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Disabilandia. Il continuo
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E-book162 pagine2 ore

Disabilandia. Il continuo

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Info su questo ebook

Luca Mercuri ci conduce in un viaggio in due tempi, dal suo turbolento passato adolescenziale fino alla sua straordinaria vita adulta, costellata di successi sportivi e realizzazioni personali. La sua narrazione sincera e avvincente ci permette di immergerci nel mondo complesso delle sue esperienze, delle sue emozioni e delle sue conquiste.
LinguaItaliano
Data di uscita3 nov 2023
ISBN9791222469775
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    Anteprima del libro

    Disabilandia. Il continuo - Luca Mercuri

    PARTE I - L'età dell'adolescenza

    Piacere, Luca

    Sono consapevole che ormai la stragrande maggioranza della popolazione mondiale scriva la propria autobiografia, confettando in qualsiasi lingua e in qualsiasi stile la storia della sua vita, e sono sincero nel dire che non credevo potesse capitare anche a me; tuttavia, caso ha voluto che io rientrassi in questa categoria di autori.

    Non temete, non mi spingerò mai oltre, non muterò la verità; vi racconterò di me, della mia vita e vedrete che ogni sentimento provato nel leggermi sarà reale... sì, reale, e la mia storia sarà uno specchio, che rifletterà solo la verità così com’è, a volte semplice, a volte ricca di ritorsioni, belle o brutte.

    Potrete entrare nella mia mente e vivere con me i ricordi di una vita, tra gioie e dolori, tra sconfitte demoralizzanti e piccole, importanti, vittorie quotidiane. Non sarà il tipico, pesante, raccontino, tutto date e luoghi da ricordare, né una svenevole storiella dalle lacrime facili, e se non rispetterò la parola data, sentitevi liberi di chiudere il libro in qualsiasi momento.

    Mi presento: mi chiamo Luca Mercuri e sono nato l’11 aprile del lontano 1971 ad Arsago Seprio, un paesino di circa cinquemila anime in provincia di Varese. Solo da pochi mesi mi sono trasferito a Gallarate, dove oggi vivo con la mia compagna, Paola, e i suoi tre figli.

    Quando venni al mondo, era Pasqua e avrebbe dovuto essere un giorno doppiamente festoso per tutti, soprattutto per i miei, ma così non fu. Anche se la nascita di un figlio porta gioia e calore nel cuore di qualunque genitore, per i miei l’effetto fu diverso e questo perché mi fu diagnosticata una distrofia muscolare, malattia genetica neuromuscolare il cui nome è complesso al pari un codice fiscale, artrogriposi multipla congenita - credetemi se vi dico che è più facile pronunciarla che scriverla - tuttavia, nonostante le premesse di scarso valore, allo scoccare delle ore 18.00, la cicogna portò a termine il suo lavoro.

    Pensare che mia madre, dopo aver avuto due maschi, avrebbe desiderato una femmina - figuratevi se quarantadue anni fa era possibile fare un’ecografia! Forse era destino che le facessi una sorpresa, anche se non quella che si aspettava.

    Nel vedermi, il sesso divenne l’ultimo dei problemi! Certo, non dovevo essere un bello spettacolo, così aggrovigliato; secondo quanto raccontatomi, sembrava che volessi imitare una posizione del kamasutra. Ero dotato solo di una piccolissima percentuale di muscoli e, già da allora, fu chiaro per tutti che la mia vita non sarebbe stata per nulla semplice; a oggi ho subito quarantadue interventi con trapianti ossei e muscolari.

    Quando la luce mi sfiorò per la prima volta, i medici e gli infermieri rimasero sgomenti; uscirono dalla sala travaglio e, senza alcuna delicatezza, urlarono: «È nato un mostro! È nato un mostro!» neanche si fosse trattato del figlio di Fantozzi! Mio nonno, Vincenzo, e mio zio, Ottavio, allarmati da tali urla, corsero a vedermi e, arrabbiati e delusi, con un velo di tristezza negli occhi, rimproverarono i medici, dicendo loro che ero il bambino più bello che avessero mai visto - un bel pacioccone di quasi quattro chili, mica male per essere un groviglio, alla faccia dei medici e delle loro cattiverie! Povera, mia madre, che, ancora sotto shock per la situazione, dovette sorbirsi anche gli sgradevoli commenti di quegli orchi con il camice bianco che, solo perché avevano una laurea in mano, si credevano onnipotenti - vabbè, cosa possiamo farci, purtroppo esisteva anche allora la mamma dei cretini. Pensate che, ancora non soddisfatti, affiancati da alcuni miei parenti, provarono anche a convincere mia madre che mettermi in un istituto sarebbe stata la decisione più razionale, data l’impossibilità di futuri miglioramenti. Non so come mi sarei comportato nella medesima situazione, ma probabilmente avrei lottato come ha fatto lei, anche perché ho ereditato il suo carattere forte: piuttosto mi spezzo ma non mollo.

