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Il sole dentro
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E-book331 pagine4 ore

Il sole dentro

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Info su questo ebook

Quando la separazione dal marito, il desiderio di maternità, il lavoro stressante e il rubinetto che non funziona diventano insopportabili... Guenda lascia tutto e scappa.

Carica la valigia in auto, si tuffa in autostrada e corre in campagna, tra le sue amate, verdi e rigogliose colline piemontesi che l'hanno vista crescere.

Lì, nonostante gli screzi con i genitori e la minaccia di vendere la sua adorata Villa del sole, Guenda ritroverà se stessa, i vecchi amici dell'infanzia, quelli nuovi e tanti meravigliosi ricordi.

Lei, che non credeva più nelle favole, ricomincerà ad amare...

E Chicco e Giulia, i due cuccioli che entreranno nella sua vita e dei quali s'innamorerà, le permetteranno di capire che l'adozione è un meraviglioso gesto d'amore.

Per loro abbandonerà le sigarette... per loro butterà gli ansiolitici... per loro sarà disposta a rimettere in discussione il suo rapporto con Francesco...

Perché l'amore è una cura...
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2015
ISBN9788891188656
Il sole dentro

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    Anteprima del libro

    Il sole dentro - Gladys Rovini

    genitori...

    Casa dolce casa

    Era un pigro mercoledì d’inizio giugno. L’aria di Milano stava ormai diventando insostenibile: le febbricitanti temperature di quell’estate anticipata, avevano rapidamente trasformato la città in un’insopportabile cappa di calore. E, come se non bastasse, in ufficio, l’impianto dell’aria condizionata si era guastato verso metà agosto… dell’anno prima! Samantha, la nostra direttrice, aveva pensato bene che non valesse la pena di chiamare il tecnico addetto alla manutenzione, rimandando quindi l’incombenza - e la relativa spesa - all’anno successivo.

    Verso metà maggio si preannunciava un periodo piuttosto caldo e, benché sia io che le mie colleghe l’avessimo più volte esortata a risolvere il problema, lei rinviò nuovamente la telefonata.

    Nel frattempo la tensione emotiva cresceva sempre più. Piccoli screzi si tramutavano in furiose liti e, risolvibili problemi, diventavano insormontabili ostacoli. Come ciliegina sulla torta, proprio in quei giorni, Samantha si era rotta una caviglia praticando sci d’acqua durante uno dei suoi numerosi weekend sulla Costa Azzurra.

    Nemmeno a dirlo, la sua scontrosità innata aveva subito una tangibile impennata e così, temendo una sua insana reazione, nessuno osava contraddirla o proporre qualcosa che potesse irritarla ulteriormente.

    Seduta alla mia scrivania, giocherellavo nervosamente con una matita mentre facevo scorrere lo sguardo sul giornale di quella mattina.

    Toro: nonostante il transito negativo di alcuni pianeti, oggi troverete il coraggio di osare. Non piangetevi addosso: è il momento di agire. Feci una smorfia. Bene, pure le opposizioni astrologiche mi ci vogliono!

    Guardai svogliatamente fuori dalla finestra del mio angolino. Improvvisamente, mi sovvenne che anch'io, come Samantha, a casa mi trascinavo da tempo un problemino: il rubinetto della cucina erogava poca acqua. A dire il vero era una quantità talmente esigua che, per riempire la pentola della pasta, impiegavo dei minuti interi. Non lo sopportavo! Fu in quel momento che realizzai che me ne dovevo andare. Dovevo evadere.

    Pronto, papà, ciao.

    Ciao tesoro, tutto bene?

    Sì papà, stai tranquillo risposi avvertendo una nota ansiosa nella sua voce. Volevo solo avvisarvi che domani arriverò alla villa.

    Davvero? Benissimo, ma come mai questa decisione improvvisa?

    Beh…quando arrivi al punto di non sopportare più nemmeno il lavandino…

    Ma… cosa stai dicendo?

    Sorrisi tra me e me. Niente, papà, lascia stare. Poi ti spiego.

    Va bene, tesoro. Ti aspettiamo

    Spero che Eleonora ne sia contenta.

    Ma certo… disse frettolosamente. Guenda…

    Sì papà…

    Non riesci proprio a chiamarla mamma? chiese in tono rassegnato.

