Un anno, una vita
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Un anno, una vita - Annunziata Scarponi
Annunziata Scarponi
Un anno, una vita
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Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)
un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Dediche
Questo romanzo lo dedico soprattutto ai miei genitori, senza di loro nulla sarebbe stato possibile, da un mondo lontano sono certa che mi guardano e mi guidano. A mio marito Andrea, ai miei adorati figli Antonello e Claudia, a mio genero Glauco e a Flavia, la mia dolce nipotina. Una storia che potrebbe essere vera, ma non lo è. Solo frutto della mia immaginazione, spero che piaccia a chi avrà la generosità di leggerla.
Michela; i preparativi
Michela ti prego non puoi ripensarci, rimanda almeno di qualche giorno ?
Cercavo di inserire le ultime cose nella valigia, con mia madre che mi girava intorno come una trottola, che mi distraeva, sapevo che non sarebbe stato facile concentrarmi.
Mamma, ti prego, ne abbiamo parlato per quasi due mesi, mi avete accordato finalmente il permesso; ed ora… ricominci, stai tranquilla… me la so cavare! Non ti fidi più di me?
No, amore mio non è così, mi fido moltissimo di te, ma non vuoi proprio capire; il fatto è, che non mi fido degli altri, poi quell’ambiente… Può essere pericoloso, sei una ragazza ingenua… sei quella che si dice; una brava ragazza.
Dovevo essere contenta degli apprezzamenti anche perché inconsueti che mi stava volgendo mia madre, ma cominciavo a perdere la pazienza, ormai era già tutto deciso. Quella era l’occasione della mia vita, un treno che non passa due volte. Dopo un’opera di convincimento durata due mesi per l’appunto, che solo io potevo avere avuto la forza di protrarre fino allo sfinimento di mia madre prima, ma anche di me stessa, per farmi dare il permesso; ed ora no! Non avrei ceduto e rinunciato a quel viaggio per niente al mondo. Una promessa è una promessa!
"Mammina, cara e dolce mammina - le dissi girandomi e prendendola tra le braccia. Così dondolammo abbracciate come facevamo spesso, era il nostro modo di dimostrare tenerezza l’una all’altra, sembrava però che in quel momento fossi la mamma e lei la bambina, come si ostinava ancora a chiamarmi pur avendo già compiuto ventuno anni.
Devi stare tranquilla, sono adulta abbastanza per sapere quello che faccio. Poi dimmi, non sei stata tu a scrivere a quella tua carissima amica se poteva aiutarmi? Lo hai fatto, ed io non finirò mai di ringraziarti per questo, ora devo gettare via questa opportunità che probabilmente anzi no, sicuramente non capiterà mai più nella vita? Tranquilla, mamma, vedrai non mi succederà nulla di brutto, anzi sono certa che qualcosa di meraviglioso accadrà in questo anno!
Le stampai un grosso bacio sulla fronte e la spinsi via allegramente dalla mia stanza mi sembrò dopo quel discorsetto più tranquilla, e sospirando mi girai di nuovo continuando l’intricato lavoro di finire di riempire la valigia. Dovevo ricordarmi di tante cose, anche delle più piccole, ma che potevano però essermi utili, non potevo permettermi di comperare dell’altro, in città costa tutto il doppio, almeno così si diceva, questo fatto un po’ lo temevo, non volevo incidere troppo sul menage dei miei genitori. Avevamo stabilito una piccola cifra, che mi avrebbero inviato mensilmente, non tanto, ma tale che mi permettesse di vivere senza però scialare.
Essendo primavera inoltrata per il momento non avrei dovuto portare indumenti ingombranti come d’inverno, tuttavia lo spazio in valigia sembrava ugualmente poco. Portare tutte le cartelle dei miei disegni, i colori, gli album… tutto l’occorrente per dipingere. Quante cose da ricordare!
Ero euforica, la partenza era stabilita per l’indomani, non dovevo farmi prendere dalla fretta, come diceva giustamente mia madre; la fretta è la peggiore amica
.
Non credevo fosse possibile che il mio grande sogno si stesse avverando o almeno c’era la possibilità che così fosse. Sono sempre stata istintivamente portata per il disegno, sin da quando per la prima volta mi misero una matita in mano, sbalordii tutti disegnando una strega che teneva una scopa in mano, niente di strano se non il fatto che avevo solo un anno e mezzo!
Da allora il mio più grande divertimento era stato disegnare; dare corpo alle mie fantasie infantili. Invece di giocare con le bambole io disegnavo, tutto ciò che colpiva la fertile mente, forse all’inizio erano solo scarabocchi. Poi crescendo ho imparato a scoprire ed usare i colori; ed è stato meraviglioso, miscelarli tra loro per far sì, che i miei disegni fossero proprio come io volevo, come li vedevo con gli occhi della mia fervida immaginazione. Poi, dopo le scuole dell’obbligo, ho frequentato il liceo artistico, con qualche difficoltà al contrario di quello che pensavo, perché le mie idee sul colore, sul tratto, non coincidevano e non piacevano ai professori, dovevo seguire le loro idee, le basi classiche della scuola prima di fare delle elucubrazioni, e spesso, molto spesso venivo ripresa, ma poi grazie anche alla mia forte testardaggine, e un carattere deciso, sono riuscita a farmi apprezzare e terminare gli studi con successo forse non immaginato. Mi sono diplomata con il massimo dei voti, un bel compiacimento ma che durò poco, poi presto mi scontrai con la vera vita.
