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Accadde un giorno
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E-book183 pagine2 ore

Accadde un giorno

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Info su questo ebook

La vicenda si svolge in una cittadina del Colorado (Usa) e narra le disavventure di Alex, un architetto, che per motivi di lavoro viene inviato dagli studi di architettura Norman & Ass. di New York e Richmond & Co. di Denver per una consulenza al comitato cittadino circa l'approvazione del piano paesistico da sottoporre all'approvazione dell'ufficio Distrettuale.

A Evergreen Alex incontra Linda con la quale deve fronteggiare i tentativi di speculazione edilizia perpetrati da un proprietario terriero.

Dopo alterne vicende e imprevisti la storia assume un finale a sorpresa.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2020
ISBN9788831633963
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    Anteprima del libro

    Accadde un giorno - Massimo De Carolis

    leg­ge

    Introduzione

    Non so co­sa stia ten­tan­do di scri­ve­re, è so­lo che av­ver­to il bi­so­gno di pro­var­ci.

    So­no an­ni che pe­rio­di­ca­men­te ri­pe­to a me stes­so que­sta fra­se e pun­tual­men­te la di­sat­ten­do.

    Pi­gri­zia, ti­mo­re, in­ca­pa­ci­tà? Tem­po­reg­gio per non sa­per in­di­vi­dua­re qua­le ne sia l’im­pe­di­men­to che mi al­lon­ta­na dal com­pie­re que­st’at­to sem­pli­ce di ri­por­ta­re sul­la car­ta, an­che in for­ma con­fu­sa, ri­cor­di, sto­rie, im­ma­gi­ni.

    Da do­ve co­min­cia­re? Non lo so, i pen­sie­ri si ac­ca­val­la­no nel­la men­te e più mi spo­sto in­die­tro nel tem­po e più una fit­ta neb­bia ini­zia a ca­la­re e a co­pri­re ogni co­sa, fac­cio fa­ti­ca a pro­se­gui­re nei ri­cor­di che s’in­trec­cia­no sem­pre più con­fu­si.

    Que­sto tem­po­reg­gia­re, cer­ta­men­te, è so­lo un mo­do per non ini­zia­re ma co­mun­que vor­rei pro­va­re e poi pro­se­gui­re, con co­stan­za e con­cen­tra­zio­ne, an­no­tan­do, cor­reg­gen­do, can­cel­lan­do ma pur scri­ven­do, espri­men­do sen­sa­zio­ni e sta­ti d’ani­mo ac­cu­mu­la­ti­si nel cor­so de­gli an­ni.

    In real­tà di ten­ta­ti­vi ne ho fat­ti, con­fu­sa­men­te an­no­tan­do i ri­cor­di che si so­no suc­ce­du­ti e ac­ca­val­la­ti in que­sta vi­ta di­sor­di­na­ta.

    So­no con­sa­pe­vo­le di aver per­du­to tem­po, trop­po e di non aver­ne mol­to an­co­ra, que­sto pe­rò non sa­rà un im­pe­di­men­to.

    Sen­za al­tri in­du­gi de­si­de­ro met­ter­mi al­la pro­va e de­ci­der­mi a com­pie­re il pas­so.

    In que­sto ca­so ho esclu­so, al­me­no per ora di ri­per­cor­re­re fat­ti e cir­co­stan­te ac­ca­du­te nel cor­so del­la mia vi­ta, qua­si a vo­ler pren­de­re le di­stan­ze da me stes­so.

    Non c’è mai una sto­ria che pe­rò non pos­sa es­se­re rac­con­ta­ta, ma l’uni­ca che a ognu­no sem­pre re­sta la più dif­fi­ci­le, oscu­ra e ri­fiu­ta­ta, è in fon­do, la pro­pria.

    Le al­tre sto­rie han­no sem­pre bi­so­gno di per­so­ne, la pro­pria sia­mo noi stes­si, ovun­que sia­mo e sia­mo sta­ti ma non sia­mo co­sì tan­to obiet­ti­vi da ri­leg­ger­la sen­za fa­re omis­sio­ni e rein­ter­pre­ta­zio­ni.

    Le al­tre sto­rie han­no pe­rò bi­so­gno di luo­ghi fan­ta­sio­si, di sce­ne, di tem­po, d’im­ma­gi­ni e di co­lo­ri, la pro­pria è quel­la di tut­ti i gior­ni e di luo­ghi ve­ri e rea­li nei qua­li mi so­no sof­fer­ma­to, in ogni istan­te del­la mia vi­ta.