    Ne riparleremo in un altro momento. Ciao dissi rapidamente.

    Come vuoi. Ciao tesoro.

    Riagganciai la cornetta. Mi tolsi gli occhiali da lettura e strinsi, per un istante, la fronte tra le dita. Poi, impavida, afferrai la mia borsa e mi avviai verso l’ufficio di Samantha.

    Bussai e, senza attendere una risposta, entrai.

    Io me ne vado.

    Samantha fece scivolare la sua lunga schiena sulla poltrona di pelle nera e mi squadrò, senza scomporsi.

    E dove vorresti andare, se è lecito?

    In vacanza.

    Bene, e il lavoro per quelle società di import export? I filmati per la televisione? I testi per quel volume di poesie?

    Mi porterò via il materiale. Del resto, lo sai anche tu che lavoro molto meglio fuori da queste mura anonime.

    Se non avrò quelle traduzioni per le date prefissate, io…

    Ho mai ritardato qualche consegna?

    Sì, è capitato...

    Quanto sai essere meschina, quando vuoi! Se la mia libertà non fosse dipesa da lei… l’avrei mandata a farsi fottere su due piedi.

    Un paio di volte, non di più e, comunque, in un periodo in cui non stavo bene. E ho recuperato subito facendomi carico di ulteriori commissioni, lavorando di notte e di giorno, a Natale e a Pasqua, con la febbre alta o in vacanza, senza pretendere extra, per farmi perdonare. Sbuffai.

    Samantha, faccio appello alla tua umanità: non è un capriccio, ma una necessità. Ho bisogno di andarmene per un po’ prima che le cose mi precipitino addosso… ti prometto che non ti accorgerai nemmeno della mia assenza.

    Mi squadrò per un istante attraverso quei suoi occhi grigi, taglienti come la lama di un coltello, e poi disse: Va bene. Prenditi il tempo che vuoi. Sei una delle nostre migliori collaboratrici, in fondo... ammise a denti stretti. Ma guai a te se non riconsegnerai i lavori a termine.

    Ti ringrazio ammisi senza alcuno slancio.

    E dove andrai di bello? Sul Mar Rosso? Alle Maldive? In Sardegna?

    Nulla di tutto ciò. Non m’interessa la mondanità.

    Davvero? Beh, non sai cosa ti perdi, cara…

    Trascorrerò questo periodo dove lascio in custodia il mio cuore. In un posto magico sussurrai voltandomi sui miei tacchi alti e abbandonandola lì, sul suo trono, in preda alla curiosità.

    E c’era davvero qualcosa di magico in quel luogo, fra le sconfinate campagne piemontesi, dove potevo ritrovare quella pace interiore a cui anelavo per mesi. Solo in quel posto, infatti, tornavo ad essere me stessa, ripercorrendo i momenti importanti della mia vita e rivivendo tutti i ricordi più cari di una lontana infanzia.

    Tutto ciò accadeva alla Villa de sole. L’avevano soprannominata così gli abitanti del paese perché, mi aveva spiegato nonna Mari, era irradiata dal sole a ogni ora del giorno e in ogni suo punto, o almeno così si diceva. A dire il vero, un tempo era stata una cascina, in seguito ristrutturata e ampliata. Un paio di locali avevano un pavimento ormai logoro, la veranda andava rifatta e la famosa mansarda non era mai stata ultimata, ma nonostante ciò per me era perfetta. Ai miei occhi appariva immutata nel corso di tutti quegli anni, sempre splendida e maestosa, a tratti fiabesca, ma soprattutto calda ed accogliente.

    Stavo guidando da quasi due ore. Mi sentivo stanca, ma contemporaneamente felice. Tutto quello che potevo desiderare era lì, a due passi da me.

    Da molti mesi accarezzavo l’idea di concedermi una vacanza rilassante in campagna e, finalmente, c’ero riuscita. Avevo tutte le intenzioni di abbandonare i miei problemi in città, di scordarmi della separazione da mio marito, del lavoro frustrante, di Samantha e del rubinetto rotto. Volevo assolutamente rilassarmi.

    O, almeno, questo era il mio progetto.

    Non immaginavo ancora che la mia vita avrebbe subito delle svolte decisive proprio durante quel periodo...

