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Dal Congo in Italia come in un sogno
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E-book372 pagine5 ore

Dal Congo in Italia come in un sogno

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Info su questo ebook

È la storia vera di un congolese che cresce nella Repubblica Democratica del Congo e quasi per caso approda in Europa tra Vicissitudini, Incontri Speciali, Fatalità, Coincidenze. Le Emozioni, le Aspettative, le Delusioni e le Conquiste della vita vengono narrate con tono semplice e diretto; l’Europa affrontata dall’altra parte, con occhi di un giovane uomo tenace e coraggioso. Un confronto diretto, consapevole e rispettoso delle diversità culturali viste come motore di unione ed evoluzione. Una voce onesta e diretta nel marasma dell’immigrazione che caratterizza questo nuovo millennio.
LinguaItaliano
Data di uscita19 giu 2013
ISBN9788891114303
Dal Congo in Italia come in un sogno

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    Anteprima del libro

    Dal Congo in Italia come in un sogno - Issiya Longo

    lettura.

    La mia infanzia

    Originario della regione forestale dell’Equatore nel Nord-Ovest del Congo, sono nato il 17 Aprile 1973 a Kinshasa, la capitale, città nella quale sono rimasto soltanto per pochi anni. Mio padre, Bengongo François, dopo il divorzio a Kinshasa dalla prima moglie e madre dei suoi primi cinque figli, decise di contattare i genitori residenti a Boende Bakoyo Etoo, suo villaggio natale situato nelle vicinanze di Mbandaka, capoluogo della regione dell’Equatore; secondo le tradizioni locali, affidò loro il compito di trovargli una fidanzata che sarebbe poi diventata la sua seconda moglie, dopo una prima esperienza completamente negativa. Fu così che mia madre, Iloko Marie-Louise, dopo il consenso dei suoi genitori, da Mbandaka dove studiava lo raggiunse rapidamente a Kinshasa per costituire insieme un nucleo familiare che vedrà nascere altri cinque figli, di cui io sono il secondo. Affidandomi ai racconti di mia madre, la mia nascita fu particolare. La mattina in cui venni alla luce mio padre le chiese, come faceva tutti i giorni fin dall’ottavo mese di gravidanza, come si sentiva e se poteva tranquillamente recarsi a lavoro. Vai pure, non sento niente, il bambino non nascerà di certo oggi, gli rispose la mamma. Papà se ne andò a lavoro, rassicurato dalla risposta di mia madre totalmente ignara dell’esito delle ore successive. Quando decisi di venire al mondo, la sorpresi con improvvise, frequenti e lunghe contrazioni. Ai suoi gemiti accorse una vicina di casa che, colta dalla sorpresa e non possedendo alcun mezzo di trasporto, si affrettò a chiamare un taxi in modo da raggiungere l’ospedale più vicino. Purtroppo, il taxi arrivò dopo un’ora e mezza e al momento della salita sul veicolo, successe quello che si tentava di evitare; nacqui all’istante, provocando panico e preoccupazione. L’autista, disorientato, accese il motore della sua vecchia Renault 4 e partì, affrettandosi verso l’ospedale. Mia madre dice che fu un momento intenso, non ricorda di averne vissuti altri simili. Devo la vita alla signora Eugenie, la vicina di casa che nel tratto tra il taxi e l’ospedale si occupò totalmente del parto, muovendosi con la cautela e la bravura di un’ostetrica. Non aveva mai assistito ad un simile evento ma si comportò da vera professionista. Il taxi era ormai sporco di sangue, il suo proprietario terrorizzato, incredulo e un po’ seccato dell’accaduto. L’urgenza era di raggiungere l’ospedale, cosa che facemmo senza perdere molto tempo. Una volta all’Ospedale Maman Yemo, fummo condotti nel reparto di ostetricia dove la mamma ed il suo neonato, io, ebbero le prime cure. Non avendo alcun mezzo di comunicazione per contattare mio padre, mamma affidò alla signora Eugenie il compito di informarlo dell’accaduto al suo rientro da lavoro.