    Finalmente, dopo un’accesa discussione fui portato a casa, dove conobbi i miei due fratelli Franco e Davide, all’epoca rispettivamente di nove e sei anni, mia nonna Teresa, una parte di parenti, anche loro scioccati, e i padroni di casa, Maria, una donna piccina, e suo marito Luigi. Maria e Luigi erano persone eccezionali ed è solo grazie a loro se, per tanti anni, abbiamo avuto un tetto sulla testa. Purtroppo, la vita non aveva donato loro figli e vedevano noi più piccoli un po’ come nipoti. Volevano persino regalarci la cascina così che in futuro potessimo assicurarci almeno un tetto sulla testa, ma i miei si rifiutarono di accettare un simile regalo, poiché sarebbe stato come approfittare della loro generosità, così la pagarono, seppur con tanti sacrifici. Mattone su mattone mio padre, Antonio, imbianchino e tappezziere di mestiere, la restaurò da cima a fondo, con l’aiuto di una grande persona, il signor Leone, un bravissimo capomastro che lo aiutava come poteva, nel tempo libero.

    Purtroppo, a causa della situazione, mia madre si dovette licenziare dal maglificio presso cui lavorava; tuttavia, ne conservò sempre un bellissimo ricordo, poiché anche lì conobbe persone stupende che all’occorrenza la sostituivano, anche per giorni se necessario; di solito quelle assenze erano una necessità, in quanto doveva accompagnare me all’ospedale, per visite o operazioni, mai prese un solo giorno per sé. E che grand’uomo mio padre che, con tanti sacrifici, era disposto a lavorare senza sosta pur di provvedere alla famiglia. Quanti i soldi sborsati dietro interventi e spese ospedaliere.

    I miei fratelli, poi, erano sempre soli in casa, perché i miei genitori diedero la precedenza a me. Mio padre non aveva orari e appena lo chiamavano per un lavoro, lui si precipitava, come avesse vinto alla lotteria, a volte anche per poche lire; per fortuna che allora i tempi erano diversi ed era pagato regolarmente, altrimenti chissà dove ci troveremmo oggi...

    Su qualcosa, però, i tempi non cambieranno mai: né lo Stato, né la regione ci sono mai venuti incontro con sovvenzioni d’alcun tipo! Si parla tanto di sostegni finanziari per invalidi, quando in realtà lo Stato non faceva assolutamente nulla per chi, come me, aveva realmente bisogno. Generalizzo di proposito questa situazione incresciosa, anche se ci sarebbero tutti i presupposti per spostare l’indice contro la mia regione, dal momento che seppi da fonti certe che regioni come la Sicilia, la Calabria e la Sardegna pagavano tutto a persone con il medesimo disagio, dal viaggio, alle spese ospedaliere e persino l’albergo. Chiedo scusa per la direzione che ha involontariamente preso il mio racconto, ma sento il sangue ribollire dalla rabbia al pensiero di tante promesse fatte nel periodo delle votazioni e rimangiate subito dopo.

    Allora, miei cari politici, voi che mangiate tanto a discapito nostro, forse ignorate cosa sia la vera bontà. Quella di persone che si privano del cibo per darlo a uno sconosciuto, che sembrerebbe avere più problemi; quella di persone che, quando cadi, ti porgono la mano per aiutarti a rialzare. Di gente buona ce n’è tanta in giro, ma non si dà loro la possibilità di tirare fuori le proprie capacità lavorative; e quanti bravi studiosi che vorrebbero fare di più per la propria patria e, invece, sono costretti a migrare verso terre lontane, per poter studiare e per costruirsi un futuro!

    Ma torniamo alla mia storia... il primo intervento lo subii al diciassettesimo giorno dalla nascita, per il raddrizzamento delle ossa. Mi posizionarono in trazione, e non vi dico in che posizioni dovetti stare nei mesi che seguirono, per potermi poi operare al meglio. Il mio corpo ha dovuto tollerare ben quattrocento anestesie, che ancora oggi mi danno problemi, e indossare più di quattrocento ingessature che se non ho battuto il guinness dei primati di certo ci sono andato vicino... a pensarci, avere come soprammobile un gesso d’oro, con su scritto l’uomo più ingessato del mondo, non sarebbe male.

    Le tante anestesie mi trascinarono, inevitabilmente, verso danni irrimediabili, come fortissimi mal di testa che, quando meno me lo aspettavo, mi portavano a rimettere, e poi l’insonnia con il poco appetito che ne conseguiva.

    Per ultimo vi riservo come sempre il meglio: per il troppo piangere mi scoppiò persino l’ernia. Così, da un ospedale uscii e in un altro entrai.

    Infatti, quando i miei mi portarono a casa, fui ricoverato subito all’ospedale più vicino per poi essere operato d’urgenza all’ernia; parevo una marionetta, sballottata qua e là. Il dottore in un primo momento si era opposto all’operazione, perché ne avevo appena subita una, ed essendo troppo piccolo temeva che il mio corpo non avrebbe sopportato ancora un’anestesia. Mosso da compassione disse a mia madre: «E adesso come faccio a operarlo? Ha già sofferto molto, mi piange il cuore farlo tornare sotto i ferri». Tuttavia, se non lo avesse fatto, forse non sarei qui oggi e altro che Fantozzi!