    Appena uscita dall’ufficio mi ero precipitata a casa. Alla rinfusa, avevo buttato alcuni indumenti all’interno della mia valigia, avevo chiuso il gas e l’acqua, tirato giù l’interruttore del contatore dell’energia elettrica ed ero uscita, in fretta e furia, senza voltarmi nemmeno per un istante.

    Avevo ritirato il biglietto al casello e avevo guidato, ininterrottamente, in compagnia di una petulante cassetta di un gruppo straniero di moda, forse, qualche anno prima.

    Da troppo tempo, mi ero costretta a rimandare la mia vacanza a causa dei miei impegni professionali.

    Dopo la laurea in lingue straniere, mi ero data, con poca convinzione, al settore traduzioni. E così ero inchiodata in un ufficio della metropoli, per tre giorni la settimana. Il resto del tempo collaboravo, qua e là, portandomi del materiale a casa.

    Mi capitava di tradurre qualsiasi cosa: articoli, lettere, conferenze, filmati, canzoni…

    L’aspetto positivo era la possibilità di lavorare quando volevo, di giorno, di notte, in salotto o in camera, sgranocchiando un biscotto o facendo l’idromassaggio. Dovevo poi riconsegnare il materiale entro la data stabilita. Comunque, non ero entusiasta della mia professione. Mi mancava il rapporto con la gente, il contatto umano e, per essere sincera, detestavo quell’ufficio. Ogni lunedì mattina dovevo lottare contro me stessa per riuscire ad alzarmi al ronzio pedante della sveglia.

    Come se non bastasse, ultimamente, avevo seri problemi d’insonnia. Avvertii un brivido freddo tendersi sulla mia schiena, propagarsi per le spalle e poi scendere lungo le braccia. Ripensai alle lunghe notti trascorse a cercare, inutilmente, di colmare quelle fredde ed interminabili ore che mi separavano dalla luce del mattino.

    Puntualmente, cercavo rifugio in piccoli gesti diventati, ormai, abituali come leggere un libro, scaldare una tazza di latte nel microonde, preparare la lista della spesa o seguire un film in bianco e nero, facendo lo slalom tra i numerosi filmati porno che invadevano la programmazione notturna delle svariate emittenti televisive.

    E poi, il giorno seguente, le mattinate massacranti trascorse tra quelle pareti bianche, davanti ad un monotono pc, sognando di fuggire dal lavoro, dall’appartamento in cui abitavo e da tutto il resto.

    Era uno di quei classici periodi no. Da tempo mi sentivo in balia delle mie emozioni, oppressa da uno straziante senso di precarietà, come un fiore agitato dal vento.

    E, proprio per questo motivo, avevo deciso di abbandonare tutti i miei problemi in città e tornare in campagna, nella casa in cui ero cresciuta con nonna Mari ed i miei genitori. Rappresentava un po’ la mia isola felice, il luogo incantato dove mi ero innamorata ed in seguito sposata.

    L’unico posto in cui mi sentissi realmente a casa.

    A dispetto di come era andato il mio matrimonio, tutti i miei momenti più felici li avevo vissuti lì. Ero sempre stata serena alla villa e il fatto di ritornarci, periodicamente, era fonte di ricarica sia emotiva che fisica.

    Lungo il ciglio della strada sbucavano ciuffi d’erba e papaveri rossi che si agitavano, mossi dal vento, apparentemente orgogliosi di essere usciti vincenti dalla loro lotta contro l’asfalto.

    Abbassai il finestrino e permisi all’aria fresca di avvolgermi le guance.

    C’era una leggera brezza estiva che scomponeva le foglie dei meli e che confondeva le nuvole nel cielo.

    Attraverso il parabrezza contemplavo lo splendido dipinto che si era formato con il calare della sera: un insieme di sfumature gialle, arancioni e rosse che si mischiavano tra di loro, creando suggestive immagini.

    Lungo le distese di smeraldo che mi circondavano scorsi alcune balle di fieno, abbandonate sull’erba.

    Rallentai, in prossimità di una fattoria, dove riuscii a scorgere un bambino e un cane che si rincorrevano spensierati.

    Poco distante, un contadino, strofinandosi un braccio sulla fronte, stava rincasando con il suo trattore, probabilmente dopo una giornata d'intenso lavoro.

    C’era qualcosa di assolutamente indescrivibile in quelle verdi colline del Monferrato che avevano fatto da scenografia alla mia crescita.

