Sabbia nel vento
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Anteprima del libro
Sabbia nel vento - Roberta Del Conte
1
«Mamma, quante stelle ci sono in cielo?»
«Milioni, Lory.»
«E sulle stelle vivono bambini come me?»
Mi volto a guardarlo con un sorriso. Il suo nasino è all’insù e il suo sguardo fisso al cielo scuro, in questa notte di agosto. Mi fanno tenerezza quelle sue innumerevoli domande, piene di curiosità e la sua perenne voglia di sapere.
Il suo modo incisivo di ripetere più volte la parola mamma
mi fa capire quanto importante sia io per lui e quanta fiducia riponga in me.
Mi chino per raccogliere una foto, caduta sull’erba, dal libro che avevo letto in giardino qualche ora prima. Eravamo tu e io sdraiati sulla sabbia, in mezzo al deserto, in una notte stellata, proprio come questa, ci guardavamo sorridenti, i nostri sguardi pieni di noi e d’amore.
Lorenzo mi chiede chi sia quel signore accanto a me.
«É il tuo papà, si chiama Paolo. Vive lontano da noi.»
Sento la mia voce a malapena, già persa nei pensieri. Lorenzo mi guarda con il suo sorriso ingenuo, mentre poggia le sue manine paffute sulla foto, per accarezzare i contorni dei nostri visi. M’irrigidisco. Questo suo gesto spontaneo riaccende in me ricordi che avevo cercato di seppellire.
L’erba, su cui siamo sdraiati questa sera, è fresca e umida di rugiada e perciò lo copro col plaid scozzese rosso che ti avevo regalato l’ultimo anno della nostra convivenza.
A qualche metro da noi, la nostra casa in Toscana, color verde, una lanterna bianca sul davanzale illumina il giardino: tutto quello che ci era bastato per due anni. Poi, a un certo punto, quel tuo sguardo che illuminava i miei occhi, si era spento. I tuoi sorrisi, le tue battute e le tue risate, sempre più rari. Ti avevo lasciato andare in una sera piovosa e fredda di novembre. Con le tue valigie e un nostro ultimo abbraccio, senza dirci niente. Io, impotente, cercavo, come sempre, di non invadere con le mie domande la tua mente. Sapevo che ti avrebbero infastidito.
Accettai la tua decisione, senza discutere.
Mesi dopo, in una calda sera di agosto, nacque Lorenzo.
Questa sera in cui guardiamo le stelle, è il suo compleanno. Tre anni d’amore puro. Tre anni in cui decisi di non dire niente a te, che continuavi a viaggiare in milioni di posti singolari e spesso anche rischiosi, scattando foto per documentari e giornali.
Io cerco di andare avanti, sola col mio bambino, disegnando e scrivendo libri per ragazzi. Credo non meriti di sapere di avere un figlio. Forse questa è la punizione giusta per te.
Ma questa sera di agosto, in cui si esprimono i desideri guardando cadere le stelle, ti vorrei qui con noi, a farci accarezzare dal vento caldo, che tanto ci piaceva. Quella foto fa riaffiorare sensazioni e tormenti, che da tempo, cerco di lenire. Mi ero ripromessa di non pensare più al passato ma di arrendermi al presente, vivendo per me stessa e per Lorenzo, addormentato sotto il calore del plaid, con un sorriso sereno.
Lacrime copiose iniziano a bagnare il mio viso. Non vorrei piangere per te, mi sono sempre trattenuta dal farlo, ma questa è una sera che mi trova più fragile. Uno stato di ansia si abbatte prepotentemente su di me, cerco di combatterla, senza riuscirci. Mi asciugo le lacrime con un lembo della maglietta già bagnata e stropicciata, le mani tremano, mi bruciano gli occhi, decido di alzarmi e versarmi da bere, forse un po’ di vino riuscirà a scaldarmi. Sento brividi di freddo nelle ossa, nonostante sia agosto. Mi sdraio di nuovo accanto a Lorenzo, un desiderio di te mi sovrasta. E poi immagini di noi, prima sbiadite, via via più nitide e numerose iniziano a sovrapporsi l’una dopo l’altra.
2
Ci conoscemmo in un modo banale. Non mi sarei mai aspettata che, da quel momento, la mia vita sarebbe cambiata. Appassionati entrambi di fotografia, iniziammo a scambiarci messaggi, battute e, a volte, frasi con poco senso su Facebook. Qualche apprezzamento, qualche commento, dapprima. Il tempo così trascorreva in leggerezza e le ansie e la stanchezza della giornata, al lavoro, sparivano. Ci facevamo complimenti o ironizzavamo sui nostri difetti, ovviamente più miei che tuoi.
In quel periodo seguivo corsi di disegno per illustratori. Ore e ore trascorse fuori, cambiando mezzi in una Milano fredda e piovosa in inverno, troppo calda e afosa in estate. Finito il corso, correvo a casa, dove vivevo da quando ero nata, mentre i miei genitori si erano trasferiti sul lago di Como. Si erano stancati di vivere intrappolati in quella grande città, non più ospitale per loro, in cerca di rapporti umani più stretti e sinceri e meno superficiali.
Rincasavo frettolosamente, nel buio della sera, col naso infreddolito o madida di sudore dopo aver comprato poche cose da mangiare al supermercato sotto casa, spesso in piedi in cucina, per poi eseguire, con la testa ormai confusa, gli esercizi per il corso del giorno dopo. La sera tardi, era l’unico momento in cui poter interrompere quella routine tanto noiosa e faticosa che avevo scelto. Mi ero ricreata col tempo una condizione confortevole che mi faceva sentire a mio agio e serena.
Alcune volte mi scrivevi di notte, perché tra i tuoi innumerevoli lavori, c’era quello di essere portiere in un albergo a Roma e avevi scelto il turno serale, per guadagnare di più.
Spesso rispondevo assonnata, ma felice di sentirti e di farti compagnia. Mi raccontavi tutto quello che capitava lì, di notte, mentre io t’immaginavo, nella tua divisa, dietro il