    Cer­che­rò, an­che se con pes­si­mi ri­sul­ta­ti di la­sciar­mi an­da­re co­me quan­do so­no da­van­ti ad una te­la, do­ve ini­zio con un se­gno o un co­lo­re, a de­scri­ve­re le mie per­ce­zio­ni che so­no, di fat­to, sto­rie o im­ma­gi­ni ir­rea­li, ma sem­bra­no, i ri­fe­rir­si a una real­tà.

    La mia sto­ria, co­me del re­sto quel­le di cia­scun al­tro, può es­se­re im­ma­gi­na­ta co­me un viag­gio, un cam­mi­no con­ti­nuo che ha una me­ta cer­ta la fi­ne del viag­gio bre­ve o lun­go il tem­po a di­spo­si­zio­ne.

    Que­sta sto­ria, am­met­to, non sa­prei di­re com’è na­ta e co­me si è im­prov­vi­sa­men­te re­sa con­cre­ta nel­la men­te, af­fe­zio­nan­do­mi, pas­so do­po pas­so, ai per­so­nag­gi e ai luo­ghi in cui si svol­ge.

    Gior­no do­po gior­no ho let­to di­ver­si au­to­ri, vi­sto film, ascol­ta­to mu­si­ca, spe­ran­do, co­me sem­pre, che i ra­gio­na­men­ti de­gli al­tri mi po­tes­se­ro aiu­ta­re a ester­na­re al me­glio i miei, pen­sie­ri nor­mal­men­te acer­bi, in­tri­ca­ti e rac­chiu­si, co­me bos­so­li, nel­la mia men­te che si schiu­do­no len­ta­men­te con mol­to di­sor­di­ne, ru­mo­reg­gian­do fin qua­si a stor­dir­mi per poi pren­de­re il vo­lo.

    Quan­do apro un li­bro, ho sem­pre il de­si­de­rio di tro­var­ci esi­bi­ta tut­ta una vi­ta o al­me­no po­ter cre­de­re, se leg­gen­do, se per lun­ghe ore, ri­leg­gen­do tut­to in un fia­to, mi pos­sa re­sta­re, al­la fi­ne, qual­co­sa del mon­do di chi scri­ve, im­me­de­si­man­do­mi nel suo per­so­nag­gio, che in ge­ne­re è lo stes­so au­to­re o ciò che lui stes­so avreb­be vo­lu­to es­se­re.

    Se non leg­go per gior­ni, sa­le la sen­sa­zio­ne di non aver so­gna­to ad oc­chi aper­ti, per­ché da­van­ti an­zi di­rei den­tro le pa­ro­le e le im­ma­gi­ni che si crea­no, io vi­vo.

    Fe­li­ce, tal­vol­ta, in­ter­rom­po la let­tu­ra per se­gui­re den­tro di me fan­ta­sie che si so­no ge­ne­ra­te e le mil­le di­re­zio­ni che i miei pen­sie­ri han­no pre­so va­gan­do nel­lo spa­zio, in­cre­di­bi­li mi­ste­ri di que­sto mon­do e dell’Uni­ver­so.

    Poi per in­can­to ho ini­zia­to a scri­ve­re que­sta sto­ria.

    Accadde un giorno.

    L’in­fer­mie­ra en­trò nel­la stan­za e co­sta­tan­do che ave­vo gli oc­chi aper­ti, con un gran sor­ri­so dis­se:

    << Ben tor­na­to tra noi si­gnor Alex.

    << Ve­do con pia­ce­re che lei sta­ma­ne sta me­glio ed è co­scien­te, an­che se non ne è an­co­ra com­ple­ta­men­te con­sa­pe­vo­le.

    << Ha dor­mi­to per tre gior­ni di fi­la, ve­drà, che a po­co a po­co, si ri­met­te­rà.

    << Più tar­di tor­ne­rò con il me­di­co che le fa­rà un nuo­vo con­trol­lo.

    << Dall’espres­sio­ne dei suoi oc­chi ca­pi­sco che lei è co­scien­te che può sen­ti­re e que­sto mi fa pia­ce­re.

    << È una bel­la gior­na­ta di so­le, ora le apro un po­co le ten­de per far fil­tra­re la lu­ce.