    Quando papà, arrivato a casa senza trovarvi nessuno, apprese le circostanze della mia nascita, pensò subito al nome appropriato da assegnare al misterioso bambino. Non ebbe alcun dubbio: Questo bambino si chiamerà Itonde Y’Elima Y’a Ndoki N’Efandje, un lunghissimo nome che abbreviato divenne Ithos. Ricevetti quest’appellativo in onore di un mito delle nostre foreste, personaggio chiave dell’epopea Lianja, molto famosa in Congo. Infatti, Itonde Y’elima Ya Ndoki N’Efanje era un bambino misterioso e coraggioso che, ancora nella pancia della madre prima della nascita, ne usciva e ci tornava a piacimento. Si narra che la notte Itonde si allontanasse dalla madre per cibarsi delle riserve della famiglia. Non soddisfatto del nutrimento tramite la madre, usciva e mangiava come un adulto, approfittando del sonno dei genitori. Solo la mattina al risveglio, i genitori notavano la mancanza del cibo gelosamente conservato la sera prima. Nessuno era riuscito a sorprenderlo fino al giorno in cui il padre, stanco della situazione protrattasi per mesi, tese una trappola. Era deciso a scoprire chi fosse il misterioso ladro che sottraeva le modeste riserve di cibo alla sua famigliola. Itonde non riuscì a fare rientro nella pancia della madre, saldamente bloccato dalla trappola: una rete da pesca che cadde su di lui all’entrata in cucina. Interrogato dal padre, dichiarò di esserne il figlio, il bambino di cui tutta la famiglia era in attesa. Per convincere il genitore incredulo e diffidente, lo invitò a controllare lo stato di gravidanza della moglie. Avvicinando la sua sposa profondamente addormentata, con stupore l’uomo constatò che lei aveva effettivamente sgravato. La mattina successiva fu organizzata una grande cerimonia durante la quale, senza rivelare come, il bambino misterioso fu ufficialmente dichiarato nato.

    Mio padre decise quindi di chiamarmi Ithos, sostenendo che l’evento della mia nascita gli ricordava la storia di Itonde. In famiglia il nome fu accolto con entusiasmo, tutti furono meravigliati dalle circostanze della mia nascita. Questo non è il mio unico nome ma è il più usato da tutti i miei più stretti parenti che ricordano così la famosa epopea Lianja.

    Ho trascorso la prima infanzia a Kinshasa con mia sorella maggiore, Francine B. e il mio fratellino Credo B. il cui nome trae origine dalla fede religiosa dei miei genitori. Infatti, mia madre, gravida e gravemente ammalata, la notte era tormentata da lunghi e movimentati incubi. La mattina, al suo risveglio, mio padre le raccontava come, nel sonno, citava ripetutamente una frase ben precisa: Credo in un unum Deum ma, lei ricordava solo gli infiniti incubi che minacciavano la sua vita e quella del figlio in grembo. Da fermi credenti cattolici, decisero allora di chiamare il figlio nascente Credo. In seguito nacquero altre due sorelle, Adeste B. nata 8 anni dopo Credo e Nicky Botolo la cui nascita, secondo mia madre, fu una sorpresa totale. Come Credo, anche il nome Adeste è legato alla fede dei miei genitori. Mio padre lo scelse semplicemente perché, il giorno della sua nascita, passammo l’intera notte in salotto ascoltandolo cantare le canzoni ecclesiastiche latine della sua infanzia. Si soffermò molto sulla canzone adeste fideles, fatto che lo indusse alla scelta di quell’inaspettato nome. Tutti noi la chiamiamo affettuosamente Adestine Fideline. Ancora in ospedale, nostra madre fu sorpresa da quello che definì uno stranissimo nome; lei ne aveva scelto un altro che considerava più significativo ed estremamente legato al contesto della nascita di Adeste. Voleva chiamarla Espérance a causa del lungo periodo trascorso tra le due gravidanze, quella di Credo e quella della neonata, durante il quale ebbe paura di non poter più avere figli. Mamma si arrese di fronte all’entusiasmo e alla tenacia di nostro padre.