    Vita da ospedale

    Continuai a girare gli ospedali di tutta Italia: Verona, Bologna e ancora Milano, dove mi operarono pur non conoscendo la diagnosi; per loro ero una cavia o giù di lì, e finirono col rovinarmi un ginocchio. Poi, fu la volta della clinica ultramoderna di Basilea, o almeno così ci era stato riferito dai fisioterapisti del centro A.I.A.S di Busto Arsizio.

    Il primario pareva Hitler con il suo accento tedesco, i baffetti e la costante serietà, senza mai un sorriso neppure a pagarlo, da far paura! Con aria spavalda spiegò a mia madre la situazione, chiedendole per la visita trecentomila lire e per l’intervento addirittura, alla mano, venti milioni di lire - che ai tempi erano un patrimonio - e naturalmente senza garantirne l’esito positivo. Mia madre, delusa e irritata, diede i soldi per la visita e uscì dall’ambulatorio senza salutare. Lo avrei fatto anch’io, e credo anche tanti di voi.

    Figuratevi che volevano mandarmi addirittura in Siberia per un allungamento alla gamba. Dicono che tutti abbiamo una gamba più corta dell’altra, ma sarà veramente così? Personalmente non me ne sono mai accorto, forse dipenderà dal fatto che ho sempre camminato un po’ storto. Poi, come se la Siberia fosse dietro l’angolo... la gente le fa facili le cose, basta che non siano loro a doverle fare. Tuttavia, mi fa sorridere il pensiero di mia madre che avrebbe parlato calabrese con i medici russi, i quali non avrebbero capito una sola parola. E dopo il dizionario italiano-inglese, ecco a voi il nuovo dizionario calabro-russo.

    Col passare del tempo mia madre ebbe ancora svariate consulenze con medici d’ogni dove, ma nessuno capiva l’origine della mia malattia, si rifiutavano persino di toccarmi per paura di rovinarmi come già era successo. Alcuni dottori, addirittura, chiedevano a mia madre di quale malattia si trattasse, e dentro di me dicevo: Iniziamo bene.

    Poi un giorno una persona al centro A.I.A.S. di Busto Arsizio, dove tutti i santi giorni facevo fisioterapia, disse a mia madre di provare l’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova. Un tentativo in più per noi non avrebbe fatto alcuna differenza, così, pur non essendo vicino, decidemmo di partire, inconsapevoli che lì avrei trovato la salvezza e l’opportunità di una nuova vita.

    Scoprii di essere il primo caso in Italia con questa patologia e per loro divenni una cavia, d’importanza primaria, poiché se le operazioni eseguite avessero dato esito positivo, avrebbero potuto intervenire anche su casi simili al mio. Per tutto ciò che di positivo ne seguì da quel momento in avanti, devo ringraziare l'indimenticabile dottor Mastragostino, detto anche mastro Geppetto, la dottoressa Canale, il dottor Boero, il dottor Stella, il dottor Carbone e il gessista, il dottor Valle, dei veri maghi delle ossa che, con la loro equipe al seguito, studiarono questa patologia anche in America, più precisamente alle Hawaii.

    Sul mio tragitto ebbi, inoltre, la fortuna d’incontrare persone dal cuore d’oro, come gli infermieri Mirco e Milena, la caposala Garofano, o ancora, gente del posto con figli ricoverati nel mio stesso reparto, che non esitavano ad aiutare me e mia madre, soli in quel luogo a noi sconosciuto. Il momento della giornata che preferivo in assoluto era la sera, quando alle mamme era permesso l’accesso alla cucina per preparare piatti tipici della propria città di appartenenza, in modo che noi pazienti potessimo assaggiare sempre nuove pietanze. Un altro aspetto che amavo di quel luogo era l’armonia. Ogni settimana, in un giorno prestabilito, venivano a trovarci dei ragazzi che, nel cortile, suonavano la chitarra per tenerci compagnia e aiutarci a trascorrere una serata in spensierata allegria; ormai eravamo diventati una grande famiglia.

    Prima di essere sottoposto ai trapianti, ero mandato in un centro a San Martino, dove mi mettevano degli aghi nelle braccia e nelle gambe che servivano a capire dove avrebbero dovuto intervenire con la ricostruzione dei muscoli o, nel caso, aggiungere il muscolo mancante. Poi, il giorno prima dell’intervento, mi depilavano l’arto da operare, per evitare che la parte si infettasse - non vi dico che fatica a toglierli! Pensate che usavano il tagliacapelli elettrico, perché con il rasoio a mano rischiavano di metterci una vita! Poi, finiti i lavori in corso su di me, andavo nella sala medica a vedere i ferri che avrebbero utilizzato di lì a poco e i muscoli artificiali da trapiantare.

    Le domande erano sempre tantissime, del tipo: Ma quei ferri dove li inserite?, Le placche dove vanno?, Con le viti cosa dovete farmi?. Eh sì, lo so, ero molto curioso... ma, permettetemi, gli arti erano i miei e dovevo conviverci per il resto della vita; inoltre, se si fosse rotto qualcosa, almeno sarei stato al corrente

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