    Poi av­vi­ci­nan­do­si di nuo­vo al let­to con­trol­lò il bat­ti­to del pol­so che ri­sul­tò re­go­la­re co­me il re­spi­ro, con­trol­lò an­che la fa­scia­tu­ra del­la te­sta per ac­cer­tar­si, co­me le era sta­to rac­co­man­da­to, che fos­se in or­di­ne e co­sì il bu­sto or­to­pe­di­co, che ave­va la fun­zio­ne di le­ni­re even­tua­li fit­te in ca­so di mo­vi­men­ti bru­schi del cor­po.

    << E’ sta­to, il suo, un brut­to in­ci­den­te ma per for­tu­na le con­se­guen­ze non so­no sta­te co­sì gra­vi, oc­cor­re­rà pe­rò an­co­ra tem­po, tan­ta pa­zien­za e cu­re pri­ma che po­trà ri­pren­der­si del tut­to.

    << Ora stia tran­quil­lo più tar­di, se lo vor­rà, fa­re­mo due chiac­che­re, uscen­do dis­se;

    << Mi chia­mo Sa­ra, con la ma­no fe­ce un se­gno di sa­lu­to.

    Sen­ti­vo la sua vo­ce e po­te­vo ve­der­la so­lo quan­do era di­fron­te al mio sguar­do. Sen­ti­vo di non po­ter­mi muo­ve­re con li­ber­tà, uno sta­to di con­fu­sio­ne cir­con­da­va la men­te, per­ce­pii pe­rò il toc­co de­li­ca­to del­le sue ma­ni, ri­chiu­si gli oc­chi quan­do mi ar­ri­vò im­per­cet­ti­bil­men­te il suo­no del­lo scat­to del­la por­ta che si chiu­de­va.

    Che co­sa fos­se ac­ca­du­to e do­ve fos­si non ne ave­vo la più pal­li­da idea e po­co m’im­por­ta­va di sa­per­lo, ero con­sa­pe­vo­le so­lo di non aver­ne la ca­pa­ci­tà di rea­gi­re.

    Pas­sai co­sì al­cu­ne ore in si­len­zio, men­tre im­ma­gi­ni con­fu­se, mi scor­re­va­no nel­la men­te.

    Nel tor­po­re i pen­sie­ri ri­tor­na­no a flut­tua­re, mi par­la­va­no, li ascol­ta­vo, m’in­ci­ta­va­no af­fin­ché po­tes­se­ro tor­na­re a ri­pren­der­si il lo­ro po­sto che gli spet­ta­va di di­rit­to, per da­re un va­lo­re al­la mia esi­sten­za.

    La vi­ta sem­bra scor­rer­mi ac­can­to si­len­zio­sa, mi se­gue, mi os­ser­va e an­no­ta tut­te le pic­co­le azio­ni e ho la sen­sa­zio­ne che se mi di­strag­go, po­trei per­der­le ir­ri­me­dia­bil­men­te.

    Nel pro­ce­de­re, so­prat­tut­to in gio­va­ne età non si tie­ne con­to dei gior­ni, del­le sta­gio­ni, del tem­po che scor­re ve­lo­ce­men­te o len­ta­men­te.

    Nell’avan­za­re de­gli an­ni ci si ren­de con­to che il tra­scor­re­re di ogni at­ti­mo in mo­do, con­sa­pe­vo­le o me­no, si ha la sen­sa­zio­ne di cam­mi­na­re sem­pre in bi­li­co su di­ru­pi sco­sce­si pron­ti a ca­de­re.

    So­spe­so in que­st’at­te­sa vuo­ta sen­za si­gni­fi­ca­ti, sen­za mo­ti­vi né per­ché, tut­te le mie ener­gie sem­bra­no es­ser­si esau­ri­te, sva­ni­te, e la sen­sa­zio­ne pre­va­len­te è lo spre­co dei gior­ni che tra­scor­ro­no, un lus­so che pos­so per­met­ter­mi, con­sa­pe­vo­le del fat­to che di gior­ni me ne re­sta­no po­chi.

    Re­sta­re ab­ban­do­na­to e va­ga­re con la men­te, sem­bra un vi­ve­re con­ge­la­to ed è co­me pro­cu­rar­si un sup­ple­men­to d’ine­dia, che im­pe­di­sce all’in­tel­let­to di am­plia­re il ma­gaz­zi­no del­la me­mo­ria pre­clu­den­do­si di ac­qui­si­re nuo­ve sen­sa­zio­ni e nuo­ve per­ce­zio­ni.