    Durante la nostra infanzia, alla fine di ogni anno scolastico, i nostri genitori erano soliti accompagnarci dai nonni nel villaggio Boende, situato alle porte della foresta nella regione dell’Equatore. Guardando la carta geografica del Congo, questa regione si colloca nella parte Nordoccidentale del paese ed è una zona prettamente forestale. I villaggi dei miei genitori si trovano l’uno accanto all’altro lungo una strada sterrata e sono letteralmente circondati da alberi tanto grandi che, a partire dalle quattro del pomeriggio, le abitazioni scompaiono in un’immensa e brusca penombra, fenomeno che potrebbe essere definito prematuro se consideriamo l’ora in cui generalmente tramonta il sole. Questo si giustifica per il fatto che i raggi del sole al tramonto, deboli e tiepidi, non riescono a penetrare le enormi foglie e i rami dei Baobab ed altri alberi dalle dimensioni stupefacenti che circondano i nostri villaggi. Viceversa, all’alba mattutina si assiste ad un altro genere di spettacolo a sua volta tanto bello e divertente: al sorgere del sole i raggi non riescono ad illuminare direttamente il nostro villaggio nonostante la loro potenza, ma quando fanno capolino attraverso delle piccole fessure che si creano tra un albero e l’altro, il fascio di luce emesso dal sole dà luogo ad uno spettacolo unico nel suo genere. La luce abbagliante dei raggi solari che s’incrociano gli uni con altri crea un’atmosfera da film nel quale, se l’attore si deconcentra e tocca anche solo uno di essi, fa immediatamente scoccare l’allarme. Sembra di stare in una stanza chiusa e incredibilmente buia il cui tetto, composto da migliaia di buchi, fa filtrare in un intreccio naturale la luce dei raggi del sole. È un fenomeno di straordinaria bellezza!

