Una vita prima di te
Di Emma Tour
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Anteprima del libro
Una vita prima di te - Emma Tour
Emma Tour
Una vita prima di te
© 2023 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-3795-9
I edizione maggio 2023
Finito di stampare nel mese di maggio 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
Una vita prima di te
A mio figlio
Non ti auguro un dono qualsiasi,
ti auguro soltanto quello che i più non hanno.
[...]
Ti auguro tempo per contare le stelle
e tempo per crescere, per maturare
Ti auguro tempo, per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.
Ti auguro tempo per trovare te stesso,
per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono.
Ti auguro tempo anche per perdonare.
Ti auguro di avere tempo,
tempo per la vita.
(Elli Michler, Ti auguro tempo)
Capitolo primo
Variabili impazzite
Sono scolpite nella mia memoria le parole con cui mio padre era solito riassumere la sua esistenza, e con esse vorrei iniziare a raccontare la mia. Puoi pianificare la tua vita fino ai minimi dettagli, ma le sue variabili impazzite saranno sempre pronte a stravolgere i tuoi piani
. Variabili impazzite: le cose che non ti aspetti, nel bene e nel male quelle che sconvolgono ogni progetto e che conducono in tempi e luoghi inattesi.
E di variabili impazzite, nella mia vita, scoprii che ce ne sarebbero state molte. Ogni tentativo di procedere in linea retta su di un cammino lineare tracciato con la mia immaginazione verso un futuro roseo ha incontrato ostacoli e scogli sempre più impegnativi. La malattia, con la quale ho da sempre dovuto fare i conti, ha rischiato numerose volte di ridurre in frantumi tutto quello che avevo costruito: ho fatto quindi mia l’analisi di papà.
Variabili impazzite sono, però, anche gli incontri insperati, gli amori, le passioni. E, come mio padre amava raccontare, la mamma era stata il suo più grande e gioioso imprevisto. Lui, d’origine siciliana e piemontese, era cresciuto nel Nord Italia. Aveva studiato in collegio ed essendosi diplomato a pieni voti ricevette da subito molte offerte di lavoro.
Tra una posizione in Germania e altri ruoli che lo avrebbero potuto condurre in diverse regioni italiane, accettò la proposta di una grande compagnia assicurativa con sede a Milano. Tra gli incarichi proposti dalla società, scelse quello più distante da dove era cresciuto. Pensava che allontanarsi dalla sua zona di confort lo avrebbe arricchito di nuove esperienze, e che una città meridionale lo avrebbe cullato col suo calore umano. Di scelta in scelta finì per trasferirsi a Napoli, dove conobbe una giovane donna napoletana.
La giovane donna era mia madre e il loro amore sbocciò proprio sul luogo di lavoro. Mio padre era figlio unico, e con i suoi genitori aveva sì attraversato il difficile periodo della guerra, ma le solide risorse economiche di cui godevano gli permisero di affrontarlo e superarlo al meglio. La mamma era invece rimasta orfana in giovane età. Insieme alla sorella e ai fratelli, era cresciuta in una condizione di povertà, che aveva rafforzato a tal punto il loro legame da aumentare il divario che li separava dal resto del mondo.
I miei genitori furono da subito una coppia innamorata; dopo appena un anno dall’inizio della loro relazione, si sposarono e presto nacque mio fratello, Mauro. Il parto cesareo col quale venne alla luce non fu semplice, così i medici sconsigliarono a mia madre di avere una seconda gravidanza fino a che le sue condizioni di salute non fossero migliorate.
Il divieto non fu rispettato, e dopo quattro mesi la mamma rimase incinta di me. Non so se io sia frutto della loro volontà o piuttosto del caso; so però che la salute di mia madre era ancora precaria e che contro il parere di medici e familiari lei e papà decisero di portare avanti questa scommessa. Rischiò la sua vita per la mia. Contro ogni logica nacqui, senza complicazioni, di parto naturale.
Io non avrei dovuto neanche essere qui.
Quando, ormai adolescente, mi fu rivelata la natura sofferta della mia nascita, attraversai un momento traumatico. L’intento dei miei genitori era di narrarmi le mie origini e di dichiararmi l’immenso amore che avevano provato per me ancor prima che venissi alla luce, ma erano anni di ribellione e forse volli io stessa alimentare la tremenda fantasia di non essere neppure figlia loro.
Mi vedevo diversa da mamma, per carattere, per modi di fare e il turbinio di emozioni, dubbi e pensieri di quell’età così particolare mi resero sospettosa nelle mie fragilità. Iniziai a percepire la mamma come se fosse una matrigna. Ero gelosa del legame che aveva con mio fratello, e allo stesso tempo arrabbiata perché con me non riusciva a entrare in sintonia. Non le ho mai confidato nulla, mentre con papà ho avuto un rapporto più profondo, sebbene a tratti burrascoso. La sua cultura siciliana nutriva sia il suo affetto spropositato verso di me, figlia femmina, che la gelosia tipica dell’uomo del sud.
Nonostante la nascita sconsigliata, vissi i primi anni della mia vita circondata di amore e di affetto da parte dei miei genitori, zii, nonni e numerosi parenti. Nacqui a Napoli, dove restammo fino ai miei tre anni; per seguire gli incarichi di papà ci trasferimmo prima nel Lazio, dove vivemmo per due anni, e infine in una cittadina sulle sponde del Lago di Como.
