La vita che resta
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Info su questo ebook
Con una scrittura leggera e semplice l'autrice ci racconta le paure dell'Occidente e le incertezze quotidiane di una ragazza dei giorni nostri. Un romanzo di formazione attuale, veloce e limpido, come un'improvvisazione jazz.
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Anteprima del libro
La vita che resta - Marialuisa Favazzi
Emerson
1
La luce tenue di un debole raggio di sole brilla sul riflesso del manubrio della mia bicicletta mentre, finito il turno del mattino, pedalo verso la libreria Shakespeare and Company, il primo dei tanti posti che preferisco di Parigi. Quando posso rimango qui, a leggere un paio di capitoli e a farmi rapire da un impalpabile incantatore, elegante e posato, che gira su una nera e luccicante Citroën Traction Avant e danza a ritmo di charleston con Josephine Baker. Lo scintillìo degli abiti da sera con vertiginose scollature sulla schiena e lustrini e frange che volteggiano in questa festa privata piena di euforia. Gli années folles e l’Art déco. Un periodo storico che si è mosso a ritmo di jazz. Sogno a occhi aperti epoche lontane e mi dimentico del tempo che scorre fuori, nel mondo reale, così, all’improvviso, mi rendo conto di essere in ritardo.
Quando arrivo al Cafè, lei sta già sorseggiando la nostra bevanda preferita, un fumante grog. Mi fulmina con lo sguardo attraverso il vetro appena mi vede legare la bicicletta al palo della luce. Blanche e io siamo cresciute insieme, diverse ma insieme. Abbiamo cantato e ballato, ci siamo strette e consolate a turno. Abbiamo litigato, a volte, quando una non capiva più l'altra, ma ci siamo accorte che faceva sempre tutto parte di noi, del nostro rapporto che cresceva. La nostra forza è sempre stata legata alla nostra profonda diversità, e forse è proprio grazie a questo essere così diverse che tra noi si è solidificato un legame autentico, fatto di rispetto reciproco e profonda sincerità, uno di quei legami trasparenti e leali, rari da trovare.
Il secondo anno di scuola elementare era iniziato da mesi, la prima volta che vidi Blanche. Era una mattina come le altre quando, annunciata dall’insegnate, fece capolino dalla porta dell’aula. La madre si era trasferita dal nord della Francia, reduce dalla separazione col marito, ed erano appena arrivate a Parigi. Quando l’insegnante le chiese di scegliere un banco, lei sorridendo, con le mani incrociate dietro la schiena e le due trecce che ondeggiavano, venne dritta verso di me occupando il posto vuoto che mi stava accanto e da quel momento, quel posto, non lo ha mai più lasciato.
– Olivia, te l'avevo detto che saresti arrivata in ritardo un'altra volta.
– Hai ragione, scusa, hai ragione, e per farmi perdonare questa sera pago io – le rispondo mentre mi siedo al tavolino.
– Allora ne prendo subito un altro. – Fa cenno al cameriere di portargliene altri due, un altro per lei e uno per me.
– In realtà è stato un bene che tu sia arrivata in ritardo. Ho incontrato Gilbert, voleva vederti ma aveva un appuntamento di lavoro. È andato via un paio di minuti prima che arrivassi.
Forse sarà stato il fatto che non mi aspettavo neanche più di sentire il nome di Gilbert o forse perché nelle ultime tre settimane ho cercato in tutti i modi di infilare Gilbert nell’angolino più remoto e dimenticato di una cassetta minuscola e arrugginita, abbandonata chissà dove nella mia mente, fatto sta che non riesco a dire nulla. Blanche, che conosce i miei silenzi meglio di me, cambia discorso:
– Sembra stia arrivando la primavera. Tu che dici? Non ne potevo più di quell'odiosa pioggia...
2
Io e Gilbert ci siamo conosciuti all’Università, durante il primo e unico anno che ho frequentato alla Facoltà di Scienze Sociali. Lui ha continuato e terminato gli studi, io ho iniziato a fare la cameriera. Eravamo giovani e innamorati, forse più innamorati dell’amore che l’uno dell’altra, ma siamo stati insieme cinque anni. Cinque anni di progetti, di promesse, di crescere insieme per focalizzare gli obiettivi’’, come ripeteva sempre lui. Cinque anni di sacrifici, di doppi turni al lavoro per mettere da parte un gruzzoletto tale che ci avrebbe permesso di andare a vivere insieme. Cinque anni di intimità, quel genere di intimità che non pensi di poter trovare mai con nessun altro. Cinque compleanni di sorprese e ristoranti. Gilbert aveva un’innata predisposizione ad organizzare sorprese. Come quella volta che aveva riempito la camera in cui era in affitto, e nella quale coltivavamo il nostro amore, con palloncini gonfiati a elio che ridipingevano il soffitto di colori e, all’estremità di alcuni, c’erano legati dei lustrini e delle piccole lettere di carta che componevano la scritta
Buon compleanno amore’’; o come l’ultima volta, tre settimane fa, quando nella camera dell’appartamento in cui ci eravamo trasferiti sei mesi prima, l’ho trovato a letto con un’altra. Sooorpreeesa!
In un attimo la mia vita ha inchiodato davanti a quel letto. E non so perché in quel momento non riuscivo a fare a meno di pensare al film Sliding Doors, quello con Gwyneth Paltrow, e a cosa sarebbe successo se non fossi tornata a casa prima quel pomeriggio, se avessi preso il metrò dopo, se mi fosse venuto addosso un bambino con un bicchiere pieno d’acqua e mi avesse fatto ritardare cinque minuti. Quei cinque minuti che avrebbero permesso a Gilbert di finire la sua prestazione, congedare l’insipida biondina e farsi trovare come tutti i pomeriggi intento a digitare sul suo portatile. Invece no. Il caso, spietato, ha voluto che io entrassi proprio al culmine dell’amplesso così che erano talmente presi e urlanti da non accorgersi di una figura immobile alle loro spalle. Ops, Sooorpreeesa!
A volte vorrei tornare indietro a quel momento, come un nastro che si riavvolge velocemente e invece di rimanere impalata come uno stoccafisso, urlare tutta la mia delusione, tutto lo schifo e il dolore che mi ha trafitto e trapassato, afferrare l’insipida biondina per i capelli, scaraventarla giù dal letto e iniziare a prendere a sberle quell’ignobile stronzo. Invece sono rimasta lì, ferma, agghiacciata, inorridita, incredula, senza la forza di reagire.
Lo sguardo di Gilbert, perso e mortificato, simile a quello di un bambino che è stato appena scoperto a rubare le caramelle dalla credenza, era troppo da sopportare. Non gli avrei permesso di mostrare il suo senso di colpa, non in quel momento. In quel momento c’era il mio lecito dolore, non il suo.
Ho un vago e confuso ricordo di quello che è successo, sono scappata in lacrime correndo con tutto il fiato che avevo nei polmoni, nel tentativo di arrivare in un punto lontano dove tutto quel dolore non potesse raggiungermi,