    Parlare di Boende e dei suoi abitanti non è cosa facile. Tuttavia, ciò che posso dire è che, nonostante lo scempio naturalistico degli ultimi anni ad opera di alcune multinazionali, questa terra ha la fortuna di mantenere ancora parte importante della sua natura, grazie a foreste equatoriali così estese e pericolose nelle quali nemmeno gli stessi suoi abitanti osano avventurarsi; tutti sanno che esistono dei limiti oltre i quali è meglio non arrischiarsi. Nella foresta regnano infiniti misteri, motivo per cui, confidando profondamente nei gris-gris, nei guru, nelle forze benigne e maligne, nella stregoneria, nel potere degli antenati e in tante altre credenze del posto, i miei fratelli di Boende non si fanno illusioni, aspettandosi di tutto nel momento in cui si accingono a penetrare la giungla misteriosa. Di solito, prima di andarvi, invocano gli antenati al fine di ottenerne la protezione. Sono tanti i pericoli che si corrono in quelle foreste; dagli animali feroci agli insetti pericolosi, questa giungla spaventa persino chi è dotato di un forte senso dell’avventura. Ciò nonostante, gli abitanti di Boende non possono farne a meno perché rimane la principale fonte d’approvvigionamento, un importante punto di riferimento e rifornimento per il villaggio. Questo luogo e tutte le attività ad esso correlate sono l’argomento di principale discussione e occupano quindi un ruolo fondamentale nella vita a Boende. Infatti, per procurarsi il pasto quotidiano, alcuni medicinali, l’acqua, le materie prime come il legno per scaldarsi e costruire gli utensili per la caccia e la pesca, gli abitanti del villaggio non hanno altro luogo dove andare se non la foresta. Questo giustifica gli infiniti viaggi di andata e ritorno che occupano la maggior parte del tempo dei miei fratelli di Boende, il mio amatissimo villaggio che non vedo dal lontano 1981, quando mia madre decise di venirmi a prendere. Infatti, durante un viaggio a Boende, i miei nonni materni Cateina (Caterina) Ngelè e Petelo (Pietro) Bolèkèlà decisero che non sarei tornato in città insieme ai miei genitori ed ai miei due fratelli Francine e Credo. Questa decisione fu motivata dal fatto che io, essendo il primo nipote di sesso maschile della famiglia, dovevo stare un po’ di tempo con i nonni, beneficiando in questo modo di certi insegnamenti importanti che solo loro e il villaggio erano in grado di trasmettermi. Da parte mia, anche se ancora piccolo ed ignaro della trattativa familiare, la richiesta non rappresentò un problema perché tra me e i nonni c’erano tanto amore e tanta complicità. In diverse occasioni, infatti, avevo dimostrato di preferire la nonna Ngelè a mia madre, cosa che quest’ultima tollerava a fatica. I miei genitori invece fecero di tutto perché non rimanessi nel villaggio ma la tenacia dei nonni, aiutati anche dalla mia voglia di rimanere con loro, fu determinante per il seguito. Quel giorno, mentre papà, mamma e fratelli salivano sul camion diretti a Mbandaka dove avrebbero preso l’aereo per Kinshasa, io mi nascosi dallo zio Bonyos, ignaro della mia presenza in casa sua. Malgrado i disperati pianti di mia madre, l’autista ordinò a tutti di salire: andiamo, non posso più tardare un solo minuto, urlò rivolgendosi a mio padre. Fu così che rimasi a Boende dove, durante tutta la mia permanenza, imparai tante cose che mai la città avrebbe potuto insegnarmi. Ricordo bene la mia prima pesca, la prima trappola aiutato dal nonno Petelo che era solito spiegarmi i vari sentieri degli animali che popolano le nostre foreste. In un tempo record riuscii a distinguere il sentiero di un’antilope da quello di un cinghiale, quello dei ratti da quello degli scoiattoli e così via. Quel giorno, quando per la prima volta mio nonno mi portò nella foresta, mi disse una cosa, una vera lezione di vita che tuttora considero importante. Mi disse: Figliolo, questa foresta che oggi scoprirai è fatta di tanta vegetazione, tanti animali e tante trappole. Devi sapere questo; ogni singola trappola appartiene a colui che l’ha tesa. Perciò, non è permesso a nessuno di avvicinare le trappole che non gli appartengono, toccarle, sistemarle o ritirarne le eventuali prede. Anche quando il cibo scarseggia a casa tua, non ritirare mai niente da una trappola che non è tua. Nel nostro villaggio abbiamo tanti valori. Tra questi, la dignità e l’onore occupano un posto non di scarsa importanza. Voglio che tu impari il buon senso e, ovunque tu andrai, che sia nel villaggio qui vicino o lontano, là, verso il mondo dell’uomo bianco, ricordati sempre che quello che non appartiene a te appartiene a qualcun altro. Solo quest’ultimo ha il diritto di usare a piacimento ciò che è di sua proprietà. D’altronde, a cosa serve rubare una preda dalla trappola quando, come avrai notato, ciò che viene portato al villaggio è condiviso da tutti noi? Mi raccomando figliolo, mai appropriarsi di ciò che non ti appartiene. Ancora oggi, molti anni dopo l’episodio, quando penso a queste parole mi s’illuminano gli occhi e sento una grande nostalgia del nonno. Nelle sue parole è come un profeta; egli aveva presagito un lungo viaggio che mi avrebbe portato fino in Europa, a migliaia di chilometri da Boende. Nel 2003, quando fui informato della sua morte avvenuta all’ottantacinquesimo compleanno, la prima cosa cui pensai furono i suoi preziosi insegnamenti. Per lui porto un lutto senza fine!