Avevo ormai terminato da due anni il liceo e non c’e stata nessuna possibilità di lavoro presente né futura. Ho venduto sì, qualche tela, a qualche magnanimo parente, ma cose di poca importanza, e il giro delle amicizie era ormai terminato. Voglio altro dalla vita, sogno di diventare una vera pittrice, essere apprezzata non per amicizia o parentela ma per la mia bravura. Dipingere grandi tele, esporle in mostre di interesse nazionale. E’ un sogno di certo troppo ambizioso e sono pretenziosa? Forse, ma se non lo fossi, ora sarei dietro al bancone della merceria dei miei genitori, ma avrei scoperto presto se possedevo una minima possibilità di riuscire.
Per la merceria, ci penserò se non troverò quello che cerco, sta lì, nessuno la tocca, mio fratello non era interessato a quel genere di lavoro, faceva tutt’altro. Sarebbe stato comunque un porto se avessi naufragato nel mare delle delusioni, era come avere un canotto di salvataggio che mi rendeva più sicuro il futuro.
Il liceo l’avevo frequentato nella città più vicina al mio paese, e anche allora come adesso, con tanta preoccupazione dei miei genitori e di mio fratello Luca, più grande di me di cinque anni, sposato con la mia migliore amica.
Mia madre vedendomi depressa e scoraggiata dalla mancanza di opportunità di lavoro che nel mio piccolo paese è totale, menzionò una carissima amica d’infanzia che sapeva sposata con un pittore molto noto nell’ambiente artistico; Roberto Vivagni. Costui con la moglie, amica di mia madre viveva a Roma nel più bel quartiere della capitale. Sotto velata mia insistenza decise di scriverle, domandandole in nome della loro grande amicizia, se poteva fare qualcosa per me, fresca di studi con ottimi risultati, con la passione della pittura.
Con sorpresa più mia che di mia madre, la signora in questione rispose in modo positivo, affermando che se mi fossi trasferita a Roma, qualcosa forse, poteva fare per aiutarmi, senza specificare come.
Erano passati quasi due mesi dalla risposta della signora Vivagni. Tanto mi ci era voluto per convincere i miei, specialmente mia madre a lasciarmi partire. Troppo preoccupata come la vita di una grande città, potesse in qualche modo influenzare e cambiare totalmente il mio modo di essere. Certa come sono che tutte le mamme del mondo abbiano queste preoccupazioni con le figlie femmine, ma dovevo tentare e non sentivo nessuna preoccupazione nel mio animo ed ora, mancava pochissimo per l’inizio della mia avventura.
Non lo dico, ma lo scrivo; un po’ di tremarella alle gambe e allo stomaco, la sentivo ovvio, non sono proprio un incosciente che va allo sbaraglio. So valutare i rischi, e so guardarmi bene, almeno fino a quel momento era stato così. Credo di essere una ragazza matura e consapevole di come sia il mondo attorno a me. Roma, la metropoli un po’ mi intimidiva, basta aver coraggio e voglia di farcela, poi il resto sarà conseguenza naturale. Filosofia spicciola, ma che mi andava a genio, poi come si dice al mio paese; se non ci sbatti il muso, non potrai sapere.
Da quando ero riuscita ad avere il consenso alla partenza, vivevo a un palmo da terra, con le classiche stelline negli occhi. Il più bel sogno che io avessi mai potuto fare è quello di poter stare vicino ad un grande pittore; che mi insegnasse i suoi piccoli segreti, vedere con i miei occhi la sua tecnica, vivere sentendo l’odore della trementina misto all’olio dei colori. Vivere almeno 12 ore in uno studio vero di pittore, ah, non vedevo l’ora. Per fare ciò, ero disposta a fargli anche da serva umile e fedele. Chi mi conosce non crederebbe ciò che ho appena scritto, sono tutt’altro che umile, e dico sempre ciò che penso a mio discapito. Chi mi vuole mi prende così, speriamo di riuscire ad adattarmi ad una situazione ancora non ben definita. Quando sarò a Roma, al cospetto del pittore famoso
percepirò come agire.
Ed ora, tutto questo da domani sarebbe diventato realtà: Il 10 di marzo; avrei ricordato quella data per sempre.
Tra le tante domande che mi frullavano nella testa era come poteva essere Roberto Vivagni; simpatico o mezzo pazzo come tutti i più grandi artisti? Generoso o avaro nel dare i preziosi consigli di cui sentivo l’ardente bisogno di conoscere? Possedevo già un mio stile personale, ovviamente mi mancava qualcosa, che cosa però, non la sapevo neppure io.
Quello sarebbe stato il bello di questa storia; scoperchiare la scatola del sapere, della conoscenza della mia vita.
Terminai di fare la valigia, un borsone da portare a spalla, ma preparai anche uno zainetto a mo’ di borsa per i documenti, soldi, e l’occorrente basilare di una ragazza.