    Lungo i sinuosi sentieri avevo cavalcato con il mio Blue Bay, nei rigogliosi vigneti mi ero più volte addentrata per raccogliere furtivamente pesanti grappoli di uva.

    Avevo percorso quegli immensi prati in lungo e in largo, talvolta da sola, cullata dal silenzio rasserenante della campagna e vagamente rapita dalla malinconia dei paesaggi agresti invernali, più spesso con i miei amici, con i quali ero solita perdermi in allegre merende a base di pane e marmellata, nei pomeriggi senza scuola, all’ombra dei frutteti. Ma il ricordo più vivo erano in assoluto le ore passate con nonna Mari. Persino durante le estati più calde, sotto il sole cocente, all’ombra dei nostri cappelli di paglia, c’incamminavamo alla ricerca di un nuovo soggetto da ritrarre.

    Adoravo stare a guardarla mentre dipingeva. Impugnava con estrema eleganza il pennello e le sue mani esili si muovevano con delicatezza sulla tela, quasi sfiorandola. Trascorrevo interi pomeriggi insieme a lei, scrutando i suoi movimenti, leggendo le sue espressioni.

    Mi piaceva vederla sistemare il cavalletto, la tela e i colori e poi osservare in silenzio, per qualche istante, il suo soggetto.

    Gli occhi socchiusi, l’espressione assorta e poi la prima pennellata.

    Era emozionante percepire quell’entusiasmo e quell’animosità che le illuminavano lo sguardo mentre dava vita ad una nuova opera. Lei era nata per dipingere. Ce l’aveva nel sangue. Non tanto per lo stile, che era comunque notevole, quanto per la cura dei dettagli, per ciò che riusciva a trasmettere attraverso semplici pennellate.

    Lei aveva un dono: i suoi quadri avevano la capacità di emozionare, di scaldare il cuore di chiunque avesse la fortuna di ammirarli.

    La mia mente era ancora offuscata dai ricordi, quando mi ritrovai davanti ad una collina dal pendio dolce che digradava verso un sentiero.

    Cercai, freneticamente, il telecomando nella borsetta.

    Dopo aver aperto il cancello verde, invaso dall’edera, m’intrufolai silenziosamente sotto al pergolato.

    Sentii il rumore delle ruote sulla ghiaia.

    Scesi dall’auto e respirai a pieni polmoni il profumo del gelsomino.

    Al centro del giardino c’era una rigogliosa aiuola di rose gialle e rosa di cui Eleonora - non ricordo quando iniziai a chiamare mia madre per nome, ma era davvero da molti anni - andava orgogliosa, in quanto frutto del suo lavoro.

    Trascorreva, infatti, tutto il suo tempo libero tra le piante del giardino. Eleonora disegnava abiti da sposa. Era una stilista di successo.

    Aveva iniziato a dedicarsi a questo settore dopo i trent’anni, ma era riuscita a costruirsi una carriera invidiabile e, proprio per questo, aveva viaggiato per tutto il mondo, restando lontana da casa anche per mesi.

    In quei periodi era nonna Mari ad occuparsi di me.

    Ripensai con dolcezza alla mia nonnina. Il rapporto che si era instaurato tra di noi era qualcosa di speciale, molto più intimo e coinvolgente di quello che c’era tra Eleonora e me. Nonna Mari era stata la madre che, tutto sommato, non avevo avuto.

    Mi voltai. La villa era immersa nel silenzio. Si udiva solo il verso di alcuni grilli ed il fruscio di alcune foglie, mosse da un leggero venticello. Tutt’intorno spiccavano gruppi ordinati di scintillanti begonie, maestose dalie, sofisticati gladioli, delicate clematidi e candide margherite.

    Seguii la danza inquieta di un gruppetto di moscerini attorno al lampioncino acceso, accanto alla porta d’ingresso.

    M’incamminai per il sentiero di beole che conduceva alla portafinestra della cucina, quando avvertii delle voci concitate provenire dall’interno: Eleonora e mio padre stavano discutendo animatamente, probabilmente inconsapevoli del mio arrivo.

    Red, il mio pastore tedesco, iniziò ad abbaiare.

    Riuscii a percepire solo poche parole che, però, non mi permisero di comprendere l’argomento della loro diatriba.