    Prima della partenza, mia madre fece una raccomandazione importante alla nonna: Sei riuscita a tenerti mio figlio. Ricordati però una cosa: domattina, quando si sveglierà, la prima cosa che farai sarà portarlo dai missionari del villaggio e iscriverlo a scuola. Mio figlio non deve perdere l’anno scolastico, vittima dei vostri capricci. Se succedesse questo, non ve lo perdonerei mai. E così fece la nonna Ngelè. Il giorno successivo mi portò dai missionari che, senza condizioni, mi accettarono fra i loro alunni. Fu così che continuò la mia avventura nel villaggio, un’intensa vita divisa tra la scuola e le esperienze nella foresta. Io e i miei compagni avevamo un’attività preferita: la pesca. Era un’occupazione divertente. L’abbondanza dei pesci nelle acque delle nostre foreste rendeva la loro cattura facile e divertente. Per quest’attività, eravamo soliti portare delle bottiglie di vetro raccolte nella spazzatura della parrocchia, contenitori nei quali mettevamo i piccoli pesci freschi, appena pescati. Alcune volte riuscivo a portare a casa sette, otto o nove bottiglie che tenevo nella cucina della nonna, piccola ma essenziale; quando ero stanco le chiedevo di cucinarmeli, altrimenti lo facevo io. Tuttavia, nel villaggio, il momento più eccitante rimaneva senz’altro la stagione secca tra giugno e settembre. Le acque evaporano, gli alberi si seccano, facilitando le attività di pesca e di caccia. Dove invece persiste l’acqua, le donne, armate di secchielli, hanno il compito di svuotare tutto, operazione che si svolge in un clima di festa accompagnato da storiche canzoni in rapporto con l’attività. Non lontano dai rigagnoli secchi, altri gruppi di persone si danno alla raccolta di bruchi. Gli alberi seccati e spogliati delle loro foglie letteralmente bruciate dal sole cocente di questa stagione, non rappresentano più un riparo per i loro abitanti; i bruchi, a questo punto, precipitano verso la vegetazione sottostante. Questi insetti, ricchi di proteine, sono uno degli alimenti preferiti del villaggio e anche del sottoscritto. La loro raccolta è uno spettacolo divertente: arrivati sotto un albero dove si nota la presenza di bruchi, l’unica cosa da fare è raccogliere quelli già caduti e aspettarne altri a cascate intermittenti. Per questo, al rumore caratteristico della loro caduta, c’è una corsa competitiva e disordinata dei raccoglitori e lo spettacolo cui si assiste è molto divertente.