    Tut­to ciò lo sen­ti­vo spes­so quan­do, con l’avan­za­re de­gli an­ni, mi sem­bra­va qua­si di non aver più pro­get­ti per il bre­ve fu­tu­ro che mi re­sta­va, cor­ren­do il ri­schio di non es­se­re più in gra­do di ap­prez­za­re il pre­sen­te qua­lun­que es­so fos­se.

    Non è, pe­rò, an­co­ra il tem­po di ri­nun­ce e di rim­pian­ti, pos­so an­zi de­vo, con im­pe­gno in­di­riz­zar­mi ver­so nuo­vi, an­che se mo­de­sti oriz­zon­ti e se sin d’ora so­no so­prav­vis­su­to, una ra­gio­ne ci sa­rà pu­re e quin­di è me­glio uti­liz­za­re que­sto tem­po.

    Chiu­do gli oc­chi e so­gno, so­gno la tran­quil­li­tà di un cie­lo pri­ma del tem­po­ra­le, so­gno il leg­ge­ro fru­scio del­le fo­re­ste pri­ma che si le­vi il ven­to e scom­pi­gli le fo­glie co­me i ri­cor­di del tem­po pas­sa­to si­mi­li a fra­gi­li ra­mi pron­ti a spez­zar­si.

    So­gno la quie­te del ma­re pri­ma del­la tem­pe­sta, so­gno co­me si ascol­ta il si­len­zio del­la mon­ta­gna.

    In que­sto so­gna­re pos­so ri­per­cor­re­re i mo­men­ti del mio pas­sa­to.

    Tut­to que­sto, mi chie­do se in un at­ti­mo s’in­ter­rom­pe­rà per un bru­sco ri­sve­glio.

    Non so quan­to tem­po sia pas­sa­to, mi so­no sen­ti­to sol­le­va­re dal let­to e mes­so su di una let­ti­ga, so­no sta­to tra­spor­ta­to lun­go un cor­ri­do­io, le lam­pa­de al sof­fit­to m’in­fa­sti­di­va­no e ciò vuol di­re che rea­gi­vo, ve­de­vo una nuo­va stan­za, do­ve mi aspet­ta­va­no un dot­to­re, una dot­to­res­sa e due in­fer­mie­re che ini­zia­ro­no a to­glier­mi le fa­scia­tu­re, le lo­ro vo­ci mi ar­ri­va­va­no con­fu­se ma tran­quil­liz­zan­ti nel con­fer­ma­re che le mie fe­ri­te era­no or­mai ri­mar­gi­na­te.

    << Le fa­re­mo del­le nuo­ve fa­scia­tu­re, so­lo al brac­cio e al­la gam­ba de­stra, che ter­rà per qual­che gior­no an­co­ra, poi ini­zie­rà un pe­rio­do di ria­bi­li­ta­zio­ne mo­to­ria per riac­qui­sta­re la sua au­to­no­mia fi­si­ca, nel frat­tem­po con­ti­nue­re­mo le cu­re me­di­che per rie­qui­li­bra­re il suo sta­to fi­sio­lo­gi­co, pre­sto tor­ne­rà ad ali­men­tar­si re­go­lar­men­te.

    Con­clu­sa la con­va­le­scen­za tor­ne­rà a sal­ta­re co­me un gril­lo ora pe­rò tor­ni a ri­po­sa­re e se avrà ne­ces­si­tà non si fac­cia scru­po­lo nel chia­ma­re l’in­fer­mie­ra che la as­si­ste pe­rio­di­ca­men­te.

    So­no dun­que ri­co­ve­ra­to in un Ospe­da­le, pen­sai, ma co­sa mi sa­rà suc­ces­so di co­sì gra­ve, ho avu­to un ma­lo­re? So­no ca­du­to? So­no sta­to vit­ti­ma di un in­ci­den­te? Non ne ave­vo la pur mi­ni­ma sen­sa­zio­ne di ciò.

    Nei gior­ni suc­ces­si­vi, tut­to si svol­se all’in­se­gna del re­cu­pe­ro fi­si­co e psi­chi­co.