    Improvvisamente, mio padre allungò lo sguardo verso di me.

    Mossi una mano all’aria.

    Tesoro, pensavamo arrivassi domani… disse lui uscendo di casa.

    Ecco perché Red abbaiava tanto.

    Volevo farvi una sorpresa dissi lanciandomi sul mio cane che iniziò a farmi le feste, freneticamente.

    Tesoro, quanto mi sei mancato ammisi affondando le mie mani nel suo pelo lungo.

    E ci sei riuscita ammise Eleonora. Tutto bene? chiese sfiorando la mia guancia.

    Adesso sì.

    Che cosa stai aspettando? Coraggio, entra! O le zanzare ci divoreranno m’incitò lei, con la sua consueta razionalità.

    Ciao, tesoro disse papà avvicinandosi.

    Il mio cuore s’irradiò di un’immediata serenità e le mie labbra si piegarono in un dolce sorriso.

    Dopo averli asciugati e spazzolati, raccolsi i miei capelli in una coda di cavallo, mi liberai dell’accappatoio e indossai un paio di jeans ed una maglietta bianca di cotone.

    Quel bagno mi aveva aiutata a distendere i nervi. L’acqua calda, addolcita da un bagnoschiuma al latte di mandorle dolci, mi aveva trasmesso una piacevole sensazione di pace.

    Ora mi ritenevo pronta a sostenere persino un eventuale dialogo con mia madre.

    Hai appetito? Vuoi che ti prepari qualcosa?

    No, grazie, non ho… mi bloccai, scrutando l’espressione preoccupata dipinta all’improvviso sul volto di entrambi.

    In passato avevo avuto problemi con il cibo, dovuti ad una più o meno dichiarata depressione.

    Beh, sì, un panino con formaggio e prosciutto… magari un’insalata.

    E magari una buona tazza di latte, che ne dici?

    Per mio padre, Enrico Gherardi, stimato ed integerrimo medico, il rimedio a tutti i mali era una copiosa tazza di latte caldo, ancora meglio se insaporita con un po’di cioccolata, adatta anche alle calde serate estive.

    Certo.

    Non ci racconti nulla? Il lavoro come va? E la casa? Hai poi trovato un idraulico per quel problema?

    Il lavoro è la solita palla… colleghe noiose e capi pretenziosi… mi sono portata un sacco di materiale da tradurre e rispedire entro un mese… e per il lavandino ho chiamato un cugino di Lisa… dissi lasciandomi cadere sulla sedia. Verrà a dare un’occhiata al mio ritorno in città.

    Uno dei suoi numerosi parenti sottolineò mio padre, affettando un pomodoro.

    Esatto. Ma non fatemi pensare a queste cose. Ora mi trovo qui e sono davvero contenta. Voglio solo pensare a rilassarmi. Intendo gettarmi tutto alle spalle.

    Figlia mia, vedo che non hai perso il vizio di fuggire dai problemi sentenziò mia madre.

    Io non sto fuggendo… sono semplicemente in vacanza.

    Certo, ma guarda caso, quando c’è qualcosa che non va ti ritrovi sempre qui... la sua voce era venata d’ironia.

    Mio malgrado, dovetti ammettere a me stessa che era proprio vero. Riflettendoci, conclusi che la parola 'fuga' era davvero il termine più appropriato. Amaramente, mandai giù questa idea e non osai replicare.

    Allora… intervenne mio padre Immagino che andrai a trovare Sandro, Isa e Sara.

    Non mi sfuggì l’espressione grave di mia madre. Quell’affermazione l’aveva messa a disagio. Lessi nel suo sguardo una profonda apprensione.

    Ma per quale motivo? Isabella, Sara e Sandro Benedetti, i miei amici d’infanzia. Abitavano in una cascina poco distante. Ero cresciuta con loro. Avevo trascorso intere giornate a scorrazzare con loro per i campi, a cavalcare, a giocare, a rincorrere le anatre, a stuzzicare le mucche…

    Quante esperienze avevamo condiviso e quante emozioni avevamo provato!

    Mio padre estrasse dalla credenza un piattino dal bordo azzurro e mi servì il panino.