    Nel villaggio però, così come in tutto il nostro pianeta, non esistono solo divertimenti e piaceri. Ci sono anche dolori, rappresentati da eventi come la morte, le malattie, le epidemie. In questo luogo sperduto, la gente sopravvive alle malattie nell’ottanta percento dei casi grazie alle cure tradizionali e alle credenze popolari tramandate da generazioni. Qui la medicina occidentale è rara a causa della scarsità dei mezzi di comunicazione. Allora, per curare le malattie o lottare contro gravi epidemie, le popolazioni si affidano all’antica tradizione popolare e a tutto ciò che ne è legato. Ricordo vagamente una singolare pratica di lotta contro le epidemie, la tradizionale cerimonia dell"Ewowongo", parola magica usata per cacciare spiriti e venti cattivi che minacciano la serenità del villaggio. In questa parte del Congo, i confini dei villaggi sono segnati o da un corso d’acqua, o da un pezzo di foresta. Questi spazi, oltre che a servire da confini, hanno anche altre funzioni. Infatti, alla comparsa di un’epidemia, si assiste ad una pratica secolare che gli abitanti di questi villaggi stimano molto efficace. Il primo villaggio dove si manifesta la malattia aspetta la notte fonda; poi tutti, dai bambini ai vecchi, si svegliano verso le tre di notte e, muniti di rametti di palma, si recano verso il confine, rumoreggiando ed emettendo particolari suoni. Nessuno, neanche i neonati, può rimanere in casa per il rischio di contrarre la temuta malattia. Arrivati al confine, tutti gettano i rami di palma emettendo all’unisono un urlo finale che, secondo le credenze, trasferisce la malattia verso il villaggio adiacente. A questo punto, chi riceve dovrà attendere la notte successiva per ripetere la stessa operazione verso il seguente villaggio. Questa procedura si ripeterà fino a raggiungere l’ultimo villaggio dopo il quale non esiste nient’altro che foresta. Una notte, infatti, mi svegliai alle urla di mia nonna e di tutti gli abitanti del villaggio. Non riuscivo a capire l’accaduto. La nonna mi prese la mano invitandomi ad uscire con lei. Assonnato e incapace di camminare, non capivo cosa stesse succedendo. Vidi solo le case svuotarsi dei loro occupanti; tutti, con un ramo di palma in mano, si dirigevano verso Ilube, un ruscello confinante con il villaggio di Mpama. Non essendoci la corrente elettrica, le case di Boende sono illuminate dalle tradizionali lampade a petrolio. Lo spettacolo di queste lampade tenute con una mano e dei rami di palma con l’altra fu così impressionante da svegliarmi completamente e farmi camminare con lucidità. Quando arrivammo a Ilube, tutti gettarono i rami e fecero un gran rumore in segno di liberazione dall’epidemia. Dopo questo rituale tornammo a casa, tutti in un silenzio tombale. Non ti azzardare a dire una sola parola, mi sussurrò all’orecchio la mia amatissima nonna Ngelè. La mattina seguente, stupefatto e confuso, le chiesi il significato di ciò che vidi e lei, con grande calma, spiegò che il villaggio era andato a liberarsi della malattia che lo minacciava. Tuttora non so di che malattia si trattasse e, ogni volta che gliene chiedo la natura, nonna Ngelè si limita ad affermare che quella dell’Ewowongo è una pratica secolare che si verifica alla manifestazione di qualsiasi epidemia. Secondo lei e tutti gli abitanti del villaggio, Ewowongo è un rito efficace, necessario e credibile.

    Yves, mamma e Francine, all’aeroporto Ndjili di Kinshasa prima di un viaggio a Boende.

    La vita dei giovani nei villaggi dell’Equatore

    In molti villaggi africani, e così anche nel mio, i giovani hanno dei sogni totalmente diversi da quelli dei loro coetanei delle città, raggiunti dallo stile di vita occidentale; questo è relazionato all’ambiente, alla cultura e alle circostanze in cui vivono. In città, infatti, i giovani credono che trasferirsi in Europa sia garanzia di felicità e benessere. Grazie al facile accesso all’informazione, vera o falsa che sia, (alla radio, alla televisione, al cinema), i giovani delle città sono stregati dalle nuove tecnologie, dall’evoluzione della scienza, dai divertimenti, dal modello di vita occidentale. Questo alimenta il folle desiderio e l’ostinazione di volersi recare a tutti i costi in Occidente, per beneficiare personalmente e direttamente di una vita più agiata, l’esatto contrario di ciò che offre loro l’Africa. D’altra parte, per i giovani che restano nel contesto rurale, privo dell’accesso ai mass media, si profilano all’orizzonte sogni di tutt’altro genere come, ad esempio, quello di diventare il miglior cacciatore o pescatore del villaggio, un eccezionale contadino, magari sull’esempio di un parente conosciuto per le sue abilità. Infatti, essere il miglior cacciatore, così come un eccellente agricoltore, evoca grande stima e rispetto nel villaggio. Realizzare sogni così modesti, e probabilmente poco significativi agli occhi di chi invece vive in città, significa attirare l’attenzione dei fratelli, affermarsi, ma, soprattutto, diventare argomento di discussione in tutto il territorio, segnando così la storia del proprio villaggio. Tutto questo dimostra come le ambizioni dei giovani africani differiscano tra chi cresce in campagna e chi in città.