    Il mat­ti­no pre­sto ir­rom­pe­va Pa­me­la, l’in­ser­vien­te, una ro­bu­sta don­na sem­pre sor­ri­den­te il cui com­pi­to era di cu­ra­re l’igie­ne, la toi­let­te e di vol­ta in vol­ta sbar­bar­mi e rias­set­tar­mi, po­co più tar­di, cir­ca ver­so le no­ve ar­ri­va­va l’in­fer­mie­ra Sa­rah che si pro­di­ga­va ai con­trol­li ge­ne­ra­li: la mi­su­ra­zio­ne del­la tem­pe­ra­tu­ra, l’even­tua­le pre­sen­za d’in­fe­zio­ni e di al­ler­gie, la ve­ri­fi­ca del­lo sta­to del­le fa­scia­tu­re e l’as­sun­zio­ne dei me­di­ci­na­li pre­scrit­ti nel­la sche­da, in par­ti­co­lar mo­do gli an­ti­do­lo­ri­fi­ci, ol­tre ad un va­go ten­ta­ti­vo di far­mi in­ge­ri­re li­qui­di ri­co­sti­tuen­ti al­lo sco­po di in­te­gra­re la scar­sa vo­lon­tà di ali­men­tar­mi.

    Ri­pren­de­vo, a po­co a po­co, a es­se­re più con­sa­pe­vo­le e co­scien­te a me stes­so, era evi­den­te che ero ri­co­ve­ra­to in un ospe­da­le a cau­sa di gra­vi trau­mi su­bi­ti, ma il qua­dro di ri­fe­ri­men­to era an­co­ra oscu­ro, a trat­ti ri­cor­dai di es­ser­mi im­bar­ca­to su un ae­reo ma non ave­vo an­co­ra lo­ca­liz­zan­do da do­ve ero par­ti­to né do­ve ero di­ret­to, né tan­to me­no il mo­ti­vo del viag­gio.

    Mi sfor­za­vo di ri­co­strui­re i più pic­co­li bran­del­li di ri­cor­di che mi flut­tua­va­no all’im­prov­vi­so, sen­za pe­rò riu­sci­re ad af­fer­rar­li ne tan­to me­no a ri­com­por­li, al­me­no in par­te, in qual­co­sa di tan­gi­bi­le e sen­sa­to.

    La mia con­di­zio­ne fi­si­ca, mi­glio­ra­va ra­pi­da­men­te, ini­ziò il pe­rio­do del­la ria­bi­li­ta­zio­ne mo­to­ria per riar­ti­co­la­re i mu­sco­li del­le gam­be e del­le brac­cia, pur aven­do an­co­ra, in par­ti­co­la­re, la gam­ba de­stra fer­ma­ta da una stret­ta fa­scia­tu­ra.

    L’in­fer­mie­re Pe­ter ad­det­to, a ta­li com­pi­ti, mi por­ta­va il po­me­rig­gio, per al­me­no un’ora con­se­cu­ti­va, in una stan­za che per ar­ri­var­ci oc­cor­re­va pren­de­re l’ascen­so­re.

    La stan­za era at­trez­za­ta per le ria­bi­li­ta­zio­ni mo­to­rie, una stan­za gran­de che da un la­to con­te­ne­va una pic­co­la pi­sci­na e in que­sto luo­go eb­bi l’oc­ca­sio­ne di ve­de­re al­tre per­so­ne, uo­mi­ni don­ne ed an­che ra­gaz­zi tut­ti con pro­ble­ma­ti­che in par­te si­mi­li, o di­ver­se dal­le mie, tut­ti in­ten­ti a ese­gui­re eser­ci­zi di ria­bi­li­ta­zio­ne.

    Mi re­si con­to che per al­cu­ni la si­tua­zio­ne, al­me­no ri­spet­to al­la mia, era mol­to più di­spe­ra­ta.

    Pe­ter pa­zien­te­men­te mi aiu­ta­va a svol­ge­re gli eser­ci­zi mo­to­ri la­scian­do­mi poi la giu­sta au­to­no­mia nell’ese­guir­li.

    In se­gui­to, fat­ta la doc­cia, mi por­ge­va un ac­cap­pa­to­io per asciu­gar­mi e mi ri­con­du­ce­va nel­la mia stan­za.

    Lun­go il per­cor­so po­te­vo per­ce­pi­re una leg­ge­ra mu­si­ca pro­ve­ni­re da­gli al­to­par­lan­ti di­slo­ca­ti sui sof­fit­ti, pro­va­vo un sen­so di an­go­scia im­ma­gi­nan­do di re­sta­re per il re­sto del­la mia vi­ta re­clu­so in que­sto luo­go di ria­bi­li­ta­zio­ne e non na­scon­do che per la pri­ma vol­ta sen­tii il de­si­de­rio del­la fu­ga.

    Un po­me­rig­gio rien­tran­do nel­la stan­za, sem­pre as­si­sti­to da Pe­ter, mi re­si con­to

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