzarmi, sussurrandomi un sottile arrivederci.

    Non riuscii a non tornare con la mente alle due settimane appena trascorse.

    Erano state semplicemente meravigliose, perché per la prima volta, dopo tanto tempo, mi ero concessa una pausa che rispettasse davvero il valore della parola che la identificava: vacanza. In latino vacans significa vacante, rendere vuoto qualcosa e io avevo fatto di tutto per rispettarne il senso, ricavandone più serenità e riposo di quanto me ne sarei realmente aspettata.

    Quell’anno avevo deciso di accompagnare mia madre in Toscana, verso il limitare dell’estate, e già prima della partenza sapevo che non mi avrebbero atteso giornate all’insegna del divertimento sfrenato. Era esattamente per questa ragione che avevo accettato di partire con lei: volevo solo un po’ di tranquillità.

    E poi da quando mi ero trasferita a Milano, lasciando il piccolo paese del Canavese nel quale ero nata e cresciuta, mi mancavano le nostre chiacchierate la sera davanti alla tv, il nostro shopping insensato, le risate davanti a una soap surreale e anche le litigate.

    Sì, anche quelle.

    Era stato un anno complicato quello dei miei venticinque anni, ma a dire il vero, da quando ne avevo compiuti ventuno, non ne ricordavo uno che non lo fosse stato.

    Era la seconda estate che passavo senza di lui, ma la prima in cui non mi sentissi più patetica all’idea di non avere un fidanzato con cui organizzare una semplice settimana al mare. E, benché all’inizio la possibilità di trascorrere nuovamente le vacanze con le amiche mi riportasse a un momento spensierato dell’adolescenza, avevo deciso che era arrivato il momento di invertire la rotta: dovevo tornare alle origini, per sentirmi di nuovo un po’ bambina, e per tentare di rimettere ordine in quella vita frenetica e senza pause che, da troppo tempo, ero abilmente riuscita a costruirmi.

    Da quando avevo aperto la mia attività non c’erano più stati fine settimana liberi, feste o dormite più lunghe di quattro ore per notte.

    In quella vacanza invece le regole si erano sovvertite, assumendo sembianze umane: avevo mangiato a orari regolari, dormito senza impostare la sveglia e soprattutto avevo potuto godere dei raggi del sole, quello vero, e non dell’abbronzatura chimica dello schermo del mio computer.

    Sebbene rimanessi sempre un po’ a disagio di fronte alle giovani coppie che si scambiavano effusioni sul lungomare, e non potessi fare a meno di ripensare a lui, in realtà ero felice di non dover passar la serata a litigare con Davide, o a impegnarmi per tenere il broncio più a lungo di quanto volessi, solo per non cedere al mio orgoglio.

    Durante quella vacanza eravamo state talmente bene mia madre e io, che entrambe provavamo una certa malinconia nel dover salutare Viareggio, anche perché, contrariamente ad altre persone, al nostro rientro non avremmo trovato nessuno ad aspettarci.

    Dal finestrino della monovolume di mia madre, che si era offerta di guidare per la prima parte del viaggio, osservavo le macchine che ci scorrevano accanto e ripensavo al momento esatto in cui saremmo tornate a casa.

    Nella casa in cui ero nata e cresciuta, nella casa in cui avevo vissuto con la mia famiglia. Sembrava un tempo lontano a volte, eppure non lo era davvero.

    Solitamente il pensiero di mio padre riaccompagnava quegli istanti.

    Pensavo al fatto che non l’avrei trovato a casa, tornando. Che non gli avrei potuto raccontare ciò che avevo fatto, visto o conosciuto, esattamente come non potevo farlo da diverso tempo per altri aspetti che riguardavano la mia vita.

    Effettivamente ormai, dopo quattro anni, quel pensiero si era cronicizzato in me così tanto, da non farmi nemmeno più accorgere di pensarlo.

    Ripresi a guardare fuori e, osservando meglio la strada dai finestrini di quell’auto, molto più alta rispetto alla mia utilitaria, le altre macchine al di sotto cominciarono a sembrarmi improvvisamente molto piccole.

    Mi tornò in mente quando da bambina accompagnavo mio padre nelle sue consegne con il camion e dal mio personalissimo schermo, il suo parabrezza, vedevo tutto in miniatura, come se in quel momento si svelasse davanti ai miei occhi da gigante un mondo, prima invisibile, abitato da lillipuziani.

    In quell’attimo preciso, che giocava a nascondino con il passato, mentre cercavo di trattenere le lacrime spinte dai ricordi, all’improvviso sfrecciò accanto a noi una spider, dal cui tettuccio apribile vidi il braccio di un uomo che cambiava marcia. Lo so che sembrerà assurdo, ma quel braccio e quella mano, a me sembrarono proprio quelli di mio padre e per un attimo pensai che non fosse mai morto.