    La routine degli abitanti di Boende è molto semplice: la mattina gli uomini si alzano e si dirigono verso la foresta infinita, attrezzati di tutto ciò che occorre per la caccia, la pesca e l’agricoltura. L’obiettivo, ovviamente, è procurare alle rispettive famiglie carne, pesce e tutto ciò che riescono a raccogliere. Le donne anziane restano a casa con i bambini più piccoli, le più giovani e coraggiose si recano in piena foresta a raccogliere frutta, verdura o si dedicano ben volentieri all’agricoltura, alla pesca, e talvolta anche alla caccia. A Boende si coltivano manioca, igname (pianta con fusto volubile, i cui tuberi, simili a quelli della patata, sono commestibili), arachidi, frutta e verdura. Poiché si tratta di una zona forestale, molti alberi da frutta vi crescono spontaneamente, perciò basta andarci per poi tornare a casa con qualunque cosa si desideri. La mattina si assiste a scene divertenti: le donne in fila indiana, munite di un cesto sulla schiena, si dirigono verso i sentieri della foresta intonando canzoni che ricordano le attività agricole alle quali si dedicano con grande passione. Va detto che da me, ma questo vale per tutta l’Africa nera, le canzoni non sono affatto casuali: si riferiscono ad avvenimenti precisi come la nascita, la morte, il matrimonio, le attività legate alla pesca, alla caccia, all’agricoltura, etc. Le donne sono la parte della popolazione che tramanda prevalentemente questa tradizione. Dalla mattina alla sera intonano canzoni significative legate all’attività del momento.

    Nonostante il sole cocente caratteristico della zona equatoriale, la gente lavora anche a mezzogiorno, quando la temperatura si aggira oltre i 40°. A quest’ora, ricordo che aveva luogo qualcosa di strepitoso che attirava la nostra curiosità e ci divertiva tanto. Alle 12 in punto il sole raggiunge il suo punto più alto nel cielo; uscendo in cortile, vedevamo la nostra immagine riflessa sul terreno e il sole esattamente all’altezza del capo, effetto che ci impediva letteralmente di vedere la nostra stessa ombra che, per contro, si disperdeva su e giù a partire dai nostri piedi, fino a scomparire sotto le nostre gambe. Appena arrivati da Kinshasa dove non avevamo mai assistito a niente del genere, io ed i miei fratelli ci divertivamo parecchio. La gente del posto era abituata a tutto ciò. Il nostro entusiasmo, le nostre curiosità e scoperte ci facevano comportare da stranieri. Quando giocavo con il mio fratellino Credo in cortile e ci divertivamo a vedere la nostra ombra scomparire sotto ai nostri piedi, tutti scherzavano, prendendosi gioco di noi; ci credevano pazzi, trovando strano che ci divertisse tanto l’idea di giocare sotto il sole accecante.