Vivevamo ancora a Napoli quando la mia infanzia felice fu per la prima volta incrinata dai primi segnali della mia salute instabile. Avevo tre anni quando mi trovarono tracce di sangue nelle urine, e senza alcuna diagnosi certa o presunta da parte dei medici, fu raccomandato ai miei genitori di farmi osservare quattro giorni di completo digiuno e riposo assoluto, in totale contrasto con l’animo vivace di una bambina così piccola. A differenza di mio fratello, pacifico, rotondo, sereno, io ero già disperata, figlia della sofferenza.
Mamma mi raccontava che, sin da piccolissima, ero sempre nervosa, piangevo spesso e dormivo poco, ma è attraverso i racconti dolci di papà che ho costruito l’immagine della mia infanzia. Lui narrava con trasporto e, così facendo, mi permetteva di arricchire di particolari i confini sfumati della mia giovane età.
Dopo quattro giorni a digiuno, eri così affamata che hai spalancato la bocca con foga al tuo primo pasto, anche se si trattava solo di cipolle bollite
, e mimava se stesso che anni prima m’imboccava col cucchiaio. Dalla voce tremante di un uomo all’apparenza così sicuro e forte percepivo la tenerezza del dolore che aveva provato per me, la sua fragile figlia. Dal punto di vista clinico, si pensò erroneamente che il problema fosse superato e che comunque si fosse trattato di un episodio isolato. Non fu così, e riemerse gravemente durante gli anni dello sviluppo.
Diversi aneddoti degli anni della mia prima infanzia mi sono stati raccontati dai miei genitori. Le notti insonni, i pianti, il cucchiaio e le cipolle: i racconti di papà colmano molte lacune della mia memoria. Una notte, probabilmente l’ennesima, mentre io ancora dormivo nel lettone coi miei genitori, mi sentì piangere e stremato dalla mancanza di sonno arretrato, alzò d’istinto le braccia che mi sorreggevano come per farmi volare, purtroppo non per gioco. Quel gesto di stizza e nervosismo sortì la risata contagiosa di una bambina che a quell’età pensa solo che suo padre voglia giocare con lei. Scoppiò a ridere anche lui, sorpreso dalla mia inaspettata reazione, per poi calmarsi subito dopo come se non fosse successo nulla. Ero diversa da mio fratello, di soli sedici mesi più grande. Io piccola, vivace, irrequieta; mentre mamma mi cambiava il pannolino, mangiavo le pagine del Corriere della Sera
che papà lasciava quotidianamente sul comodino.
Alcune immagini fotografiche sorreggono i miei vaghi ricordi: una famiglia felice, benestante, che passeggia in riva al mare in una tranquilla sera d’estate. Fin da subito, infatti, fummo una famiglia ben vista. Conducevamo uno stile di vita degno di essere vissuto: non ci mancava nulla. Attiravamo gli sguardi ammirati e invidiosi degli altri. Mamma era una bellissima donna, papà uomo di successo, io e mio fratello due bambini piccoli e sani. Almeno così si pensava.
La nostra vita a Napoli andava per il meglio, ma la voglia di papà di fare carriera, di tornare a vivere al nord per riavvicinarsi alla propria famiglia e, al contempo, allontanarsi da quella della mamma era forte. Un giorno, era inverno, mi venne a prendere all’asilo. Mi trovò nuda dalla vita in giù, sola al centro di un’enorme stanza vuota. Si sentì in colpa pensando di non avermi lasciata alle cure migliori e quell’immagine diede una spinta in più alla sua ambizione.
Sono voluto fuggire via con te, piccola mia
, mi disse, gli occhi chiusi come a rivivere ogni istante di quel ricordo. Sono voluto fuggire per portarti via
. Nei suoi racconti, il mio asilo assumeva i tratti grigi di un orfanotrofio.
La sua sensibilità ben nascosta emerse quando mi vide in quelle condizioni. Lasciare la città fu un altro modo, per lui, di fare carriera rapidamente, di gettarsi anima e corpo nel lavoro per garantire ai suoi figli un futuro che riteneva migliore.
Quando avevo quattro anni, ci trasferimmo nel Lazio, dove papà continuava a fare l’ispettore assicurativo. Soddisfò così la sua fame professionale, anche se il vero avanzamento lavorativo avvenne qualche anno dopo. Non ricordo tensioni tra i miei genitori a proposito dello spostamento, anche se ora immagino che siano stati palpabili, già allora, i germi dei litigi futuri. Papà partì per primo e noi tutti lo raggiungemmo, pochi mesi dopo. Io e mio fratello dovemmo cambiar scuola a metà anno scolastico.
Di quel periodo ricordo che una sera, avrò avuto circa sei anni, ero con mio fratello a giocare nella nostra camera mentre i miei genitori chiacchieravano in cucina. Sentimmo il grido irritato di papà: Smettila di toccare il tavolo!
. Non era però il ticchettio nervoso della mamma, il battito incessante e ritmato del suo piede a far vibrare tutto. Immediatamente videro il lampadario oscillare, le piastrelle alzarsi e staccarsi dal pavimento: il