    Quello era lui e quella era l’auto che avrebbe sempre voluto guidare, ma che non era mai riuscito ad acquistare.

    In quella frazione di secondo, il tempo di quel pensiero illogico, chiusi gli occhi e sperai solo che fosse così: che in un diverso altrove lui stesse vivendo la vita che aveva sempre sognato e che, per chissà quale ragione, qualcuno in quell’istante, in quel personalissimo schermo, ci avesse fatti nuovamente incontrare.

    Ripresi in mano la mia moleskine e saltai un paio di righe.

    Poi la mia penna riprese a scrivere:

    "E se esistesse un mondo parallelo e contemporaneo al nostro, abitato da tutti coloro che lasciano questa Terra?

    Un mondo invisibile che non possiamo vedere, perché non ne abbiamo ancora le capacità?

    Perché se viaggiare significa vivere, ogni essere umano conosce la mèta di quel viaggio, ma nessun viaggiatore sa se quella mèta è davvero l’ultima fermata…o solo l’inizio della prossima."

    Capitolo 2

    Erano trascorse settimane dalle nostre vacanze estive e benché una sensazione di vuoto m’avesse assalito quando ero tornata a casa dei miei, esattamente come mi aspettavo, avevo preso una decisione che incomprensibilmente mi rendeva felice:

    sarei tornata nel mio appartamento di Milano.

    Questa volta, tuttavia, l’avrei fatto solo per andare a prendere le mie cose, disdire l’affitto del monolocale e tornare a vivere nel paese in cui ero nata, nella casa in cui ero cresciuta, cercando di ritrovare quel calore familiare che da troppo tempo si era dissipato.

    Confesso che quando ero andata a vivere da sola, cinque anni prima, l’idea di poter gestire la mia vita anche dal punto di vista pratico era stato sinonimo di libertà.

    Una libertà prima condizionata dall’indulgente efficienza di mia madre, che aveva tentato di evitarmi incombenze e doveri che riguardavano la gestione della casa, finchè avesse potuto occuparsene lei. Il risultato era stato che, a diciannove anni suonati, sapessi a mala pena far bollire l’acqua per la pasta e cucinare un uovo fritto. Ma soprattutto che non conoscessi le mie reali capacità né i miei veri gusti.

    Per questo vincere una borsa di studio per la facoltà di Lettere e Filosofia all’Università degli Studi di Milano aveva rappresentato una grande opportunità, ma anche una sfida: allontanandomi da casa, per la prima volta in vita mia, avrei potuto comprendere se fossi realmente in grado di cavarmela da sola.

    La borsa di studio copriva la quasi totalità delle tasse universitarie e, in qualità di studentessa fuori sede, mi avrebbe dato diritto anche al rimborso dell’affitto, se solo avessi presentato entro i termini indicati il contratto di locazione.

    Cosa che purtroppo non ero riuscita a fare. Così ero stata declassata da studentessa fuori sede a studentessa pendolare, condizione che mi aveva spinto a dover cercare nel più breve tempo possibile un lavoro che mi permettesse di mantenermi. L’anno sabbatico preso dopo il diploma, per cercare di capire quale strada volessi davvero intraprendere, era risultato molto utile per poter riempire con almeno una voce la casella Esperienze lavorative del mio curriculum vitae. Dopo qualche mese come cameriera in un pub del centro e un paio di settimane come commessa in un negozio d’abbigliamento, ero riuscita a trovare un impiego come correttrice di bozze per la collana di romanzi d’amore Apostrofi Rosa, grazie a una mia compagna di corso.

    L’incarico, inizialmente a tempo determinato, richiedeva solo quattro ore di presenza giornaliera in ufficio, mentre il resto del lavoro avrei potuto svolgerlo direttamente dal piccolo appartamento di periferia nel quale vivevo.

    Tra una critica alla ragion pura di Immanuel Kant e un po’ di letteratura latina medievale, avevo il privilegio di potermi distrarre correggendo le appassionate litigate tra il Rodrigo e l’Isabella di turno, che si concludevano sempre nello stesso, identico, modo.

    Qualche volta, leggendoli, scoppiavo a ridere da sola, costringendo Alice, la mia coinquilina, a venir a bussare alla porta della camera preoccupata per la mia pazzia ormai sempre più evidente. Quando succedeva la invitavo a entrare con l’intento di condividere il mio divertimento ed erano molte le sere in cui iniziavamo a leggere i passi più surreali delle bozze, che, tra una risata e un commento, ci trascinavano lentamente verso la realtà della nostra condizione sentimentale. E dato che la mia era alquanto misera, finivamo sempre col parlare della sua relazione con Paolo.

    Lei e Paolo stavano insieme dalla terza liceo e non appena si fossero laureati in giurisprudenza, facoltà che frequentavano entrambi, si sarebbero sposati e avrebbero messo in cantiere un bambino entro il primo anniversario di matrimonio.

    Alice lo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1