    Le vacanze nel villaggio erano divertenti e quando era ora di ripartire per la città, scoppiava la guerra con i nostri genitori. Alla domanda se preferivamo il villaggio o la città, la nostra risposta era semplicemente: Non vogliamo tornare a Kinshasa. Prediligevamo il villaggio alla città, coscienti del fatto che pur avendo da sempre vissuto in città, ritrovavamo nel villaggio la nostra vera vita. Qui era tutto più semplice, naturale, divertente. Ma, per farci capire che era ora di riprendere la routine, i nostri genitori esercitavano su di noi forti pressioni. La mamma, disperata nel tentativo di convincerci a tornare a Kinshasa, ci faceva delle domande: Perché vi ostinate a voler rimanere al villaggio dove la vita è così diversa dalla città? Avete dimenticato tutti i vostri compagni di scuola, gli amichetti, la televisione, i cartoni animati, la radio, la musica, insomma, la vita?. Nessuno di noi sapeva rispondere a queste domande e, tuttora, ammetto che non so perché già da bambino trovavo meglio la vita al villaggio che a Kinshasa. Era una dimensione umana diversa. A Boende ci si sentiva amati e coccolati, i nostri amici avevano abitudini genuine e spontanee; la loro routine, così semplice, disinvolta e incalzante, ci impressionava e affascinava al tempo stesso. Ecco la differenza rispetto alla città dove, al contrario, regnano l’indifferenza, l’egoismo e tutti i malesseri del caso. I nostri nonni, gli stessi zii e i nostri cugini erano sempre al nostro fianco, ci proteggevano e insegnavano tante cose al tempo stesso. Erano delle relazioni umane più soddisfacenti. Un esempio della semplicità nel villaggio: la sera verso le 18, la nonna era solita scaldare dell’acqua grazie alla legna raccolta nella foresta, ci metteva a sedere in cortile e ci lavava. Dopo il bagno ci ungeva la pelle con dell’olio di palma; quindi la mamma le passava il pigiama ed eravamo pronti per dormire. A differenza dei nostri compagni del villaggio, noi eravamo sempre ben vestiti e puliti. Tanti di loro invece indossavano brandelli di vestiti, altri erano addirittura nudi. Tuttavia, ricordo che rifiutavamo di indossare gli abiti della mamma e preferivamo far cambio con quelli dei nostri cugini. Era una cosa che ci piaceva e gratificava moltissimo. Anche se non capivo il perché, questo comportamento costituiva spesso un argomento di conversazione tra mamma e le sue amiche al nostro ritorno in città. Dopo il bagno, ci veniva servito un pasto bollente. Nella zona forestale i pasti sono il frutto giornaliero di caccia, pesca e raccolta di frutta e verdura; gli alimenti sono preferibilmente cucinati in enormi foglie d’albero, posizionandole sul fondo di una casseruola. Queste foglie rilasciano al cibo il proprio aroma dolce e naturale che stuzzica l’appetito anche in assenza della fame. Per cena ci si raggruppa tutti attorno ad una lampada a petrolio, formando così una grande cerchia famigliare con nonni, genitori, cugini e fratelli. Alla fine del pasto arrivava il momento più amato della giornata: il nonno ci accompagnava attorno al grande falò e, al chiaro di luna, ci narrava favole e leggende contenenti ciascuna una morale, una lezione di vita. Dal silenzio che ci avvolgeva si percepiva il rumore degli insetti del prato, mentre il nonno continuava nel racconto di fiabe sugli animali, alcuni più cattivi e più intelligenti, più forti e più feroci, o ancora più saggi e più generosi degli altri. La cosa più emozionante era quando il nonno si calava nella descrizione di un animale ben preciso di cui, all’istante stesso, riuscivamo a captare il verso emesso nella foresta. Quando ad esempio era il caso di un animale feroce, il nonno enfatizzava il racconto con voce cupa e allarmante; ci invitava al silenzio ribadendo che il minimo rumore avrebbe attirato l’animale, probabilmente ancora arrabbiato con un suo simile; il rischio di un’aggressione creava un’aspettativa tale da farci rimanere muti e immobili, rispettando l’ordine del nonno. Posso garantire che in quei momenti ognuno di noi provava emozioni diverse: da un lato avevamo paura di essere divorati da una bestia feroce, dall’altro, la presenza protettiva del nonno costituiva una garanzia, lui era il nostro eroe assoluto, poteva salvarci da qualsiasi pericolo. La sensazione era meravigliosa, erano tutte nuove emozioni che in città non avremmo mai potuto sperimentare; al villaggio ci sentivamo a nostro agio e ogni anno, quando arrivava il momento di andarci, lo facevamo con grande entusiasmo. Tale comportamento non aveva senso agli occhi dei nostri vicini di Kinshasa che non si spiegavano il motivo di tanta eccitazione per un povero e semplice villaggio in piena foresta. Per loro, privo di televisione, radio, corrente elettrica e acqua del rubinetto, il villaggio rappresentava solo un luogo sperduto e sprovvisto di ogni divertimento, sia per i bambini sia per gli adulti. Ma ciò che ignoravano è che lì c’erano tante cose diversamente interessanti rispetto alla televisione e alla radio. Per gli adulti, ad esempio, c’era il tam tam (tamburi) che animava le serate da un villaggio all’altro; i più piccoli, invece, s’intrattenevano con giochi che ricordavano la caccia e la pesca e tanti altri divertimenti ispirati all’ambiente e alle tradizioni. Purtroppo, queste

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