    Oh sì! È da tanto tempo che non ho notizie loro, specialmente di Sandro. È tornato dall’America? Sandro era sempre stato il mio migliore amico

    L’ho visto più di una volta in compagnia di una ragazza. Sembravano molto affiatati. Credo che facciano sul serio disse Eleonora con una punta di soddisfazione.

    Davvero? incomprensibilmente mi sentii infastidita da quella notizia.

    Non riuscivo a mettere a fuoco se fosse più l’idea di Sandro con una donna, o la sottile insinuazione di mia madre.

    Morsicai avidamente il mio panino ed una fettina di formaggio sgusciò fuori.

    Mia madre non mi aveva mai perdonata d'aver lasciato Francesco, mio marito. L’aveva considerato un gesto immaturo e avventato, di cui l’unica responsabile ero io.

    Per lei era stata un’offesa personale. Mi aveva semplicemente giudicata senza mai chiedermi come mi sentissi, cosa provassi e se avessi bisogno del suo aiuto. Tipico del suo modo di fare.

    Sarai stanca, ti conviene andare in camera a riposarti. Ti porterò il latte caldo, se ti fa piacere.

    Mi persi negli occhi azzurri di mio padre. Niente che io ami di più dissi abbracciandolo.

    M’incamminai verso le scale, ma all’improvviso mi fermai.

    Non potevo salire senza passare un attimo nello studio.

    Una volta era la stanza in cui nonna Mari dipingeva, ora era il luogo dove mio padre accoglieva i suoi pazienti. Feci forza sulla maniglia e, come sempre, aprii delicatamente la porta.

    Ogni volta avvertivo la stessa, inspiegabile sensazione: era come se mi aspettassi di trovarla ancora lì, davanti al caminetto acceso, con le mani sporche di colore, impegnata a dare vita a qualche tela bianca. E, invece, la stanza era vuota e silenziosa.

    Ma c’era comunque qualcosa che riusciva a trasmettermi quel calore e quel senso di sicurezza che andavo cercando per mesi quando, lontana dalla villa, divenivo preda delle mie angosce. Era lì, come sempre, solenne come un trofeo e discreto come un sussurro: Il campo di girasoli.

    Entrando in camera, la prima cosa che notai fu il mio lettone, morbido, ricoperto di cuscini e di pupazzi. E poi il tappeto peloso al centro della stanza, lo specchio antico che spiccava lungo una delle pareti, le mensole straripanti di libri, i pattini appesi alla parete, i mazzi di fiori raccolti nei campi e poi messi a seccare… ovunque mi girassi c’era un pezzetto della mia infanzia o della mia adolescenza.

    Un pezzetto di me, di una me così lontana da sentirne a pelle la nostalgia.

    In quella stupenda mattina di giugno il sole, ancora timido, filtrava attraverso i rami degli olmi e un gruppetto di allegri uccellini cinguettava festoso.

    A piedi nudi, camminavo sull’erba intrisa di rugiada, i sandali gettati accanto ad un’aiuola, una leggera brezza che mi avvolgeva le guance e il silenzio rasserenante del giardino, rotto solo dal suono incessante e magico della natura.

    Era tutto ciò che potessi desiderare.

    Sin da bambina amavo passeggiare lungo quei viali alberati. Non c’era nulla che mi esaltasse di più.

    Il verde screziato dell’edera si alternava al giallo acceso dei girasoli, in una perfetta simbiosi cromatica. Il profumo delle rose m’invadeva le narici ed il costante ronzio delle api mi trasmetteva una sensazione di pace e di continuità. Sentivo affondare i miei piedi nell’erba umida.

    I raggi del sole, mi accarezzavano la pelle facendomi diventare un elemento della natura.

    Come assorbita da quel contesto, divenivo parte di quelle foglie, di quei petali e di quelle radici.

    Avvertivo piccoli brividi caldi percorrermi la schiena, al contatto di quel surreale contesto.

    L’emozione s’intensificava quando giungevo al centro del parco, dove si congiungevano tutti i viali.

    Lì, fiera, si ergeva la vecchia quercia. Su quel tronco massiccio avevo inciso le nostre iniziali, in un passato ormai lontano, ricco di illusioni e di speranze.

    Mi avvicinai all’albero.

    Accarezzai con una mano la corteccia e avvertii al tatto la parte incisa: G e F.

    D’impeto l’abbracciai, come facevo da bambina.

    Perché mi hai delusa? Con tanta fiducia

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