Incerta di aver messo tutto ciò che poteva servirmi in città. Poi pensai che non andavo in Alaska, ma in una grande città, neppure tanto distante, e mi sentii più serena.
Il mattino dopo mi avrebbero accompagnato alla stazione mio fratello e mia cognata Luisa. Anche se non partivo per una traversata oceanica, sarebbe stato comunque stato doloroso separarmi da loro, sono molto attaccata alla mia famiglia, ma ora sentivo l’estremo bisogno di vivere la mia vita. Dovevo viverla a modo mio.
Avevo fatto a tutti loro una promessa molto importante; volevo un anno di tempo, se in un anno non avessi ottenuto un minimo di apprezzamento o incoraggiamento per il mio lavoro, sarei tornata al mio paesello però, a quel punto senza rimpianti per non averci provato e verificato che quella non era la mia strada. Una promessa che avrei mantenuta, anche se speravo con tutta me stessa di non metterla mai in atto. Ce l’avrei messa tutta, per far sì che quel desiderio divenisse una realtà. Era il classico sogno nel cassetto, ora stava a me aprirlo e sciorinarlo a chi di dovere. Speriamo di non doverlo richiudere troppo presto, magari con le dita dentro, ah, ah, ah che ridere! No, forse dovrei dire PIANGERE. L’ho scritto già che sono auto ironica?
Il mattino dopo di buon’ora ero già in piedi, guardai fuori dalla finestra della mia stanza e vidi che era ancora buio. La frenesia e tensione mi aveva impedito di riposare come sarebbe stato giusto e meglio. Mi attendeva una giornata lunga e faticosa, non perché il viaggio fosse lunghissimo, con tre ore sarei approdata alla città eterna, la capitale d’Italia, ma chissà le faccende che avrei dovuto eseguire prima di potermi riposare di nuovo, ho sempre avuto la necessità di fare un piccolo riposino dopo il pranzo, al paese lo facevano tutti, una salutare abitudine, magari bastava una mezz’oretta, ma sufficiente per ricaricarci. In casa lo si chiamava; intermezzo.
Mi buttai di slancio sotto la doccia, era bellissima la sensazione dell’acqua calda sul mio corpo intirizzito. Mi truccai leggermente, non ero un tipo che si truccasse molto, credo che il mio viso non ne abbia bisogno, per mia fortuna ho una pelle naturalmente liscia e chiara e senza imperfezioni, lineamenti regolari, sono bionda naturale come il mio papà e porto i capelli lunghi e mossi che mi arrivano oltre la vita. Rassomiglio a mia nonna, che a detta di tutti era una gran bella donna, era il mio vanto somigliarle, e forse per questo e per l’ usanza del paese mi hanno dato il suo nome: Michela, in verità lei la chiamavano Michelina, che io aborrisco tipico diminutivo di nomi nei piccoli paesi. Da bambina ho sopportato silenziosamente il fatto che tutti chiamassero anche me così, ma al primo giorno di asilo la maestra mi chiamò con il mio nome intero, quello che risultava dai registri scolastici; Michela. Mi piacque moltissimo, tornai a casa quel giorno e dall’altezza dei miei quattro anni proclamai molto seriamente:
Credo di avere un bel caratterino, ma da quel giorno tutti smisero di chiamarmi col diminutivo, tanto che pensai: - Adesso so che basta chiedere - infatti da quel giorno, imparai a chiedere, certo non sempre venivo accontentata, ma ci provavo, sempre! E fino a che vivrò farò così. C’è scritto persino sul vangelo; Chiedete e vi sarà dato!
Ero pronta per la mia avventura.
Sentii mia madre che dal piano terra, mi chiamava:
Michela… Michela!!! E’ arrivato tuo fratello e Luisa… ed è pronta la colazione! Che stai facendo ancora? Benedetta figlia, perderai il treno… Magari…
disse poi più piano, ma lo sentii quel finale sospirato, e mi si strinse il cuore per lei.
Michela - mi dissi guardando il mio volto riflesso nello specchio del mio piccolo bagno - oggi è l’inizio di una nuova vita. In un anno dimostrerò tutte le mie potenzialità; forza e coraggio e in bocca al lupo. Crepi!! Ah no, non si dice più, allora dico grazie.
Notai appena scesa al pian terreno degli occhi lucidi, ma feci finta di niente, non volevo arrivare a Roma con i miei tutti sbavati dal rimmel che mi ero appena messo. La colazione pur frugale non mi andava né giù né su, troppa la mia ansia e gioia. La mia gola si era come stretta in una morsa. Lasciavo il nido, forse per sempre, chissà, o sarei tornata come promesso dopo trecentosessantacinque giorni, con i sogni andati in fumo?
Lo avrei scoperto solo dopo averli vissuti uno ad uno. Un anno può essere lungo, quasi come una vita se viene vissuto con entusiasmo e frenesia, e queste emozioni non mi mancavano di certo.
Michela; il viaggio
Salutai i miei cari con enfasi; papà lo vidi silenzioso, stranamente commosso, eppure era colui che